Il Principio di Ridistribuzione

nel Diritto Tributario e nelle Società Tradizionali

 

di Barbara Faedda

 

 

1) Diritto Tributario e Uomo

In gran parte dell’Europa, per quanto riguarda il diritto pubblico, certamente la proprietà rappresenta il fulcro dell’insieme normativo, soprattutto nel suo aspetto determinante: la ridistribuzione. Chi detiene il potere decide se e come debba avvenire la ridistribuzione dei beni circolanti. E’ così che il bene privato viene ceduto all’organismo statuale sotto i nomi di imposta, tassa, tributo. Le intere entrate statali si riconoscono fondamentalmente in queste modalità d’imposizione e, di conseguenza, il campo del diritto tributario rappresenta il nodo centrale di tutta l’amministrazione pubblica[1]. Una amministrazione pubblica che riguardi in primo luogo il cittadino, la sua quotidianità, la sua vita. Dal punto di vista giuridico-antropologico acquistano rilievo “i discorsi, le pratiche, le rappresentazioni che ogni società considera essenziali al proprio funzionamento e alla propria riproduzione”[2]. Dietro un qualsiasi sistema legislativo vi è un insieme di valori socio-culturali che non si possono ignorare: è per questo che l’apparato normativo di uno Stato può dirsi a ragione il patrimonio di valori di una comunità. L’individuo si riconosce così nell’insieme di leggi e regole, mettendo a fuoco la sua stessa identità: egli si identifica nel sistema legislativo della sua nazione e vi si riconosce[3].

Non è sconosciuta di certo la polemica, a livello nazionale, sulle dimensioni e le difficoltà dei formulari italiani di imposizione fiscale, così come talora si è assistito a formalismi e normativismi eccessivi, che lasciano poco spazio a facili interpretazioni da parte del normale cittadino e ad interventi interpretativi e ausiliari “esterni”. Sembra confermarsi una dimensione, quella giuridico-normativa, che, anche all’interno del contesto fiscale, si è forse troppo allontanata dalle considerazioni di natura prettamente sociale e culturale e, forse ancor peggio, dalla comprensione del cittadino. Non a caso, a dimostrazione di ciò, il diritto tributario si dimostra ben disposto verso la cosiddetta interpretazione evolutiva, nella misura in cui è riconosciuta una necessità di adeguamento della formula legislativa, che tenga conto del fattore tempo e del fattore ambiente socio-economico[4]. Il tributo in sé va di pari passo con la storia degli uomini e delle donne di un certo Paese, non può minimamente discostarsene: un esempio a noi molto vicino può essere la grande espansione del tributo in Italia con la Seconda Guerra Mondiale. Le nuove esigenze finanziarie e la necessità di compressione dei consumi privati hanno fatto sì che si verificasse un notevole cambiamento nella vita economica nazionale. E’ sempre storia dell’Uomo l’apertura dei mercati, la riduzione o abolizione dei dazi doganali, la liberalizzazione degli scambi tra i Paesi e le direttive emanate dalla Cee (oggi UE): tutti fattori che hanno creato una considerevole spinta innovativa in campo tributario[5]. Questa è la storia dell’Uomo: questo si intende quando si afferma che il tributo è un aspetto fondamentale della vita sociale e culturale di ogni individuo. Non si riduce tutto ad un semplicistico prelievo monetario di tipo legale-coattivo, ma si tratta anche, e soprattutto, di rivedere tutto ciò in un contesto più ampio ed “aggiornato” di valutazioni e considerazioni prettamente giuridico-antropologiche. Non sembra poi tanto errata quella metodologia in base alla quale il diritto tributario studia anche i rapporti tra cittadini e Stato, tanto più nella misura in cui esiste un principio costituzionale (e tutta una serie di norme costituzionali di principi e limiti sulle prestazioni di imposta) di capacità contributiva, sotteso a tutte le fasi di attuazione tributaria, fino all’acquisizione del prelievo.

 

2) Ridistribuzione

Il concetto di ridistribuzione, così importante per il diritto tributario, è approfondito anche dall’antropologia: esso subisce molte e varie interpretazioni, sia dal punto di vista diacronico, cioè nella storia, sia dal punto di vista sincronico, cioè più comparativo, più “globale” dell’attualità. Per Karl Polanyi, antropologo-economico e giurista di origine ungherese vissuto a cavallo del secolo, la ridistribuzione rappresenta una delle fondamentali forme di scambio. Nella sua espressione più elementare essa viene posta in essere dalla comunione dei beni voluta da coloro che producono per il gruppo; nella sua espressione più complessa, invece, questa è il confluire dei beni in un centro politico e/o amministrativo, il quale successivamente ridistribuisce tra i consumatori.

Ogni sistema economico ha poi una varietà di modalità ridistributiva, anche se questa modalità domina indubbiamente durante il feudalesimo e nei cosiddetti domini[6] tradizionali. I sistemi ridistributivi consentono ad un potere centrale di accumulare beni e riutilizzarli in modo strategico: ecco perché quando nasce una economia ridistributiva si hanno i presupposti per lo sviluppo di classi sociali e di uno Stato.

 

3) Società tradizionali

Dal punto di vista degli studi etno-antropologici, nell’ambito delle società tradizionali, si parla di ordinamenti centralizzati e “tributari”, sistemi dove cioè, i componenti del gruppo sociale pagano il “tributo” ad un capo o ad un re. In queste società il capo (o il re) accumula  mediante la raccolta dei tributi e degli omaggi dei suoi sudditi, e così facendo si appropria di un privilegio al quale direttamente corrisponde il dovere di ridistribuire (mediante feste particolari e tutta una serie di ritualità) i beni “tolti” ai propri sudditi. In questo caso vi è un rapporto strettissimo tra accumulazione e status sociale, soprattutto quando l’accumulazione non si effettua solo ai fini dell’alimentazione della banda o del gruppo, ma è piena espressione di precisi diritti e privilegi[7]. La posizione del re, quindi, viene riconosciuta pagandogli tributi, ma egli in realtà è tenuto a ridistribuire ciò che riceve, e le celebrazioni debbono essere in carattere con l’entità dei raccolti. Questa tipologia di sistema economico si definisce di sussistenza[8] tributaria e rappresenta una forma di consumo rispondente allo scopo immediato di sopravvivenza e continuità; differisce decisamente dal sistema capitalistico che permette l’accumulazione come capitalizzazione e così controlla i consumi e li ordina per consentire gli investimenti dello stesso capitale, per trarne il massimo profitto.

Nelle società tradizionali i capi spesso fungono da promotori di maggiore produzione e soprattutto da ridistributori. Essi raccolgono e ridistribuiscono la produzione in eccesso: quando in un villaggio ci sono più capi essi cercano di raggiungere la reputazione di big man, e ci provano attraverso la competizione nell’organizzazione di feste, nelle quali si ridistribuisce la maggiore quantità di beni di valore. M. Harris afferma che nello scambio ridistributivo (sempre per quanto riguarda le società tradizionali) i prodotti della fatica di molti individui vengono portati in un luogo centralizzato, suddivisi per genere, contati e poi distribuiti in modo uguale ai produttori e ai non produttori. E’ sicuramente necessario un grande sforzo organizzativo e gli stessi ridistributori tendono ad aumentare il più possibile la produzione, così da raggiungere contemporaneamente un grande prestigio agli occhi degli altri, dei compagni del gruppo. Esistono due forme di ridistribuzione: 1) egualitaria, in cui il ridistributore prende la parte più piccola o addirittura nulla e quindi, alla fine, non possiede più ricchezze materiali di alcun altro; 2) stratificata, in cui chi ridistribuisce trattiene la parte maggiore e possiede infine più ricchezza materiale di chiunque altro[9].

 

4) Islam e Precolombiani

Il concetto di ridistribuzione è molto presente nel diritto islamico: esso prevede un tipo di imposta, la zekaa, cioè la decima su greggi, raccolti e beni in generale che risulta essere una vera e propria elemosina legale, che la legge stessa destina ai poveri, ai soldati della guerra santa, alla liberazione degli schiavi e dei debitori. E’ però sui cosiddetti “infedeli” cristiani ed ebrei che grava la maggior parte dei tributi. Essi pagano due tipi di tributo: la gizia, per ogni maschio, e il kharag, un tributo fondiario variabile a seconda del modo in cui si conquista il territorio in cui si trova il fondo stesso. I proventi della guerra santa sono, invece, un modesto apporto alle casse dello Stato, poiché in genere si ridistribuisce, quasi interamente, tra i combattenti[10].

Anche presso gli Aztechi, ai primordi della loro organizzazione sociale, i sovrani avevano il dovere di provvedere ai poveri, alle vedove e agli orfani. In occasione della festa della dea Xilonen essi ricevevano vestiti e viveri. Allo stesso sovrano, inoltre, quando veniva investito, i sacerdoti ricordavano con enfasi i suoi precisi doveri: distribuire cibo ai vecchi. Per quanto riguardava poi l’assegnazione di omaggi ai soldati, i destinatari dei doni pagati con i tributi erano scelti secondo criteri particolari: il valore in guerra era il principale. Successivamente, consolidato oramai l’immenso “impero” azteco[11], l’organizzazione delle regioni sottomesse aveva un carattere soprattutto economico ed era finalizzata essenzialmente a ricavare da questi territori tributi e benefici. I tributi venivano fissati con molta precisione e registrati in pittogrammi: erano pagati ogni ottanta giorni oppure, a volte, una volta l’anno. In ogni regione veniva insediato un esattore chiamato calpixque, trattato ovviamente con gran deferenza dagli abitanti: egli aveva inoltre diritto ad un appezzamento di terreno che veniva coltivato a suo esclusivo beneficio. Le ricchezze accumulate dal potere centrale venivano custodite in speciali magazzini e registrate appunto tramite pittogrammi. I tributi stessi erano di varia tipologia: oltre a lavorare per il sovrano, gli abitanti dell’altopiano, per esempio, dovevano costruire grandi opere pubbliche, quali dighe e canali e dovevano anche curare i giardini del sovrano, accudire i suoi animali e prestare servizio nelle case dei cittadini importanti. Oltre a ciò vi era l’obbligo di prestare servizio militare. Più si era vicini, quindi, al centro del potere, più si doveva pagare con la manodopera; più si era distanti e più si dovevano cedere merci. Fu così che si affermò un gruppo che si potrebbe definire come una vera e propria “burocrazia economica”. Essa era formata da esattori, amministratori e distributori di tributi: le grandi quantità di tributi affluenti nella capitale richiedevano una evoluzione rapida e spettacolare di questa fetta di burocrazia. I suoi rappresentanti si incontravano in quasi tutti i territori sottomessi dagli Aztechi e, in ogni villaggio, il calpixque raccoglieva i tributi, controllandone l’ammontare e la data di consegna. Ogni calpixque era subordinato ad un esattore dei tributi nominato per l’intera provincia; a capo dell’intero sistema c’era l’huey calpixque, responsabile unico della raccolta di tutti i tributi. Per ogni singola provincia operava un supervisore, che controllava l’operato dell’huey calpixque. Gli amministratori dei tributi, diretti da un funzionario chiamato petlacatl, annotavano in pittogrammi l’ammontare esatto dei tributi pervenuti e mantenevano questi in buone condizioni. Ma per la distribuzione interveniva direttamente l’autorità statale[12].

Nell’impero Inca, invece, il tributo non poteva essere in moneta, poiché l’uso ne era sconosciuto, anche in forma rudimentale come era avvenuto in Messico. L’oro e l’argento erano apprezzati solo per oggetti rituali ed ornamenti, mentre venivano calcolati beni preziosi il lavoro delle braccia umane e l’energia del popolo. Come capi di comunità rurali gli Incas avevano diritto a corvée e a servizi personali; il sistema della corvée era talmente importante che i tributi erano tutti personali e nessun individuo era tassato sui beni. L’idea di prestazione era talmente radicata che, come notarono gli Spagnoli, gli indigeni la preferivano notevolmente anche alla consegna di una piccola quantità di patate. Il tributo comportava tutte le corvée di lavoro, che l’inca o i suoi governatori imponevano quando era necessaria la mano d’opera abbondante: sotto quest’aspetto anche la guerra era una corvée di Stato. Il risultato della raccolta dei tributi si ridistribuiva in questo modo: una parte inviata a Cuzco per i bisogni del sovrano e delle famiglie nobili, una parte per l’approvvigionamento di funzionari e squadre di lavoratori, una parte per l’esercito. Da questi stessi magazzini si attingeva inoltre nei casi in cui, in seguito a cattivi raccolti, incombeva la carestia[13].

 

5) Il tributo come “concorso alle spese pubbliche”

Un’ultima considerazione, a chiusura di questa sintetico sguardo storico-comparativo, sul concetto di tributo come “concorso” alle spese pubbliche. Si parte dalla svolta decisiva offerta dall’art. 53 della Costituzione, che autorevole dottrina[14] definisce vera e propria pietra angolare: esso è espressione del “principio solidaristico di condivisione e di sostegno delle necessità morali e materiali, previsto come modello politico di nuova convivenza civile”[15]. Non trova più legittimazione così una giustificazione autoritativa del fenomeno finanziario, ma si parla ora di dovere di concorrere, e la differenza non è di poco valore. Anche il sistema tributario è un risultato culturale di consenso: è proprio il consenso che porta alla creazione di una istituzione, ed è poi la stessa istituzione che, a sua volta, legittima un nuovo consenso[16]. Diventa una catena dinamica e continua: continua come la vita degli uomini, sempre in movimento, sempre in continua trasformazione rispetto alle esigenze della quotidianità. E, tra le esigenze e i bisogni sociali, vi è anche quello di un adattamento evolutivo delle stesse funzioni, delle aspettative e delle concretizzazioni anche nel settore tributario. Talcott Parsons[17] individua le fondamenta del diritto nella dinamica legittimazione-consenso, affermando che gli stessi cittadini operano quest’azione di legittimazione proprio tramite l’impegno consensuale rispetto ai valori della loro società[18]. Ecco perché parlare di concorso da parte del cittadino può, dal punto di vista socio-culturale, significare un nuovo avvicinamento al sistema normativo tributario, e una nuova comprensione di qualcosa che, colpita dal troppo formalismo, ha perso nel tempo l’aspetto squisitamente “umano”. Sacchetto sottolinea la necessità di una indagine anche socio-culturale della categoria “tassa” e questo vuole essere un primo contributo: pure i tributi sono nati, come tutte le altre istituzioni statali e pubbliche, da un consenso e da un riconoscersi a livello comunitario-nazionale in un insieme di valori in cui, comunque, il cittadino si identifica. Quando al consenso si opporrà una maggiore spinta di mutamento, allora vorrà dire che si sarà verificata un’esigenza di adeguamento ad una nuova realtà sociale e ad un nuovo corpus di esigenze e bisogni e, di conseguenza, di valori e norme.      

 

Barbara Faedda

 

              [1] Losano M.G., I grandi sistemi giuridici, Piccola Biblioteca Einaudi, 1988, Torino.

              [2] Rouland N., Antropologia giuridica, Giuffré Editore, 1992, Milano.

              [3] Di Cristofaro Longo, Identità e cultura, Edizioni Studium, 1996, Roma.

              [4] Fantozzi A., Diritto tributario, Utet, 1991, Torino.

              [5] Cosciani C., Scienza delle finanze, Utet Libreria, 1991, Torino.

6 E’ un termine diffuso da E. R. Service che designa il livello di integrazione socioculturale che succede immediatamente dopo il livello tribale. Vi è in esso una maggiore divisione del lavoro e la comparsa di classi sociali. Il dominio ha una autorità centralizzata ma, a differenza dello Stato, non possiede apparati repressivi o militari. Esempi di questa tipologia di livello di sviluppo sociale sono i domini dell’area caribica dell’America preispanica e quelli tradizionali della Polinesia. Seymour-Smith C., Dizionario di Antropologia, Sansoni Editore, 1991, Firenze.

[7] Bernardi B., Uomo, cultura, società, Franco Angeli Editore, 1985, Milano.

[8] Sussistenza significa una economia che si limiti al soddisfacimento dei bisogni primari dei produttori; tuttavia l’Antropologia Economica ha dimostrato che non esiste nulla di simile ad una vera e propria economia di sussistenza, in quanto in qualsiasi sistema economico si ha una produzione eccedente che sopravanza i bisogni familiari immediati e che si può destinare eventualmente allo scambio. Seymour-Smith C., op. cit.

[9] Harris M., Antropologia Culturale, Zanichelli Editore.

[10] Losano M. G., I grandi sistemi giuridici, Piccola Biblioteca Einaudi, 1988, Torino.

[11] Alla fine del XV secolo gli Aztechi erano riusciti ad imporre la loro dominazione a quasi tutti gli abitanti della Mesoamerica: 10/15 milioni circa di abitanti, 38 province dall’Atlantico al Pacifico. Katz F., Le civiltà dell’America precolombiana, Mursia Editore, 1985, Milano.

[12] Katz F., op. cit.

[13] Métraux A., Gli Inca, Giulio Einaudi Editore, 1969, Torino.

              [14] Sacchetto C., Voce “Tassa” della Enciclopedia del diritto, Cedam, 1956+aggiorn., Padova.

              [15] Sacchetto C., vedi nota precedente.

              [16] Di Cristofaro Longo G., Identità e cultura, Edizioni Studium, 1993, Roma.

[17] Sociologo statunitense funzionalista. (1902-1979) - Tra le sue opere: The Structure of Social Action del 1937, The     Social System del 1951.

            [18] Di Cristofaro Longo G., op. cit.