inserito in Diritto&Diritti nel dicembre 2004

L’efficacia “esimente” delle regole di ingaggio (R.O.E.) nelle missioni militari internazionali ed il loro rapporto con le cause di non punibilità codificate nella legislazione penale comune e militare.

di Avv. Luigi D'Angelo

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Sommario: 1. La natura giuridica delle R.O.E.; 2. Missioni all’estero assoggettate alla novellata legislazione penale di guerra: il problema dell’applicabilità delle esimenti previste dal codice penale militare di pace e l’alternativa della “riespansione” delle esimenti del codice Rocco.

 

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1. La natura giuridica delle R.O.E..

Con le riflessioni che seguono si intende soffermare l’attenzione sull’individuazione dei limiti all’uso della forza cui sono assoggettati i militari italiani impegnati in missioni pacificatrici all’estero.

 

Indagine, che, senza pretese di completezza, appare utile per tentare di tracciare una linea di demarcazione tra le condotte lecite e quelle illecite - legate all’utilizzo delle armi - in astratto realizzabili dagli appartenenti alle Forze Armate nell’adempimento dei propri doveri di servizio nelle operazioni de quibus.

 

Come noto i limiti all’uso della forza da parte dei militari italiani all’estero risultano dalle cosiddette regole d’ingaggio (R.O.E.) [1].

 

Occorre tuttavia interrogarsi sui rapporti intercorrenti tra tali regole d’ingaggio ed altre norme dell’ordinamento italiano, applicabili ai militari all’estero, ed in particolare quelle codificanti cause di non punibilità a fronte della commissione di fatti di reato.

 

In particolare, la problematica che si pone è: possono le R.O.E. prevedere un uso della forza più “elastico” rispetto a quello consentito - ricorrendo determinate condizioni - dalla normativa penale in materia di uso legittimo di armi, legittima difesa individuale, etc.[2]? Oppure vi è coincidenza, con la conseguenza che soltanto al ricorrere dei presupposti previsti dalle norme penalistiche ed alle condizioni dalle medesime stabilite, i soldati italiani, nel caso di uso della forza armata, non sconfineranno nell’area del penalmente rilevante?

 

Evidentemente, la risposta agli interrogativi presuppone una previa indagine sulla natura giuridica delle ROE, ciò per valutare la loro “posizione” nell’ambito delle fonti dell’ordinamento.

 

Soltanto, infatti, nell’ipotesi in cui le ROE risultassero rivestire il grado di una fonte normativa pari a quella della legislazione sulle cause di non punibilità, potrebbe in astratto essere ritenuta ammissibile una regolamentazione derogatoria, con l’effetto che le regole d’ingaggio sarebbero idonee, in sostanza, a scriminare condotte che, invero, non ricadrebbero nell’ambito operativo delle già codificate cause di esenzione dalla pena.

 

Diversamente, però, qualora le ROE venissero configurate quali fonti subordinate alla legge, non potendosi evidentemente ammettere deroghe alla stessa da parte di una fonte sottordinata, le regole d’ingaggio non potranno che “doppiare”, quanto a contenuto e limiti, gli elementi contenutistici previsti dalle varie cause di non punibilità codificate, ricadendo, dunque, nell’area del penalmente apprezzabile, tutte quelle condotte criminose in queste ultime non “ricomprese”.

 

Sembra maggiromente condivisibile la seconda opzione interpretativa, configurandosi le ROE, in realtà, quali atti amministrativi-ordini gerarchici.

 

Per la dimostrazione di tale assunto occorre brevemente richiamare la normativa disciplinante l’invio all’estero dei contingenti militari italiani.

Al proposito devono essere menzionate due fondamentali previsioni legislative.

Si tratta, in particolare, dell’art. 1, 1° co., L. 14 novembre 2000, n. 331, rubricato “Compiti delle Forze Armate”, che menziona, tra gli atri, il compito di “operare al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, in conformità alle regole del diritto internazionale ed alle determinazioni delle organizzazioni internazionali delle quali l’Italia fa parte” e dell'art. 1, 1° co., lett. a), della L. 18 febbraio 1997, n. 25, a norma del quale il Ministro della Difesa “attua le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza adottate dal Governo, sottoposte all'esame del Consiglio Supremo di difesa e approvate dal Parlamento".

Occorre evidenziare, inoltre, che la Commissione Difesa della Camera dei Deputati, con la risoluzione n. 7-1007 del 16 gennaio 2001, ha apportato ulteriori elementi di precisazione al vigente quadro normativo specificando, con riferimento all’indicato procedimento decisionale, la necessità di quattro passaggi procedurali: 1) una deliberazione governativa con conseguente informativa alle Camere; 2) l’approvazione da parte delle due camere della deliberazione governativa; 3) seguito governativo alla delibera parlamentare tramite presentazione di un disegno di legge o emanazione di un decreto-legge contenente la copertura finanziaria della missione; 4) adozione delle disposizioni attuative da parte della amministrazione militare.

A rigore, pertanto, il Ministro della Difesa, nell’ambito delle proprie attribuzioni nella materia concernente l’invio all’estero dei militari italiani - per le finalità previste dalla legge suddetta - provvede ad eseguire, in via amministrativa, le deliberazioni dell’Esecutivo sottoposte all’esame del Consiglio Supremo di Difesa, approvate dall’assemblea parlamentare (nella prassi mediante un atto non legislativo), necessitando a monte, in ogni caso, che l’adottanda decisione sia conforme al diritto internazionale e alle determinazioni di quelle organizzazioni internazionali cui lo Stato Italiano appartiene[3].

Ora, essendo il Ministro della Difesa il massimo organo gerarchico e disciplinare preposto all’Amministrazione militare, come sancito dall’art. 1, L. n. 25/1997, appare indiscutibile che i provvedimenti dallo stesso adottato in materia di missioni all’estero rappresentino ordini gerarchici.

Più nel dettaglio va specificato che le ROE, verosimilmente elaborate dall’Autorità politica nell’ambito del primo passaggio procedurale sopra indicato (deliberazione governativa), è vero che necessitano di essere approvate dall’assemblea parlamentare, ma siffatta approvazione non è disposta con un atto legislativo, bensì con un atto di indirizzo (risoluzione)[4].

Successivamente, pertanto, sarà il Ministro della Difesa (ed il relativo staff) a tradurre, anche tecnicamente, dette ROE in provvedimenti vincolanti per le truppe, sotto forma, appunto, di ordini gerarchici vincolanti.

Ma se così è, allora, dovendo gli ordini gerarchici essere conformi alla legge, come previsto dall’art. 4, L. n. 382/1978[5], appare chiaro che le ROE non potranno derogare ai presupposti ed ai limiti contenuti nelle disposizioni in materia di esimenti codificate.

Così, ad esempio, quanto all’utilizzo legittimo delle armi, non potrà essere ipotizzato un impiego di armamenti a scopo preventivo, unilaterale ed offensivo, dovendosi invece rispettare il disposto dell’art. 41 c.p.m.p. che postula la “necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza”.

Allo stesso modo, l’operatività della norma sulla legittima difesa ex art. 52 c.p., nel caso di commissione di reati comuni (non militari) nell’ambito di quelle missioni assoggettate al codice penale militare di pace[6], sarà subordinata al ricorrere di una situazione “aggressiva” (il presentarsi di un pericolo attuale di un'offesa ingiusta) che rende necessario difendere un diritto proprio od altrui e sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.

Ne consegue che l’adozione di regole d’ingaggio autorizzanti, ad esempio, un uso delle armi anche in termini più ampi di quelli previsti dall’art. 41 c.p.m.p. ovvero in termini sproporzionati, a fronte di pericoli non attuali, etc., realizzerebbe una violazione del principio di legalità.

2. Missioni all’estero assoggettate alla novellata legislazione penale di guerra: il problema dell’applicabilità delle esimenti previste dal codice penale militare di pace e l’alternativa della “riespansione” delle esimenti del codice Rocco.

Risolto nel senso della “coincidenza” il problema dei limiti contenutistici delle R.O.E., occorre ora affrontare un ulteriore problema: ai militari impegnati in missioni all’estero ed assoggettati al codice penale militare di guerra[7], possono essere applicate le esimenti previste dal codice penale militare di pace?

Il quesito è non privo di risvolti applicativi, soprattutto se si considera che alcune delle cause di non punibilità previste dalla legislazione di pace (art. 41 e 44 c.p.m.p.) possono trovare un’applicazione ampia poiché riferibili anche alla commissione di reati comuni (non militari) realizzati da un appartenente alle Forze Armate[8].

 Così, ad esempio, l’esimente dell’uso legittimo di armi, che come visto circoscrive l’ambito dell’utilizzo della forza al ricorrere di determinate circostanze, qualora venisse ritenuto non applicabile ai militari impegnati nelle missioni da ultimo ipotizzate, produrrebbe come conseguenza una “restrizione” delle cause di non punibilità concernenti il personale militare, con riduzione dei casi di legittimo uso della forza, poiché, pur potendosi paventare una riespansione dell’esimente di diritto penale comune (art. 53 c.p.), l’operatività della stessa sarebbe tuttavia preclusa dalla mancanza della qualità di pubblico ufficiale in capo agli appartenenti alle Forze Armate[9].

Il problema è che sul punto si fronteggiano differenti ricostruzioni: quella secondo cui l’applicazione della legge penale militare di guerra determinerebbe la temporanea sospensione della legge penale di pace[10], e quella per cui, stante il carattere di complementarietà della prima rispetto alla seconda, ravvisa una contemporanea vigenza dei due complessi normativi, uno dei quali, quello di guerra, contenente norme prevalenti perché speciali rispetto a quelle contenute in quello di pace e disciplinanti la stessa materia[11].

Siffatta seconda ricostruzione appare, a ben vedere, maggiormente condivisibile, ciò alla luce del diritto positivo ed in particolare in forza del combinato disposto degli art. 19 c.p.m.p., a norma del quale “Le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate dalla legge penale militare di guerra e da altre leggi penali militari, in quanto non sia da esse stabilito altrimenti “e dell’art. 47 c.p.m.g. già menzionato.

Pare potersi concludere, allora, che sia nel caso di applicazione del codice penale militare di pace che di guerra, per il tramite della disciplina delle esimenti codificate, risulta possibile delineare il confine contenutistico delle R.O.E. ed, in particolare, la loro effettiva efficacia “esimente”[12], ciò in relazione alla commissione di fatti di reato - anche di natura non militare - nell’ambito delle missioni all’estero.

Note:

[1] Nella seduta del 7 novembre 2001 – Senato della Repubblica, 63^ seduta pubblica - concernente “Comunicazioni del Governo sull’impiego di contingenti militari italiani all’estero in relazione alla crisi internazionale in atto e conseguente discussione”, il Ministro Martino ha precisato che le ROE “Rappresentano le direttive diramate dalle competenti autorità militari, che specificano le circostanze e i limiti entro cui le forze possono iniziare o continuare il combattimento con quelle contrapposte. Le ROE, quindi, limitano o autorizzano l’uso della forza nel rispetto del diritto internazionale e della legge sui conflitti armati, nonché delle leggi e regolamenti nazionali in vigore. Naturalmente, la scelta delle ROE deve essere compatibile con la missione”, in www.parlamento.it..

 

[2] Oltre alle esimenti previste dal codice penale del ’30 si pensi all’art. 41, c.p.m.p. – Uso legittimo di armi – “Non è punibile il militare, che, a fine di adempiere un suo dovere di servizio, fa uso, ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza”; art. 44, c.p.m.p. – Casi particolari di necessità militare – “Non è punibile il militare, che ha commesso un fatto costituente reato, per esservi stato costretto della necessità di impedire l'ammutinamento, la rivolta, il saccheggio, la devastazione, o comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell'aeromobile”; etc..

 

[3] Per un approfondimento su punto, limitato a possibili profili di illegittimità scaturenti dal mancato rispetto della indicata procedura decisionale, sia consentito rinviare a L. D’Angelo, Missioni di pace all’estero dei contingenti militari e carenza di potere in concreto, in www.altalex.com.

[4] Ad esempio l’attuale missione in Iraq è stata autorizzata con risoluzioni della maggioranza n. 6-00065 e n. 6-00046 approvate il 15 aprile 2003 dalla Camera (308 voti a favore, 31 voti contrari e 159 astenuti) e dal Senato (153 voti a favore, 26 voti contrari e 2 astenuti), in www.parlamento.it.

 

[5] Art. 4, co. 4°, L. 11 luglio 1978, n. 382, “Gli ordini devono, conformemente alle norme in vigore, attenere alla disciplina, riguardante il servizio e non eccedere i compiti di istituto”.

 

[6] Il riferimento alle missioni di pace è indotto dalla circostanza che l’art. 47 c.p.m.g., come recentemente novellato, considera reati militari un gran numero di reati comuni e pertanto nelle missioni in cui opera la disciplina del codice penale militare di guerra dovrà essere applicato, il luogo dell’art. 52 c.p., l’art. 42 c.p.m.p, come sancito dalla norma medesima (ammesso che le scriminanti codificate dalla legislazione militare di pace si applichino ai militari impegnati in missioni regolamentate dal codice penale militare di guerra stante il crisma di eccezionalità-temporaneità di tale ultimo corpus normativo, ma vedi infra).

[7] Ai militari impegnati nella missione in Iraq, in virtù del Decreto Legge 10 luglio 2003, n. 165, convertito in Legge 1 agosto 2003, n. 219, si applica il codice penale militare di guerra e l’art. 9 del Decreto Legge 1 dicembre 2001, n. 421 convertito, con modificazioni, dalla Legge 31 gennaio 2002, n. 6.

 

[8] Cfr. D. Brunelli, Diritto penale militare, III Edizione, 2002, p. 84 e ss. Il quale osserva con proprio con riferimento all’art. 41 c.p.m.p che la norma riguarda più lo “statuto penale” del militare, che la specifica materia del diritto penale militare.

 

[9] Proprio la non configurabilità della qualità di pubblico ufficiale in capo al personale militare, a meno di incarichi che attribuiscano specificatamente tale status (es. incarichi di polizia militare), ha indotto il legislatore militare del 1941 alla formulazione dell’art. 41 c.p.m.p., in tal senso Brunelli, op. cit., p. 84-85.

 

[10] Venditti, Il diritto penale militare nel sistema penale italiano, I, Milano, 1995, p. 1 ss, tesi elaborata prima delle recenti modifiche al codice penale militare di guerra le quali, ai fini dell’applicazione del medesimo, non richiedono più la dichiarazione dello stato di guerra.

 

[11] D. Brunelli, op. cit.. p. 29 e ss.

[12] In pratica valutando in concreto, anche alla luce delle indicazioni giurisprudenziali offerte in sede di applicazione delle esimenti del codice Rocco, l’ampiezza e la ricorrenza dei singoli elementi costitutivi delle varie cause di non punibilità.