inserito in Diritto&Diritti nel ottobre 2004

La concessione delle basi italiane, nella vicenda irachena, quale obbligo giuridico scaturente dal trattato bilaterale segreto italia-u.s.a. del 1954. proposta di una lettura costituzionalmente orientata.

Avv. Luigi D'Angelo

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Sommario: Premessa; 1) I tentativi di fornire un fondamento giuridico all’intervento militare anglo-americano; 2) La concessione delle basi militari ubicate sul territorio italiano, l’accordo bilaterale segreto Italia-U.S.A. del 1954 ed il Trattato dell’Organizzazione del Nord Atlantico; 2.1) Il problema del fondamento giuridico delle non article 5 operations”;

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Premessa.

Con le riflessioni che seguono si tenterà di effettuare una valutazione, in un’ottica prettamente giuridica, della condotta tenuta dallo Stato italiano relativamente alla recente occupazione dell’Iraq da parte delle truppe anglo-americane, ciò alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento interno ed internazionale ed al fine di saggiare, in un contesto di legalità, una delle motivazioni portate a giustificazione della decisione concernente la concessione, alle forze belligeranti, delle basi militari ubicate sul territorio nazionale[1].

 

L’assunto di base, da più parti sostenuto, da cui scaturirà l’analisi, è quello secondo cui con il conflitto armato in Iraq si sia realizzata, ad opera degli Stati aggressori, una gravissima violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento internazionale.

 

Diversamente, del resto, qualora fosse intervenuta una copertura giuridica ad opera delle Istituzioni internazionali a ciò preposte e legittimante la condotta tenuta dall’armata anglo-americana, non vi sarebbe stato motivo di indagare la posizione dello Stato Italiano almeno quale membro di un’organizzazione internazionale.

 

Va evidenziato, tuttavia, che secondo certa dottrina un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza all’uso della forza da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati contro l’Iraq sarebbe stata, in ogni caso, illegittima, poiché non conforme ai principi della Carta delle Nazioni Unite.

 

Si è fatto notare che le funzioni del Consiglio di Sicurezza sono giuridicamente vincolate alle finalità dettate della Carta di San Francisco del 1945 ovvero il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; rispetto al raggiungimento di tale fine, è vero che il Consiglio gode di un’ampia discrezionalità, ma ciò soltanto nell’accertamento di una minaccia alla pace (o sicurezza) e nell’individuazione delle misure da adottare per favorirla o ripristinarla, non anche, invece, nel perseguimento del fine stesso.

 

Il CdS non è legibus solutus ma è tenuto al rispetto delle disposizioni della Carta ONU, in specie quelle dalle quali derivano i suoi poteri e che ne disciplinano l’esercizio. In caso di violazione di tali disposizioni le risoluzioni del CdS devono considerarsi illegittime[2].

 

Sulla basi di tali premesse è stato pertanto sostenuto che nella crisi irachena, l’obiettivo, non altrimenti surrogabile, della tutela del valore “mantenimento della pace e della sicurezza”, doveva realizzarsi, in realtà, non con la debellatio dell’Iraq, bensì con il disarmo del regime di Saddam Hussein, come anche chiarito da numerose risoluzioni.

 

In altri termini - e riprendendo le conclusioni formulate dalla migliore dottrina sulla problematica concernente l’uso della forza finalizzata a sventare stragi umanitarie – si vuole evidenziare che il perseguimento del valore fondamentale della tutela della pace e della sicurezza internazionale, non può essere sospinto fino alla possibilità che con un intervento coercitivo unilaterale si metta in pericolo il valore stesso; in caso di contrasto tra le istanze di tutela dei diritti fondamentali minacciati da un ipotetico utilizzo di armi di distruzioni di massa e la tutela del valore “mantenimento della pace e sicurezza”, in una prospettiva di bilanciamento, è il secondo valore che deve prevalere[3].

 

Del resto, nel caso di specie, l’autorizzazione all’uso della forza da parte del Cds avrebbe non soltanto rappresentato una misura sproporzionata alla paventata minaccia, ma, ancor peggio, avrebbe finito per conferire fondamento alla nuova dottrina della guerra preventiva.

 

Dottrina, di cui, invero, non è difficoltoso svelarne la contraddittorietà con i vigenti principi del diritto internazionale.[4]

 

Dunque, qualora fosse stata adottata una risoluzione autorizzante l’uso della forza, il CdS avrebbe violato le disposizioni della Carta ONU, contravvenendo ai principi ispiratori della stessa, con conseguente illegittimità della risoluzione medesima; problema, quest’ultimo, concernente anche la posizione assunta dal CdS successivamente all’invasione, in particolare con la risoluzione n. 1483 del 22 maggio 2003, da alcuni imputata di aver avallato ex post l’intervenuto attacco armato.

 

Ciò posto, si rende ora necessario indicare preliminarmente, in una prospettiva critica, anche le argomentazioni portate a sostegno della tesi configurante l’intervento militare in Iraq come conforme ai dogmi dell’ordinamento giuridico internazionale, anticipandosi, sin da ora, l’inaccettabilità di quella argomentazione che “operando una totale inversione rispetto a quanto sembrava acquisito alla fine degli anni Ottanta, considera di nuovo la Carta dell'ONU come un diritto pattizio speciale (e cedevole) rispetto alle (si torna a sostenere) sempre valide norme del diritto internazionale consuetudinario pre-ONU, che consideravano - e tuttora considererebbero - il "diritto alla guerra" come un diritto naturale degli Stati [5].

 

Impostazione, questa, non aderente alla conquista giuridica conseguitasi proprio con l’istituzione dell’ONU - e con l’avvento delle nuove costituzione democratiche - che ha visto trasformare la guerra da fatto a-giuridico, a fatto anti-giuridico.

 

1) I tentativi di fornire un fondamento giuridico all’intervento militare anglo-americano.

Una prima tesi ha proposto di configurare l’attacco sferrato all’Iraq quale atto di esercizio del diritto di legittima difesa ex art. 51 della Carta delle Nazioni Unite; in particolare, si è invocata la risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1368 del 12 settembre 2001 la quale richiamava il suddetto articolo al fine di legittimare l'intervento degli Stati Uniti in Afghanistan in reazione all'attacco alle Torri Gemelle.

 

A tale impostazione, tuttavia, possono essere mosse due obiezioni difficilmente superabili: in primo luogo può evidenziarsi che la legittima difesa implica il diritto di respingere un attacco armato in atto “sul presupposto della impossibilità di evitarne gli effetti mediante altri tipi di azioni … e salvaguardare così l’integrità territoriale della Stato aggredito[6].    

 

Circostanza fattuale, questa, evidentemente non sussistente nel caso di specie.

 

In secondo luogo, si è osservato che stante l’assenza di prove certe sui paventati legami tra Al Quaeda ed il regime del Raiss, non poteva essere validamente evocata l’operatività della suddetta risoluzione, apparendo altresì inammissibile l’equiparazione dei terroristi internazionali ad organi di fatto dello Stato iracheno[7]. Su tale ultima circostanza, inoltre, si innesta l’ulteriore problematica, ben evidenziata in dottrina[8], concernente la scissione tra Stato e nemico, laddove si assiste, nell’attuale scenario internazionale, ad elevare le organizzazioni terroristiche alla stregua di uno Stato belligerante, così conferendo loro riconoscimento e legittimazione sul piano giuridico al fine di muover guerra contro esse.

 

Ecco allora che il nemico non è più identificato con uno Stato, bensì assume le sembianze impalpabili del terrorista, del kamikaze etc., non comprendendosi, tuttavia, che è precisamente la guerra lo scopo di questo “nuovo” nemico “proprio perché come guerra, simmetricamente, esso si propone e vuol essere riconosciuto sul piano, appunto, simbolico. E che perciò la risposta al terrorismo è tanto più efficace quanto più è asimmetrica: quanto più ai terroristi non viene attribuito lo statuto di “belligeranti”' ma solo quello di “criminali”, e le loro aggressioni sono riconosciute non già come atti di guerra ma come crimini contro l'umanità[9].

 

Una seconda tesi portata a sostegno della legalità dell’attacco contro l’Iraq si fonda sulla violazione della risoluzione n. 687 del 3 aprile 1991 che imponeva al governo iracheno tutta una serie di obblighi ed adempimenti finalizzati al disarmo, tra cui quelli di collaborazione con gli ispettori ONU.

 

Più nel dettaglio, si è sostenuto che la violazione di siffatta risoluzione, adottata all’indomani della cessazione delle ostilità originate dall’invasione del Kuwait da parte dei militari iracheni, avrebbe prodotto una reviviscenza della precedente risoluzione n. 678 del 29 novembre 1990 contenente l’autorizzazione del CdS all’uso della forza per contrastare l’azione delle forze di Saddam Hussein[10].

 

In realtà, la risoluzione n. 678 subordinava la cessazione definitiva delle ostilità all'accettazione degli obblighi ivi previsti da parte del governo iracheno, accettazione, come noto, intervenuta, con conseguente ripristino, pertanto, del divieto generale dell'uso della forza nelle relazioni internazionali da parte dei singoli Stati, compresi quelli della coalizione formatasi a suo tempo a difesa del Kuwait[11].

 

Di qui l’impossibilità di considerare un’ultrattività di detta risoluzione.

 

Un’ultima tesi, sostenuta dal governo degli Stati Uniti (e non solo), è quella che giustifica l’intervento militare in virtù della risoluzione del CdS n. 1441 dell’ 8 novembre 2002 con cui l'ONU richiedeva all’Iraq un disarmo totale, incondizionato ed immediato e prospettava, in caso contrario, serie conseguenze.

 

E’ stato evidenziato che “la prospettazione di serie conseguenze non basta mai, nella prassi del Consiglio di Sicurezza, a legittimare un intervento armato sotto l'egida delle Nazioni Unite, come dimostra la stessa affannosa ricerca di un'intesa su una ulteriore risoluzione destinata proprio a specificare tali "gravi conseguenze"[12].

 

Ad ogni buon conto la risoluzione dopo aver qualificato come "minaccia alla pace" l'inadempimento iracheno ai propri obblighi in materia di disarmo precedentemente  imposti, istituiva, al contempo, un nuovo regime di controllo internazionale per verificare il rispetto di detti impegni. Ulteriori violazioni o mancate cooperazioni sarebbero state riportate al Consiglio di sicurezza “al fine di considerare la situazione per garantire la pace e la sicurezza internazionale".

 

La risoluzione, dunque, rimandava ad una successiva decisione circa l'eventuale impiego della forza; ciò, pertanto, porta ancora ad escludere che dalla stessa potesse desumersi una sorta di autorizzazione implicita all'utilizzo degli strumenti di coercizione armata[13].

 

2) La concessione delle basi militari ubicate sul territorio italiano, l’accordo bilaterale segreto Italia-U.S.A. del 1954 ed il Trattato dell’Organizzazione del Nord Atlantico.

Un tesi particolarmente interessante, su cui ci si soffermerà, è quella configurante quale atto giuridicamente dovuto, per lo Stato italiano, la concessione agli americani delle basi militari ubicate sul territorio nazionale, ciò alla luce di un accordo internazionale tra Stati Uniti ed Italia teso proprio a regolamentare l’utilizzo di dette infrastrutture.

 

Si fa riferimento, in particolare, all’accordo bilaterale Italia-Usa del 20 ottobre 1954, rimasto segreto fino a pochi anni addietro[14], il quale ha disciplinato, anche in virtù di successive integrazioni, ovvero il Memorandum attuativo d'Intesa del 1995 anch’esso segreto e riservato, l'uso da parte delle forze armate statunitensi delle infrastrutture concesse loro in uso nel nostro territorio.

 

Va altresì precisato che dette intese rappresentano la conseguenza di un apporto che l'Italia fornisce ad una Alleanza politico-militare (difensiva) ossia la N.A.T.O..

 

In particolare, la presenza di installazioni e strutture militari che ospitano forze statunitensi sul nostro territorio deriva dall'adesione dello Stato italiano al Trattato di Washington del 4 aprile 1949, dal quale sono poi scaturiti ulteriori atti attuativi come, appunto, il citato accordo bilaterale, la Convenzione tra gli Stati partecipanti al Trattato Nord Atlantico sullo Statuto delle loro Forze Armate firmata a Londra il 19 giugno 1951 e ratificata con Legge 30 novembre 1955, n. 1335 (c.d. S.O.F.A. N.A.T.O.), nonché la relativa normativa regolamentare di attuazione di cui al DPR 2 dicembre 1956, n. 1666.

 

Le basi, dunque, sarebbero state legittimamente concesse anche in virtù del menzionato accordo quadro bilaterale Italia-U.S.A., intimamente collegato con il Trattato dell’Organizzazione del Nord Atlantico, ratificato dall’Italia, e, pertanto, detta concessione, sarebbe da configurarsi, secondo la prospettazione in commento[15], quale atto non antigiuridico sia per il diritto interno che internazionale[16].

 

Si rende necessario verificare, allora, l’autonoma rilevanza giuridica del citato accordo bilaterale del 1954 (stipulato segretamente in considerazione del clima di confrontation militare nel periodo della guerra fredda) alla luce dei principi costituzionali ed internazionali, ciò, si ribadisce, al fine di valutare la legalità della condotta tenuta da parte delle autorità nazionali che anche ad esso si sono “affidate” per giustificare il loro operato.

 

Iniziando l’analisi sul piano dell’ordinamento interno, una prima argomentazione prospettabile, al fine di valutare l’efficacia giuridicamente vincolante dell’accordo segreto de quo, può essere percorsa indagando i principi della nostra Costituzione in tema di trattati internazionali.

 

A tal proposito occorre evidenziare che il combinato disposto degli artt. 80 e 87, co. 8°, Cost. prescrivono una particolare procedura per la stipulazione di alcune categorie di trattati e segnatamente per quelli: a) di natura politica; b) che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari; c) che importano variazioni del territorio; d) che importano oneri alle finanze; e) che importano variazioni di leggi. Viene sancito che in tali casi spetta al Capo dello Stato la competenza a ratificare previa autorizzazione alla ratifica da parte delle Camere.

 

Orbene, non sembra potersi dubitare che l’accordo segreto in commento rientri nell’ambito della categoria dei trattati aventi natura politica.

 

Può essere osservato che il trattato di Washington del 1949, con cui l’Italia ha aderito alla N.A.T.O., è stato regolarmente ratificato e reso esecutivo in Italia con la Legge 1 agosto 1949, n. 465, in ottemperanza alle menzionate norme costituzionali.

 

Ciò posto, apparirebbe davvero problematico sostenere che l’accordo segreto del 1954, strettamente connesso e collegato al trattato N.A.T.O., come sopra evidenziato, sia in realtà un accordo avente una natura diversa, cioè “non politica”, e come tale sottratto al dictum delle citate norme postulanti la stipulazione nella cosiddetta forma solenne.

 

Volendo utilizzare le categorie del diritto civile potrebbe sostenersi l’esistenza, tra i due accordi, quello del 1949 e quello del 1954, di un collegamento “negoziale” soggettivo (identità delle parti contraenti) ed oggettivo (identità di causa intesa come ragione pratica della stipulazione ossia i fini istituzionali dell’Alleanza Atlantica).

 

Sulla natura politica degli accordi internazionali di matrice militare, del resto, appare orientata anche autorevole dottrina: in sede di discussione e approvazione dell’art. 80 Cost., nella 1^ Sottocommissione della Commissione del Ministero per la Costituente, i relatori Ago e Morelli inclusero nei trattati aventi natura politica “i trattati di pace, di collaborazione politica e di collaborazione militare (alleanze)”[17] ovvero quelli comportanti vincoli che incidono in maniera non trascurabile sulla politica estera della Repubblica[18].

 

Di qui, allora, un evidente profilo di illegalità dell’accordo politico in commento, alla luce del diritto interno, concluso in spregio alla procedura di stipulazione solenne.

 

Potrebbe essere obiettato, tuttavia, che i trattati internazionali segreti, proprio in ragione delle esigenze di riservatezza, pur se di natura politica, non potrebbero essere assoggettati all’anzidetta procedura costituzionale.

 

Ecco, allora, che il problema si sposta sulla possibilità di configurare e ritenere ammissibile, nel nostro ordinamento, un trattato segreto quale fonte di obblighi giuridicamente rilevanti per i rispettivi Stati contraenti.

 

In realtà, gli studi dedicati a tale figura non sono particolarmente numerosi in dottrina, ciò soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della L. 11 dicembre 1984, n. 839[19], normativa che, secondo alcuni, avrebbe definitivamente sancito il divieto del segreto negli atti pattizi delle relazioni internazionali[20].

 

Si tratta, del resto, di una legge che sembra accogliere le preoccupazioni di quell’indirizzo dottrinario che predicava l’incompatibilità del trattato segreto, sia di natura politica che non politica, con i principi della nostra Costituzione[21] ed in particolare quello di cui all’art. 80[22].

 

Ancor più efficacemente, poi, è stato rilevato che in realtà il problema della liceità costituzionale dei trattati segreti ”non ha in pratica modo di porsi, dato che cronologicamente il suo acutizzarsi è normalmente preceduto dall’estinzione dell’accordo per effetto della clausola rebus sic stantibus[23].

 

Se infatti la segretezza dell’accordo, intesa come conoscibilità dello stesso solo da parte dei soggetti contraenti, è dagli stipulanti considerata elemento fattuale preminente ai fini dell’esplicazione degli effetti, il venir meno della stessa non può che comportare la caducazione del trattato; argomentazione, questa, che se riferita alla fattispecie in esame porta alla conclusione dell’avvenuta estinzione dell’intesa essendo la stessa, come sopra rammentato, non più segreta.

 

Di qui, dunque, la possibilità di sostenere l’assunto dell’irrilevanza giuridica, sul piano del diritto interno, dell’accordo bilaterale del ’54, con conseguente improduttività di effetti legali impegnativi in capo allo Stato italiano.

 

E sul piano del diritto internazionale? Quali conseguenze si producono nel caso di elusione delle norme interne sulla competenza alla stipulazione dei trattati?

 

La risposta è fornita dalla Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969[24] codificante il diritto dei trattati, che all’art. 46 sancisce la nullità di quegli accordi internazionali conclusi in violazione manifesta di norme interne sulla competenza a stipulare, precisandosi, all’art. 46.2, che ricorre una violazione manifesta allorquando essa è obiettivamente evidente per qualunque Stato che si comporti in buona fede e secondo la pratica abituale in materia.

 

Dall’applicazione di detta norma, allora, conseguirebbe l’inidoneità dell’accordo segreto de quo a produrre effetti giuridicamente vincolanti per le parti contraenti, non potendosi ravvisare per lo Stato italiano, anche sul piano del diritto internazionale, alcun obbligo legale di concessione delle basi.

 

A tale conclusione, tuttavia, può essere mossa una obiezione: la Convenzione di Vienna del 1969 è successiva all’accordo segreto e pertanto non è applicabile al caso di specie. Ciò, del resto, si evince dalla stessa Convenzione che all’art. 4 sancisce la sua non retroattività applicandosi, invero, “solo ai trattati conclusi dagli Stati dopo la sua entrata in vigore per gli Stati stessi”, restando gli accordi precedentemente perfezionatisi sottoposti alla disciplina preesistente.

 

Ciò posto, la nullità in questione rileverebbe soltanto per il diritto interno, essendo la nostra Costituzione già in vigore al tempo della stipula del trattato bilaterale del 1954, ma non anche sul piano del diritto internazionale, nell’ambito del quale gli obblighi assunti dall’Italia con gli USA manterrebbero, pertanto, la loro efficacia vincolante stante l’irretroattività della Convezione.

 

Orbene, pare potersi replicare a tale plausibile argomentazione che, se è vero che la Convenzione di Vienna non è dotata di efficacia retroattiva, è vero anche che la disciplina in essa contenuta è frutto di una cosiddetta convenzione di codificazione del diritto consuetudinario in materia di trattati internazionali.

 

Ciò significa che alcuni dei principi codificati dalla Convenzione di Vienna, risultavano già operanti nel diritto internazionale quali principi di diritto consuetudinario, e per questi, pertanto, la Convenzione ne avrebbe soltanto formalizzato il contenuto attraverso una loro enunciazione.

 

La stessa Corte Internazionale di Giustizia, del resto, in talune sentenze[25], ha affermato che uno degli effetti delle convenzioni di codificazione è proprio il prodursi di un effetto dichiarativo[26], concretizzazantesi nella formulazione di norme che “trascrivono” il contenuto di regole e principi di diritto consuetudinario.

 

In altri termini, il principio della nullità, nell’ordinamento internazionale, di quei trattati perfezionatisi in violazione delle norme domestiche, avendo trovato nella Convenzione di Vienna soltanto una formalizzazione - stante il carattere consuetudinario dello stesso - porterebbe comunque a concludere per l’invalidità/inefficacia dell’intesa del ’54, non operandosi, pertanto, un’applicazione retroattiva dell’art. 46 citato.

 

Va però osservato che nel periodo antecedente la firma della Convenzione di Vienna “era incerto entro quali limiti uno Stato potesse invocare come causa di nullità la violazione delle più importanti norme interne costituzionali sulla stipulazione dei trattati[27].

 

Sembra, più nel dettaglio, che con riferimento alle conseguenze (sul piano internazionale) derivanti dalla violazione di norme interne a stipulare, l’art. 46 della Convenzione non abbia prodotto un effetto dichiarativo, nel senso sopra chiarito, bensì un meno pregnante effetto di cristallizzazione, da intendersi quale “consolidamento” di norme consuetudinarie in statu nascendi[28].

 

Ed accogliendo tale prospettazione dovrebbe coerentemente concludersi per l’irrilevanza o la nullità dell’accordo del 1954 soltanto sul piano del diritto interno, per quanto sopra esposto, ma non anche sul piano del diritto internazionale, ove resterebbe giuridicamente vincolante[29].

 

Pare però potersi insistere comunque, seppure per altra via, sulla tesi patrocinata (irrilevanza dell’intesa segreta anche nell’ordinamento internazionale) rammentando che in dottrina non è mancato chi, ponendosi in una diversa prospettiva interpretativa, ha avanzato il dubbio che, in realtà, dette intese segrete, lungi dall’appartenere al genus degli atti internazionali di natura pattizia giudicamene vincolanti, rappresentino in realtà dei  gentlment’s agreements ovvero atti convenzionali privi di obbligatorietà sotto il profilo giuridico.

 

Trattasi, in particolare, di conclusione cui è giunta un’attenta dottrina[30], la quale, sulla scorta di un’approfondita analisi della prassi internazionale[31]e delle norme consuetudinarie in materia, è giunta ad affermare che gli accordi in questione non sembrano (poter) essere regolati dal diritto internazionale.

 

Si è fatto osservare che in caso di controversia tra gli Stati contraenti un accordo segreto, l’unico strumento utilizzabile risulta essere il negoziato (ovviamente segreto), con conseguente venire meno della possibilità di ricorrere a quell’articolato (e giuridicizzato) sistema di soluzioni delle controversie internazionali (inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, etc.) che la stessa Carta delle Nazioni Unite impone, invero, alle parti di una controversia suscettibile di mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale[32]. Obbligo ritenuto dalla prevalente dottrina altresì fondato su un principio del diritto internazionale generale.

 

E si badi che detta circostanza si rivela piuttosto significativa in considerazione del fatto che il prevedere la soluzione di eventuali controversie in via giurisdizionale/giustiziale, rappresenta il dato maggiormente indicativo della volontà della parti di concludere un accordo vincolante sul piano del diritto. In caso contrario, invece, pare potersi desumere un intento giuridico negativo ovvero una volontà di vincolarsi soltanto sul piano della reciproca lealtà e collaborazione (di qui l’espressione “accordi d’onore”).

 

Inoltre, è dalla constatata impossibilità di applicare a dette intese segrete - non per motivi temporali, bensì in astratto - la disciplina dei singoli istituti del diritto dei trattati palesi (sospensione, estinzione, etc.), che trae ulteriore fondamento la tesi dell’impossibilità di assoggettare le stesse ad un regime di legalità internazionale.

 

Di qui la conclusione che configura detti accordi segreti, nell’ambito dell’ordinamento internazionale, come sprovvisti di portata giuridica e quindi assimilabili alle intese palesi non vincolanti per gli Stati stipulanti.

 

2.1) Il problema del fondamento giuridico delle non article 5 operations”.

Da ultimo va osservato che in assenza di una presa di posizione formale del Consiglio Atlantico riguardo alla crisi irachena, diversamente da quanto avvenuto a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle, laddove è stata invocata l’applicazione dell’art. 5 del Trattato N.A.T.O., il riferimento fatto in sede parlamentare gli obblighi scaturenti dalla partecipazione dell’Italia all’Alleanza Atlantica, con la finalità di giustificare la concessione delle basi, potrebbe indurre a chiamare in causa la “normativa” sulle cosiddette “non article 5 operations[33], ciò ai fini di fornire una copertura legale all’utilizzo delle basi.

 

Detto in altri termini, una volta esclusa l’efficacia giuridicamente vincolante del trattato segreto del 1954 e volendo ancora trovare un fondamento giuridico alla concessione delle basi italiane, non potendosi richiamare l’art. 5 del trattato N.A.T.O., la decisione delle Autorità Nazionali potrebbe essere giustificata invocandosi le “non article 5 operations”, introdotte a seguito di modifiche all’originario patto atlantico.

 

Si è però osservato che “sulla valida adozione di queste sostanziali modificazioni del Trattato N.A.T.O., come originariamente stipulato, il giudizio va formulato avuto riguardo ai sistemi costituzionali dei vari Stati membri. E' indubbio che si tratta di impegni nuovi che prevedono anche l'adozione di comportamenti non di legittima difesa. Per quanto riguarda l'Italia appare dunque corretta la tesi che ritiene sarebbe stata necessaria una nuova pronuncia parlamentare ai sensi dell'art. 80 Cost.[34].

 

In definitiva, se è vero che gli impegni ed obblighi aggiuntivi rispetto al Trattato originario (operazioni non art. 5) sorgono all’esito della conclusione di accordi in forma semplificata fra gli Stati membri della N.A.T.O., non rappresentando, quindi, decisioni del Consiglio Atlantico attuative di precetti già contemplati, sembra, a rigore, non sufficiente ai fini della loro validità ed efficacia, dal punto di vista del diritto interno, il meccanismo di adattamento dell'ordine di esecuzione predisposto nei confronti dell’accordo istitutivo del 1949[35].

Riproponendosi, così, anche in tal caso, parte delle eccezioni e perplessità concernenti la cogenza, sul piano interno ed internazionale, del trattato segreto del ’54 in considerazione del verificarsi dell’aggiramento dei precetti di cui agli artt. 80 e 87, co. 8°, Cost..

Note:

[1] Risoluzioni della maggioranza n. 6-00038 e n- 6-00057 approvate il 19 marzo 2003 dalla Camera (304 voti a favore, 246 voti contrari e due astenuti) e dal Senato (159 voti a favore, 124 voti contrari ed un astenuto), in www.parlamento.it.

[2] U. Villani, Il disarmo dell’Iraq e l’uso della forza nel diritto internazionale, 2003, in http://dex1.tsd.unifi.it/juragentium/it/.

[3] F. Lattanzi, Assistenza umanitaria e intervento di umanità, Giappichelli, 1997.

[4] C. Pinelli, Grozio e la dottrina dell'intervento preventivo, 2003, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, il quale afferma che “è' inutile cercare nel diritto internazionale positivo un fondamento della guerra in Iraq”; osserva inoltre U. Villani, Il disarmo dell’Iraq e l’uso della forza nel diritto internazionale, 2003, cit., che “la dottrina Bush rappresenta un ampliamento rispetto ad una teoria, già in passato sostenuta, secondo la quale il ricorso preventivo alla forza sarebbe consentito, eccezionalmente, per difendersi da un pericolo, reale e imminente di attacco armato, suscettibile di pregiudicare l'esistenza stessa di uno Stato. Il caso classico sarebbe rappresentato dalla guerra dei sei giorni del 1967, iniziata da Israele di fronte ad una evidente mobilitazione dei Paesi arabi e a dichiarazioni di loro governi che potevano fare temere per la sopravvivenza dello Stato di Israele, in caso di attacco contro il suo territorio. Quale che sia la valutazione giuridica di questa forma di legittima difesa, chiamata talvolta "cautelativa" o "anticipatory", è evidente la sua differenza rispetto alla difesa preventiva della dottrina Bush: mentre, nel primo caso, sussiste una minaccia, precisa e localizzata, di un attacco armato comportante il rischio di distruzione di uno Stato, tale da essere verificabile in termini oggettivi, nella dottrina Bush il pericolo può essere vago e indeterminato, risultare dalle semplici intenzioni di uno Stato e, principalmente, esso è demandato alla valutazione del tutto soggettiva dello Stato che si sente minacciato”.

[5] L’osservazione (critica) è di M. Dogliani, Il valore costituzionale della pace e il divieto della guerra, Relazione presentata al convegno “Guerra e Costituzione”, Università Roma Tre, 12 aprile 2002, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; nota infatti l’A. che “riesumare la naturalità del ius ad bellum come componente essenziale, incomprimibile ed irrinunciabile della statualità significa far franare l'intero ordinamento costruito sulla base della Carta dell'ONU”.

 

[6] E. Cannizzaro, Il principio della proporzionalità nel diritto internazionale, Giuffrè, 2000.

[7] C. Di Turi,  La guerra in Iraq e il diritto internazionale, 2003, in www.associazionecostituzionalisti.it.

[8] Sul punto, C. De Fiores, “L’Italia ripudia la guerra”? – La Costituzione di fronte al nuovo ordine globale, Ediesse, 2002, 47 e ss.; L. Ferrajoli, L’alternativa la diritto, 2001, in http://www.larivistadelmanifesto.it.

[9] L. Ferrajoli, L’alternativa la diritto, 2001, cit., secondo cui “è pur vero che il terrorismo è sempre un fenomeno politico, che va capito e fronteggiato anche politicamente. Ma è proprio nell'asimmetria rispetto ad esso convenzionalmente stabilita dalla sua qualificazione giuridica come “crimine” – violenza privata e non pubblica, come è invece la guerra – che risiede il segreto del suo depotenziamento ed isolamento e perciò del ruolo del diritto quale fattore di pace e di civilizzazione: strumento, appunto, del trapasso dallo stato di guerra allo stato di diritto, dalla società selvaggia alla società civile”.

[10] Tale tesi è stata sostenuta dal Presidente del Consiglio dei Ministri nell’intervento sulla crisi irachena al Senato del 19 marzo 2003, in http://www.governo.it/Presidente/Interventi/testo_int.asp?d=18760.

[11] In tal senso, U. Villani, Il disarmo dell’Iraq e l’uso della forza nel diritto internazionale, 2003, cit.

[13] C. Di Turi,  La guerra in Iraq e il diritto internazionale, 2003, cit.; nel senso che la risoluzione n. 1441/2002 escluda ogni automatismo nell'uso della forza, cfr. U. Villani, Il disarmo dell’Iraq e l’uso della forza nel diritto internazionale, 2003, cit, il quale evidenzia che le interpretazioni date nelle loro dichiarazioni di voto dai rappresentanti della Francia, della Russia e della Cina, sottolineano “che la risoluzione n. 1441 adotta un approccio in due tempi, il quale comporta che, qualora l'UNMOVIC o l'AIEA riferiscano al Consiglio di sicurezza inadempimenti dell'Iraq, sia lo stesso Consiglio a valutare la loro gravità e a decidere le conseguenze”.

[14] Il 10 marzo 1999, in un solenne discorso alla Camera, l’allora Presidente del Consiglio ha di fatto tolto il vincolo di segretezza intorno ai trattati che disciplinano l'uso delle basi militari americane in Italia e ciò all’indomani dell'assoluzione, da parte di una Corte Marziale statunitense, del pilota dell'aereo americano imputato della strage della funivia del Cermis del il 3 febbraio 1998; nell’intervento del Premier si afferma che “ Il Governo ha stabilito, di fronte alle richieste della Procura militare di Padova che indaga sulle eventuali responsabilità del comando italiano della base, e della Procura della Repubblica di Trento di accedere al testo dell'Accordo quadro bilaterale Italia-Usa del 20 ottobre 1954, di porre tali documenti a disposizione di quell'autorità giudiziaria. Si tratta dell'Accordo, finora secretato, che ha disciplinato, anche in virtù di successive integrazioni, l'uso da parte delle forze armate statunitensi delle infrastrutture concesse loro in uso nel nostro territorio. Noi non solo non opporremo il segreto, ma metteremo tali documenti a disposizione dell'autorità giudiziaria”, in www.repubblica.it/online/dossier/basi/ale/ale.html.

[15] Nell’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri alla Camera dei Deputati del 19 marzo 2003 sulla crisi irachena, a seguito del quale la Camera prima ed il Senato successivamente autorizzavano il sorvolo dei cieli italiani da parte degli aerei USA e l’utilizzo delle basi militari ubicate sul territorio nazionale, si richiama più volte la vigenza del Patto Atlantico e l’impossibilità di metterlo in discussione, in www.governo.it.

[16] Va tuttavia rammentato che gli “strumenti” previsti dal Trattato NATO sono comunque subordinati alla Carta delle Nazioni Unite. Gli obblighi derivanti dalla Carta ONU, infatti, in virtù del principio fissato nell'art. 103 della Carta stessa, prevalgono su tutti i diversi obblighi imposti da altri trattati internazionali.  Inoltre l'art. 1 del Trattato NATO stabilisce che i contraenti, in conformità con la Carta delle NU, si impegnano a risolvere con mezzi pacifici le controversie internazionali delle quali saranno parti e ad astenersi dalla minaccia e dall'uso della forza in maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite. L'art. 5 del Trattato NATO prevede poi l'esercizio della legittima difesa individuale e collettiva in conformità con quanto stabilito dall'art. 51 della Carta, con obbligo di comunicazione delle misure adottate al CdS e di cessazione dell'azione quanto il CdS avrà adottato le misure idonee a ristabilire e a mantenere la pace internazionale. L'art. 7 del Trattato NATO dichiara infine, del tutto espressamente, che il Trattato non modifica e non deve essere interpretato come modificante i diritti ed obblighi discendenti per le parti dalla Carta delle NU o il compito prioritario del CdS in tema di mantenimento della pace e della sicurezza internazionali.

[17] R. Ago e G. Morelli, Rapporti internazionali dello stato, in Riv. dir. internazionale, 1977, vol. 60, 334 e ss..

[18] A. Cassese, a cura di Paola Gaeta, Diritto internazionale, vol. I,I Lineamenti, Il Mulino, 2003, 190, dove si fa specifico riferimento anche agli accordi che prevedono la concessione delle basi nonché agli accordi di cooperazione in materia tecnico-militare.

[19] “Norme sulla Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana e sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana”, in G.U. 17-12-1984, n. 345, Serie Generale.

[20] In tal senso, S. Labriola, La pubblicazione degli atti normativi e la circolazione delle notizia sulle relazioni internazionali della Repubblica Italiana, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1985, fasc. 2 (giugno), p. 235 e  ss.; afferma l’A. che a seguito della legge n. 839/1984, il divieto del segreto “ riceve una esplicita e non dubitabile riaffermazione positiva nell’ordinamento giuridico, in forza di una norma legislativa che, per questa parte, appare posta in diretta esecuzione della Costituzione”.

[21] In tal senso, A.Cassese, Art. 80, in Commentario della Costituzione, Bologna, 1979, p. 176; Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, II, 1976, p. 685.

[22] Cfr. S. Labriola, La pubblicazione degli atti normativi e la circolazione delle notizia sulle relazioni internazionali della Repubblica Italiana, cit., p. 240, il quale afferma che il divieto del segreto “la cui efficacia evidentemente si fa valere dal punto di vista dell’ordinamento interno, può essere fatto derivare, tra l’altro, proprio dall’applicazione nel senso più compiuto della norma costituzionale di cui all’art. 80 Cost.”.

[23] Ferrari Bravo, Diritto internazionale e diritto interno nella stipulazione dei trattati, Napoli, 1964, p. 82 (nota).

[24] Cfr. Legge 12 febbraio 1974, n. 112, recante “Ratifica ed esecuzione della convenzione sul diritto dei trattati, con annesso, adottata a Vienna il 23 maggio 1969”.

 

[25] Casi Legal Consequences for States of the Continued Presence of South Africa in Namibia (ICJ Reports, 1971, p. 47) e ICAO Council (ICJ Reports, 1972, p. 67) dove la Corte Internazionale di Giustizia ha precisato che l’art. 60 della Convenzione di Vienna concernente l’estinzione e la sospensione dei trattati in caso d’inadempimento di una parte contraente è dichiarativo del diritto consuetudinario esistente.

[26] Nel caso Fisheries Jurisdiction (ICJ Reports, 1973, p. 18) la Corte Internazionale di Giustizia ha sostenuto la corrispondenza al diritto consuetudinario dell’art. 62 della Convenzione di Vienna in materia di estinzione dei trattati per effetto del mutamento radicale delle circostanze.

[27] A. Cassese, Diritto internazionale, 2003, cit., p. 204.

[28] La Corte Internazionale di Giustizia nel caso Pescherie Islandesi (ICJ Reports, 1973, p. 14) ha attribuito un effetto di cristallizzazione del diritto consuetudinario all’art. 52 della Convenzione di Vienna concernente l’ipotesi di violenza sullo Stato come causa di nullità dei trattati.

[29] A meno di voler contestare tale conclusione aderendo ad una concezione cosiddetta “monista”, secondo la quale il diritto interno includerebbe anche il diritto internazionale, prevalendo su quest’ultimo, a ciò conseguendo che le norme interne sulla competenza a stipulare avrebbero piena rilevanza anche nell’ordinamento internazionale, stante il principio di unitarietà degli ordinamenti, con il corollario per cui una loro violazione invaliderebbe il consenso manifestato anche sul piano dei rapporti tra Stati. Concezione, però, da leggere criticamente alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione. Tuttavia, un’altra possibile strada percorribile per replicare alla conclusione anzidetta (nullità del trattato per l’ordinamento interno ma non anche per quello internazionale) è quella che porta alla prospettazione di una nullità sopravvenuta dell’accordo de quo. Potrebbe sostenersi che con riguardo al principio della nullità dei trattati per violazione delle norme interne a stipulare, se è vero che la Convenzione del 1969 ha prodotto, invece che un effetto dichiarativo, un effetto di cristallizzazione, nel senso di portare a compimento il processo di formazione di una norma di diritto internazionale generale,  è vero anche che l’art. 64 della Convenzione stessa stabilisce che nel caso in cui emerga una nuova norma imperativa di diritto internazionale generale, “ogni trattato esistente che è in contrasto con tale norma, diviene nullo”. Principio, quest’ultimo, che rappresenta ovviamente un’eccezione all’irretroattività delle norme della Convenzione di Vienna, imponendo di valutare la conformità di un trattato al diritto internazionale non soltanto al tempo della sua formazione, ma anche in quello successivo della sua operatività. Di qui, dunque, la possibilità di ritenere privo di effetti vincolanti l’accordo bilaterale Italia-USA, a patto di riconoscere carattere imperativo alla norma sulla nullità degli accordi internazionali a cagione della violazione sulle regole interne relative alla stipulazione.

[30] P. Fois, Il tratto segreto nel sistema degli accordi internazionali, in Rivista di diritto internazionale, 1990, fasc. 4 (dicembre), p. 825 e ss..

[31] Osserva P. Fois, Il tratto segreto, cit., 825, che “l’accordo segreto è da considerare come un atto che, se da un lato vincola coloro che l’hanno materialmente sottoscritto, non viene dall’altro avvertito giuridicamente vincolante dagli organi dello Stato che siano succeduti ai firmatari dell’accordo …i nuovi responsabili della politica estera ben potranno – ed è d’altronde quanto assai spesso si verifica – attenersi a quanto deciso dai predecessori, ma soltanto in quanto concordino circa la perdurante convenienza politica dell’accordo segreto”; l.’A trae spunto dal caso degli ostaggi francesi in Libano  rilasciati nel maggio 1988 sulla base di un’intesa segreta intervenuta tra emissari del governo Chiraces e esponenti filo-iraniani (cfr. nota 61, p. 825).

[32] P. Fois, Il tratto segreto, cit., 828.

[33] Trattasi dei  nuovi strumenti di collaborazione internazionale introdotti dall’Alleanza Atlantica nel 1991 e 1999 con lo Strategic Concept, finalizzati, come noto, ad un restyling del patto militare dovuto allo spirare della stagione bipolare.

[34] A. Giardina, Guerra e attuazione della Costituzione, Relazione presentata al convegno “Guerra e Costituzione, Università Roma Tre, 12 aprile 2002, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[35] In tal senso C. Fioravanti, La Carta delle Nazioni Unite e il trattato Nato, Contributo alla conferenza ”Onu e Nato negli interventi armati: profili internazionali e profili interni”,12 maggio 1999, Biblioteca Comunale Ariostea, Ferrara, in www.studiperlapace.it.