inserito in Diritto&Diritti nel febbraio 2002

I Savoia e la Costituzione

di Roberto Merlo

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La formale dichiarazione di fedeltà alla Costituzione repubblicana, compiuto per sé e per il figlio da Vittorio Emanuele di Savoia, rende attuali considerazioni di ordine giuridico i cui riflessi si dispiegano anche sull’efficacia di alcune delle disposizioni costituzionali direttamente e indirettamente coinvolte dalla riforma della XIII disposizione transitoria e finale della Carta. Per meglio chiarire i termini della questione, è per prima cosa opportuno distinguere fra abdicazione, rinuncia al trono e debellatio. 

Nel diritto pubblico moderno, il concetto di abdicazione, mutuato dal diritto romano, ha conservato il senso di volontario abbandono dell’ufficio regio in forza di una manifestazione di volontà dello stesso monarca, la quale ha per effetto di aprire regolarmente la successione come in seguito a morte. L’abdicazione è un atto di natura personale, che deve essere fatto solo per il Re e non per i suoi discendenti - rispetto ai quali potrebbe essere efficace solo con la successiva approvazione da parte del parlamento - né può ammettersi che il Re abdichi in favore di persona diversa da quella chiamata immediatamente a succedere in virtù della costituzione. Dev’essere assoluta, non temporanea o revocabile, di modo che il Re abdicatario non possa essere nuovamente chiamato al trono se non in virtù di una legge che modifichi l’ordine naturale della successione. Infine, deve risultare da atto autentico, di modo che nessun dubbio rimanga sulla manifestazione esplicita e libera della volontà del Re, anche se non si ritiene necessaria all’uopo una legge, trattandosi di un atto personale del Re. 

L'abdicazione, a propria volta, si distingue dalla rinuncia all’eredità del trono, che consiste nel rifiuto o non accettazione della corona al momento dell’apertura della successione (per cui chi abdica è Re mentre chi rinuncia non è ma dovrebbe diventare tale) e dalla debellatio, termine mutuato dal diritto internazionale ove indica il fenomeno corrispondente alla totale dissoluzione di uno Stato vinto, che, con riferimento a un sovrano o a un pretendente, consiste nella perdita della sovranità mediante un atto spontaneamente accettato con il quale essi rinunciano alle proprie funzioni e alle particolari prerogative connesse all’effettivo esercizio del potere. In mancanza di essa, compete al sovrano, in qualunque modo sia stato spodestato, la continuazione di alcune manifestazioni del potere regio, e sorge la figura del pretendente. 

Con la debellatio, purché essa non sia imposta e sia liberamente effettuata, il sovrano e il pretendente rientrano nel novero dei privati cittadini, pur conservando i titoli sovrani con la qualifica di Altezza Reale. Senza la debellatio, invece, i titoli sovrani spettano al sovrano in quanto tale e ai suoi discendenti, e restano tali anche quando il sovrano abbia perduta la effettiva sovranità su di un territorio: titolare ne è sempre il primogenito e la sovranità (sia pur priva del jus imperii, cioè della potestà di comando, del jus gladii, vale a dire del diritto all’obbedienza da parte dei sudditi, e del jus majestatis, ossia del diritto a ricevere difesa e onorificenza) fa comunque parte del patrimonio della famiglia. In altre parole, un sovrano potrà sì essere privato del trono, e cioè essere spodestato, potrà anche essere bandito dal paese ma non potrà mai essere privato della sua qualità: in queste fattispecie, come detto, mancando la debellatio, ha origine il pretendente al trono, istituto anch’esso internazionalmente riconosciuto. 

Al pretendente è generalmente imposto di abbandonare il suolo patrio ma mantiene comunque intatti quei diritti della sovranità al cui esercizio non è di ostacolo la mutata posizione giuridico-istituzionale e che può continuare a esercitare, mentre gli altri vengono sospesi: non c’è dubbio che fra i diritti che conserva integri sia compreso il jus honorum, cioè il diritto di conferire titoli nobiliari e gradi onorifici di ordini cavallereschi che facciano parte del patrimonio personale dinastico della famiglia. I sovrani che abbiano perduto il trono a seguito di regolare debellatio e i pretendenti che compiano regolare atto di rinuncia o comunque che contrastino con la volontà di conservare la figura di pretendente, conservano all’infinito la sola titolatura sovrana, senza i diritti inerenti; cessa altresì ogni diritto alla eventuale riassunzione al trono. 

Per tornare alle conseguenze istituzionali della formale dichiarazione di fedeltà alla Costituzione repubblicana di Vittorio Emanuele di Savoia e del figlio, essa configura l’ipotesi della debellatio per sé e per i discendenti, e comporta riflessi attuali di ordine giuridico che si dispiegano su diversi piani, interni ed esterni a Casa Savoia. 

Innanzitutto, quand’anche non si volesse considerare Vittorio Emanuele di Savoia già decaduto dal rango di pretendente per effetto delle leggi dinastiche che regolano la successione al trono - le Regie Patenti del 7 settembre 1780 e del 16 luglio 1782, emanate da Vittorio Amedeo III, Re di Sardegna, secondo cui per il matrimonio dei “principi del sangue” occorre il consenso del sovrano e, qualora il consenso non ci fosse (come fu per Vittorio Emanuele, né Re Umberto II convalidò il matrimonio, come pure avrebbe potuto fare secondo le stesse Regie Patenti) e il matrimonio “fosse stato contratto con persona di condizione e stato inferiore, tanto i contraenti che i discendenti di tale matrimonio s’intenderanno senz’altro decaduti dei diritti provenienti dalla Corona e dalla ragione di succedere nei medesimi come pure di ogni onorificenza e prerogativa della famiglia” -, pur volendo, cioè, riconoscere al principe, ex ante, la qualifica di pretendente al trono in virtù della mancata debellatio del padre, Re Umberto II, cionondimeno la cessazione degli effetti della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione repubblicana comporta un duplice ordine di conseguenze: il primo aspetto è che viene reciso ogni legame fra l’ordinamento vigente, che nella sua massima espressione indica indirettamente Casa Savoia come legittima pretendente al trono, chiunque ne sia l’erede all’interno della Famiglia secondo le leggi dinastiche, e la Casa stessa, di modo che, scomparendo dalle norme costituzionali ogni riferimento positivo alla ex casa regnante, si azzera ogni pretendenza giuridicamente fondata (s’intende, secondo l’ordinamento repubblicano) nella famiglia Savoia, mettendola sullo stesso piano di qualsiasi altra famiglia, sia essa titolata o meno (con il risultato, marginale, che ogni dibattito o discussione su chi sia l’erede al trono fra i diversi membri della ex casa regnante non riguarda più direttamente la pretendenza al trono d’Italia ma degrada a mera questione interna alla famiglia Savoia, con l’ulteriore esito che la caducazione degli effetti della XIII disposizione importa che nessun altro membro della ex famiglia reale, eventualmente riconosciuto erede al trono in virtù delle leggi dinastiche dianzi citate, possa più essere esiliato in vece dei discendenti maschi degli ex re di Casa Savoia, cui fa riferimento diretto la XIII).

La seconda conseguenza, strettamente connessa alla prima e tutt’altro che secondaria, è che con la cessazione degli effetti della XIII disposizione transitoria e finale della Carta fondamentale si esauriscono altresì, per ciò stesso, gli effetti della norma costituzionale di cui all’art. 139, contenuta nella sezione dedicata alla revisione della Costituzione, secondo cui “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale“. 

Infatti, la considerazione della sussistenza di un contrasto fra quest’ultima disposizione, che la dottrina considera di autorottura costituzionale, e la norma di cui all’art. 1 della Costituzione, contenuta nei Principi fondamentali di essa, secondo cui “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, comporta il corollario ineludibile di una limitazione intrinseca della dispiegazione degli effetti di cui all’art. 139 sino a che permangano quelle condizioni di emergenza o di pericolo che ne costituirono la ragion d’essere e che ne determinarono l’adozione e la vigenza, che sono le medesime che consigliarono ai Costituenti di apprestare la XIII: invero, si volle escludere la modificabilità della forma istituzionale ritenendo pericoloso per la vita stessa delle istituzioni riproporre una decisione sul tema. 

Ora, dato che l’art. 139 è intimamente intrecciato, nella sua ratio, alla XIII, cessando gli effetti di questa vengono meno anche, per disapplicazione, gli effetti di esso. Chi ne ricava veramente nuova luce o, meglio, luce tout court, sono i principî di sovranità popolare e democratico che, non più condizionati, possono dispiegarsi liberamente anche sotto il profilo della libertà nella scelta istituzionale, perché la sovranità di cui parla l’art. 1 della Carta costituzionale, cessando gli effetti di cui all’art. 139, ritorna veramente al popolo. Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, cioè, anche ove il suo esito fosse stato diverso, ha di per sé introdotto nell’ordinamento un fondamento di sola sovranità popolare nella forma istituzionale, che l’ordinamento può sì comprimere, purché, in ogni caso, la durata della limitazione non sia indeterminata, salvo negare la sua stessa essenza: non si può infatti porre a fondamento della scelta del sistema istituzionale il principio di sovranità popolare e, al tempo stesso, la negazione di esso. La contraddizione, cioè, non può essere imperitura, salvo dover affermare che l’ordinamento repubblicano, così come configurato dalla Costituzione, degradi a regime illiberale. La questione istituzionale allora, non essendo più limitata nella scelta la forma monarchica alla sola famiglia Savoia, ne risulterebbe “sdoganata”, e nessun ostacolo sussisterebbe più, formalmente, a un libero e sereno dibattito su monarchia e repubblica ed eventualmente, qualora gli italiani lo volessero, alla celebrazione di un nuovo referendum istituzionale, non condizionato da un riferimento giuridicamente doveroso ad alcuna famiglia o dinastia predeterminata se non per eventuali considerazioni di ordine differente.