inserito in Diritto&Diritti nel luglio 2002

La liberalizzazione delle attivita’ private - La D.I.A. ed il silenzio-assenso

di Nadia Giretti

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Sommario: SEZIONE I: La denuncia di inizio attività ed il silenzio-assenso; 1. Cenni introduttivi. Il concetto di liberalizzazione; 2. L’evoluzione dei procedimenti autorizzatori; 3. L’art.19 L. 241/1990. La teoria dei diritti condizionati e di quelli fievoliti ab origine.; 3.1 Autonomia privata e azione della PA; 3.2 La disciplina delle attività private soggette ad atti di assenso: il rovescia­mento dell’impostazione originaria; 3.3  I casi di esclusione della denuncia di inizio attività con la L. 537\1993.; 3.4  I regolamenti approvati con D.P.R. n. 300/92 e n. 411\1994; 3.5 L’attività amministrativa di verifica conseguente alla de­nuncia; 3.6 Natura giuridica dell’attività di verifica; 3.7 I termini per l’attività di verifica e per adottare provvedimenti repressivi; 3.8 La tutela dei terzi; 4. L’art.20 L. 241/1990; 4.1 Il silenzio-assenso come istituto a carattere generale?;  4.2 Il D.P.R. 26 aprile 1992 n. 300 e il D.P.R. 9 maggio 1994 n. 407 ed il potere interventivo della PA; 4.3 Brevi cenni sulla tutela dei terzi; 5. L’art.21 L. 241/1990; 5.1 Le conseguenze sanzionatorie delle dichiarazioni mendaci; 5.2 Le conseguenze penali; 5.3 Le conseguenze non penali; SEZIONE II: La denuncia di inizio attività in materia edilizia e nel commercio; 1. Brevi note storiche; 2. La denuncia di inizio attività, negli interventi edilizi minori, nel sistema della legge finanziaria del 1997; 3. La denuncia di inizio attività nel Testo unico sull’edilizia; 4. La cd. Legge obiettivo; 5. La DIA nella disciplina del commercio (D.lgs 31.3.1998 n.114).

 

 

SEZIONE I: La denuncia di inizio attività ed il silenzio-assenso

 

1.         Cenni introduttivi. Il concetto di liberalizzazione. L’esigenza di fornire un modello procedimentale di applicazione generale imperniato sul coinvolgimento (quanto meno parziale) dei soggetti interessati a vario titolo, ma anche quella di migliorare la qualità e l’efficienza dell’azione della PA, sono all’origine della legge 241/1990.

            La cd. legge sul procedimento, dunque, non è anima­ta esclusivamente dall’intento garantistico nei confronti degli amministrati, realizzato specialmente con il riconoscimento di istituti quali la partecipazione e il  diritto di accesso, ma anche da quello di elevare il livello quali­tativo (sia sotto il profilo dell’efficienza che dell’efficacia) dell’attività degli uffici pubblici nel loro insieme e di migliorarne l’organizzazione, dettando i principi fondamentali di base cui devono adeguarsi i singoli proce­dimenti.

            Tale legge, quindi, si propone la duplice finalità di rendere imparziale, tra­sparente e aperta l’azione dei pubblici poteri (garantendo la partecipazione, il diritto di accesso e l’autocertificazione), e, al tempo stesso, di semplificare e rendere più efficace l’azione della PA, ponendo l’accento, appunto, sul­l’attività, interna o esterna che essa sia, e sull’organizzazione.

In conclusione, si può dire icasticamente che la legge persegue due obiettivi — in apparenza confliggenti — inerenti, da un lato, a quello che si potrebbe definire intento garantistico, dall’altro, al profilo per così dire orga­nizzatorio, in quanto attinente alla qualità dell’azione dello Stato-apparato.

In particolare, l’intento garantistico attiene al versante dei rapporti intercorrenti tra l’apparato dei pubblici poteri nel suo insieme e i soggetti amministrati. Dunque, si tratta del profilo esterno dell’azione amministrativa, che riguarda il rapporto con i cittadini, singoli e associati, cui vengono fornite una serie di garanzie sia sostanziali (interlocuzione nel procedimento, diritto di accesso, etc) sia procedimentali, le quali consentono la partecipazione all’azione della PA, ai soggetti interessati a vario titolo, e che elevano, nel complesso, la posizione dell’individuo nella socie­tà. Il risultato è ottenuto mediante il riconoscimento di nuovi diritti e il potenziamento di certi altri preesistenti, i quali tutti si collegano e coordi­nano in una consistente trama di istituti e garanzie giuridiche.

La seconda finalità concerne, invece, il versante interno dell’azione amministrativa, al fine di elevare il livello del­l’azione amministrativa, approntando una serie di strumenti ed istituti di grande rilievo: da un lato, mediante la risistemazione di istituti preesistenti elevati al rango di strumenti organizzativi generali (si pensi alla conferenza di servizi, al silenzio-accoglimento e a certi silenzi endoprocedimentali, ecc.), dall’altro, con l’in­troduzione di istituti affatto nuovi (il responsabile del procedimento, il meccanismo previsto dall’art. 19, ecc.).

La legge 241/1990 persegue un’ulteriore finalità strumentale, rispetto alle due fondamentali, introducendo nell’ordinamen­to il principio del giusto procedimento, il prin­cipio di non aggravamento del procedimento, posto dall’art. 1, co.2 L. 241 cit., quello di trasparenza (in cui strumento di­retto è la pubblicità), con l’effetto di integrare ed attuare i principi già costituzionalizzati negli artt.2 e 97 Cost. (i principi di buon andamento e imparzialità della P.A.).

            In ordine alle attività interamente esercitabili da parte del privato, la legge sul procedimento ha sostituito i tradizionali modelli procedimentali assoggettati a regime autorizzatorio, basati sull’emanazione di provvedimenti espressi, con nuovi schemi ispirati alla liberalizzazione delle attività economiche private[1] (deregulation).

 

2. L’evoluzione dei procedimenti autorizzatori. Il procedimento volto ad ottenere l’autorizzazione consente, al richiedente, di perseguire un interesse privato, che sia, dall’ordinamento giuridico, previamente subordinato all’interesse pubblico[2].

Secondo la costruzione che, negli ultimi decenni ha riscosso presso la scienza giuridica maggiori consensi, i procedimenti autorizzatori sono riconducibili a due specie di classificazioni, da un lato, sotto il profilo funzionale, vengono distinte le autorizzazioni: di controllo, da quelle di programmazione. Dall’altro, sotto il profilo degli effetti, possono individuarsi quattro categorie di autorizzazioni: di dispensa, costitutive, permissive, ricognitive.

I procedimenti autorizzatori in funzione di controllo «si compongono di un giudizio volto a riscontrare a regole predeterminate il concreto contenuto del potere materiale oggetto del procedimento, e di una misura, che è il provvedimento autorizzatorio» (tra di esse sono annoverate, ad esempio, le autorizzazioni di polizia). Quelli in funzione di programmazione (o di mano­vra) «sono strumenti per ordinare attività di operatori ai precetti di piani, programmi, o anche più semplicemente di disegni ordinali o distributivi» (come, ad esempio, la cd. concessione edilizia[3]).

Le procedure autorizzatorie di dispensa, poi, costituiscono forme di esonero dall’osservanza di un dovere (es., licenza di porto di armi). Quelle costitutive fanno sorgere in capo al richiedente una situazione giuridica soggettiva (es., concessione edilizia). Quelle permissive condizionano l’efficacia della situazione soggettiva del richiedente (es.. licenza di caccia). Quelle ricognitive (o anche, dichiarative) verificano il possesso dei requisiti per l’esercizio della situazione soggettiva del richiedente (es. patente di guida).

            Tuttavia, tale articolazione deve essere ridefinita alla luce di due rilevanti sviluppi, che, negli ultimi anni[4], hanno fortemente inciso sulla morfologia, estensione ed articolazione dei procedimenti autorizzatori.

Da un lato, l’influenza del diritto comunitario, volto a garantire la massima libertà di concorrenza, ha condotto, in particolare rispetto agli atti di consenso relativi all’esercizio di attività imprenditoriali, a concepire l’atto autorizzatorio — in origine inteso come ampliativo della sfera giuridica privata — quale strumento di restrizione dell’accesso al mercato[5].  La tendenza sembra, dunque, essere rivolta allo sviluppo di modelli alternativi all’autorizzazione (di tipo organizzativo, quale l’istituzione di autorità indipendenti, di tipo funzionale, quale la predeterminazione a mezzo di attività precettiva etc.), conducenti alla liberalizzazione delle attività e, quindi. all’erosione dell’ambito di applicazione dell’atto autorizzatorio. E’ da registrare anche un processo, denominato di introduzione e rafforzamento della concorrenza nell’ambito dello strumento autorizzatorio, secondo il quale, anche nei casi in cui l’ordinamento comunitario ritenga opportuno il ricorso all’autorizzazione e, quindi, la restrizione dell’accesso al mercato, sia previsto il necessario rispetto di una serie di principi di azione, ai fini del legittimo impiego di tale strumento (oltre alla libertà di concorrenza, la non discriminazione, l’oggettività, la proporzionalità, la parità di trattamento, la trasparenza, la pubblicità).

Dall’altro, l’introduzione, con gli artt. 19 e 20 L. 241/1990, di strumenti di semplificazione degli atti di consenso sembra aver sensibilmente modificato il modo di concepire l’atto autorizzatorio, favorendo la liberalizzazione (art. 19) e la deformalizzazione (art. 20) delle attività private soggetto al consenso amministrativo. L’art. 19 — il quale ha previsto che tali attività possano essere iniziate a seguito di denuncia di inizio delle stesse, qualora siano connotate da vincolatezza, da assenza di valutazioni tecniche discre­zionali, da mancanza di contingentamento — ha condotto alla liberalizza­zione di una notevole mole di attività, rimuovendo il condizionamento derivante dal previo esercizio del potere amministrativo, al fine della piena estensione della situazione giuridica soggettiva del richiedente. Sicché, il sistema della denuncia sostitutiva è volto a consentire l’immediato esercizio di un diritto soggettivo ad accertamento amministrativo

L’art. 20, invece, che ha introdotto la possibilità di applicare il meccanismo del silenzio assenso ad una serie di procedure autorizzatorie espressamente individuate con regolamento, connotate da difetto di discrezionalità o, comunque, da un tasso minimo della medesima, ha ampliato l’ambito di estensione del silenzio significativo, snellendo l’attività amministrativa e fornendo tempi certi agli amministrati.

 

3.         L’art.19 L. 241/1990. La teoria dei diritti condizionati e di quelli fievoliti ad origine. Si sa che nella società moderna — anche là dove sì sia instaurato lo Stato di diritto — se il privato cittadino è libero, in linea di principio, di espli­care la sua personalità nei modi che più gli sono consoni, nondimeno egli incontra ostacoli di ordine (genericamente) burocratico sempre più numerosi. Accade così che anche le attività private aventi un contenuto economico o di libera esplicazione della personalità non possa­no essere svolte se non rimuovendo ostacoli del genere (che rappresentano limiti ex lege posti a fini di governo, controllo e svolgimento ordinato delle attività umane) che si traducono nell’ottenimento di un permesso, un’autorizzazione, una licenza, una concessione, un visto, etc.

            Sul piano delle teorie giuridiche, si sa che sono state elaborate specifi­che nozioni in merito al fenomeno sommariamente descritto. Si è, così, elaborata la nozione dei diritti condizionati, a loro volta suddivisi in due branche. Si è teorizzato, infatti, più specificamente, dei diritti in attesa di espansione: questi si configurerebbero allorquando l’esplicazione di una de­terminata attività (per lo più economica) appartenga alla sfera giuridica priva­ta, ma ciò nonostante non a tutti i privati sia consentito di agire in tal senso, bensì soltanto a coloro i quali, dimostrando di possedere i requisiti pre­stabiliti ritenuti necessari dalla legge, ottengano da una determinata PA un atto amministrativo di assenso consistente nella rimozione del limite di legge (abilitazione, o iscrizioni in determinati registri o albi, e simili).

            Il rilascio dell’atto di assenso consente, così, l’espansione o, più semplicemente, l’esercizio di un diritto originariamente solo “virtuale” perché condizionato, appunto, dal rilascio dell’atto di assenso.

            L’altro gruppo ricompreso nei diritti condizionati sono i cd. diritti fievoliti ab origine relativi ad una gamma di compiti e attività che in linea di principio rientrano (a differenza dei primi) nel dominio della PA, piuttosto che dei privati, consentendosi tuttavia che questi ultimi possano essere ammessi al loro svolgimento, sempre che l’amministrazione, verificato ancora una volta il possesso di determinati requisiti e l’esistenza dì determinati presup­posti e condizioni, rilasci agli interessati un provvedimento di tipo conces­sorio[6].

 

3.1 Autonomia privata e azione della PA.  L’art.19 L. 241/1990 conferisce un’impostazione del tutto nuova alle relazioni fra Stato-apparato e amministrati e tale da rimuovere ostacoli di ordine amministrativo e burocratico, frapposti dai pubblici poteri, in applicazione di norme di varia estrazione, nei confronti dello svolgimento di attività da parte dei privati cittadini (non solo di ordine economico).

Con disposizione generica e il più possibile onnicomprensiva, l’originaria versione dell’art. 19 prendeva in considerazione i casi cui l’attività del privato sia subordinata al rilascio di autorizzazioni, licenze, nulla osta, permesso, “o altro atto di consenso comunque denominato” prevedendo l’emanazione di un regolamento (ai sensi dell’art. 17 della L. 23 agosto 1988, n. 400) con il quale, all’interno di tale ambito, fossero determinati i casi in cui il privato può iniziare l’attività previa semplice denuncia di inizio della stessa attività all’amministrazione competente. Con questo si voleva garantire ai privati la possibilità di esplicare la propria libertà di ini­ziativa (per lo più con implicazioni economiche) senza dovere attendere i perfezionamenti dell’iter burocratico necessario per il rilascio dei menzionati atti autorizzativi, che sempre più spesso veniva portato a conclusione dopo molto tempo dall’istanza dell’interessato (senza che, il più delle volte, se ne comprendessero o venissero esplicate le ragioni del ritardo).

Tuttavia, occorre riconoscere che la portata della significativa innovazione era di molto ridimensionata dalle limitazioni insite nelle medesime disposizioni che la introducevano. Soltanto in via derogatoria, in sostanza, si aprivano settori delle attività umane alla semplificazione dei rapporti au­torità-libertà. Una così rilevante inversione di impostazione, infatti, era li­mitata ai soli settori che sarebbero stati individuati con il menzionato rego­lamento governativo. Lo svolgimento di tutte le altre attività sarebbe rima­sto disciplinato dalle vecchie regole.[7]

La sensazione di trovarsi al cospetto di novità soltanto relativa, in quanto il suo ambito di applicazione si presentava alquanto ristretto, veni­va non solo confermata, ma notevolmente rafforzata dal regolamento poi emanato con D.P.R. 26 aprile 1992 n. 300 (concernente gli artt. 19 e 20). Lo stesso riguardava, infatti, un numero esiguo di attività, rientranti nella competenza di pochi Ministeri. Rimanevano, inoltre, del tutto escluse le at­tività il cui controllo era ricompreso nella sfera di competenza di ammini­strazioni non statali.

 

3.2 La disciplina delle attività private soggette ad atti di assenso: il rovescia­mento dell’impostazione originaria. Opportunamente è, dunque, intervenuta la nuova formulazione dell’art.19 L. 241\1990 ad opera dell’art. 2, co.10, della L. n. 537/93. Per completare la nuova disciplina va letto, peraltro, anche il successivo co. 11 (stranamente non inserito nel corpo del nuovo art. 19).

Le nuove disposizioni determinano un netto capovolgimento dell’origi­naria impostazione, per di più con l’ausilio di una più chiara disciplina, ad onta della farraginosità della formulazione (forse inevitabile).

Il          rovesciamento della vecchia impostazione consiste nel fatto che, quella che prima configurava una deroga, se non proprio un’eccezione, è oggi divenuta la regola. Infatti, mentre prima solo le attività esplicitamente inserite nel regolamento (nelle tabelle A e B) pote­vano essere iniziate senza il preventivo assenso dell’amministrazione com­petente, ora detta possibilità vale, in linea di principio, per qualsiasi attività, entro i limiti posti dalla norma medesima. [8]

            La nuova disciplina prevede che i privati possano intraprendere le atti­vità — il cui svolgimento era prima subordinato ad un atto di assenso — die­tro semplice presentazione all’autorità competente di una denuncia di ini­zio di attività, contenente l’(auto)attestazione del possesso dei presupposti e dei requisiti di legge, se del caso accompagnata da un’autocertificazione at­testante l’avvenuta effettuazione delle prove previste per la maturazione dei requisiti (ove tanto sia previsto dalle norme regolanti la materia). Spetta, poi, alla P.A. compe­tente (raggiunta dalla denuncia in discorso) verificare d’ufficio l’effettiva esistenza di presupposti e requisiti.

Nel caso che, nel corso di dette verifiche, se ne riscontri la carenza, la medesima amministrazione è tenuta a disporre il divieto di prosecuzione dell’attività e la rimozione dei suoi effetti entro il termine massimo di 60 giorni dalla denuncia. Tuttavia, ove sia possibile conformare l’attività del privato e i suoi effetti alla normativa vigente, la PA. assegnerà all’interessa­to un termine per realizzare detta conformazione (secondo le prescrizioni dettategli). Solo allorchè sia inutilmente scaduto detto termine, l’attività sarà definitivamente vietata.

“Sul piano teorico si verifica un profondo cam­biamento rispetto al precedente schema autorizzatorio: il provvedimento perde il suo valore condizionante l’esercizio delle attività private;, non produce più l’effetto di eliminare  un limite al diritto, o un ostacolo al suo esercizio, ovvero (secondo le varie teorie sugli effettii delle autorizzazioni) a costituire il diritto del quale l’attività costituisce l’esercizio. Si può ben dire che tale diritto non solo preesiste al provvedimento ma preesiste in modo incondizionato o privo di limiti: è l’intero schema autorizzatorio che scompare e viene sostituito da uno schema diverso nel quale prende vigore il diritto del privato di svolgere attività (…in una  più pregnante considerazione dell’art. 41 Cost.)” [9].

 

3.3  I casi di esclusione della denuncia di inizio attività con la L. 537\1993. L’art. 2, co.11 della L. n. 537/93, nel riscrivere in toto il testo dell’art.19 L. 241\1990, ha consacrato un significativo ampliamento dello spettro di afferenza dell’istituto, mutando la logica originaria della liberalizzazione: mentre alla stregua della formulazione primigenia, l’enucleazione dei settori liberalizzati era rimessa all’intervento di successiva statuizione regolamentare[10], alla luce dei correttivi apportati dalla L. 537\1993, l’iniziativa economica privata risulta suscettibile di incondizionata esplicazione in materie soggette a titoli autorizzativi vincolati. Alla normativa regolamentare, viene assegnato, così, il compito di fissare i casi eccezionali in cui l’istituto della denuncia di inizio attività non trova applicazione, ossia quelli in cui l’atto di assenso della P.A. dipenda dall’esperimento di prove che comportino valutazioni tecniche discrezionali (DPR 9 maggio 1994, n.411).

            Il nuovo sistema, nell’escludere dall’ambito di operatività dell’istituto i casi in cui l’atto autorizzatorio sia frutto di discrezionalità tecnica, comporta la necessità di distinguere, nella gamma degli atti autorizzativi, quelli presupponesti un mero accertamento tecnico - ossia la verifica di un fatto accertabile in modo oggettivo in base a strumenti e conoscenze tecniche – da quelli postulanti una valutazione tecnica e cioè una valutazione dei fatti caratterizzata da un più o meno spiccato margine di “opinabilità”effettuata sulla base di conoscenze tecniche, l’utilizzazione delle quali può dar luogo a risultati tutti potenzialmente esatti: i primi sono, infatti, destinati a rientrare nella sfera della “denuncia legittimante”; i secondi continuano ad essere assoggettati a regime autorizzatorio[11].

 

3.4 I regolamenti approvati con D.P.R. n. 300/92 e n. 411\1994. Con notevole ritardo rispetto al termine fissato dall’art. 19, era stato pubblicato il regolamento, emanato con decreto presidenziale 29 aprile 1992 n. 300 (sulla G.U n. 123 del 27 maggio 1992).

Detto regolamento, oltre a riportare in allegato tre tabelle — Tab. A, rela­tiva alle attività cui può darsi inizio immediatamente dopo la presentazio­ne della denuncia; Tab. B, recante l’elenco delle attività cui può darsi inizio dopo il decorso di un certo termine dalla presentazione della denuncia (en­trambe relative alla disciplina ora abrogata dal nuovo art. 19); Tab. C, ri­guardante le attività cui si applica il silenzio-assenso ex art. 20 - reca una disciplina integratrice di dettaglio chiara ed opportuna, in quanto difficil­mente equivocabile.

Innanzi tutto, si precisa che i termini indicati in ciascuna delle tabelle decorrono dalla data di ricevimento della denuncia o della domanda del pri­vato (art. 3). Segue l’indicazione degli elementi che vanno riportati nella de­nuncia o domanda: oltre alle generalità del soggetto, le caratteristiche specifi­che dell’attività da svolgere e, inoltre, una dichiarazione di responsabilità del richiedente circa la sussistenza dei presupposti, ivi compreso il versamento di tasse e contributi, e dei requisisti previsti dalla legge al riguardo.

Le disposizioni successive dell’art. 3 (commi 3-6) recano previsioni puntuali e senz’altro lodevoli, siccome dirette a prevenire qualsiasi applica­zione elusiva o capziosa, e apertamente informate alla chiarezza e traspa­renza del rapporto tra l’Ufficio e il richiedente o denunciante. Ivi si precisa che, della presentazione della denuncia o domanda (relativa alle attività elencate nelle tabelle), l’amministrazione deve rilasciare ricevuta, specifican­do che, ove il plico sia stato trasmesso a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, la ricevuta è costituita da quest’ultimo, debitamente firmato. Inoltre, l’Ufficio ricevente tenuto a comunicare gli estremi dell’amministrazione competente, dell’ufficio e della persona responsabile del procedimento, e dell’ufficio in cui si può prendere visione d gli atti (art.5).

Qualora la denuncia o la domanda del privato non siano complete o  regolari — prescrive il comma 3 — l’amministrazione ne dà comuniciztone all’interessato entro dieci giorni, “indicando le cause di irregolarità o di incompletezza” con l’ulteriore precisazione che, in tal caso i termini previsti nelle tabelle per il compimento dell’effetto giuridico ex artt. 19 e 20 decorrino dal ricevimento della richiesta diretta a integrare o rendere regolare la denuncia o la domanda.

La valenza applicativa del regolamento menzionato, ad ogni modo è stata fortemente limitata dalla stessa L. 537\1993.

Successivamente, il DPR 9 maggio 1994, n. 411, ha disciplinato i casi di esclusione della denuncia di attività. Da ultimo, il DPR 31 luglio 1996, n.468, integrandola Tab. A, di tale decreto, ha individuato i casi di esclusione in rela zione ai quali, lungi dal costituire una elencazione esaustiva e tassativa, si collocano in chiave di ausilio per l’interprete nella delimitazione dell’ambito di operatività della disciplina.

 

3.5 L’attività amministrativa di verifica conseguente alla de­nuncia. L’istituto di cui all’art. 19 della L. 241/1990, prevede l’iscrizione, in fa­vore dei privati, della facoltà, nei casi previsti, di intraprendere l’eser­cizio di una determinata attività economica sulla base della presenta­zione di una mera denuncia all’indirizzo dell’amministrazione compe­tente e della conseguente assunzione di autoresponsabilità da parte del denunciante.

            Nel caso di denuncia di inizio attività manca una do­manda che funge da atto di iniziativa procedimentale e, quindi, non si è in presenza di un procedimento di autorizzazione, bensì di verifica. L’amministrazione è, infatti, tenuta a dar vita ad appo­sito procedimento volto alla puntuale verifica della sussistenza, in capo al richiedente, «dei presupposti e dei requisiti di legge ».

            Ne deriva, in tal modo, il differimento dell’esercizio del potere di controllo, ad un momento successivo rispetto all’avvio di attività: grazie a una sorta di «presunzione di conformità ai presupposti ed ai requisiti di legge superabile con la prova contraria essa può essere dapprima in­trapresa e poi sindacata »[12].

            Detto procedimento, soggetto alle regole cristallizzate dalla legge 241/1990, può concludersi, con un esito positivo, nel qual caso il procedimento medesimo si concretizza in una sorta di archiviazione (non atto), senza l’emanazione di un prov­vedimento da comunicare al dichiarante; ovvero, con un esito negativo, nella quale ipotesi l’amministrazione inte­ressata dispone, con atto motivato, il divieto di prosecuzione della de­nunciata attività e la rimozione dei risultati dalla stessa prodotti, a meno che, ove possibile, l’interessato non provveda a conformare l’at­tività e gli effetti alla normativa vigente. iniziativa spettante alla PA. appare mirata ad un prin­cipio di conservazione: l’amministrazione procedente è obbli­gata a tentare la via della sanatoria, a seguito della verifica del mancato rispetto dei requisiti, e, solo ove tale sanatoria non ri­sulti praticabile, è legittimata ad esercitare i propri poteri di interdizione.

           

3.6 Natura giuridica dell’attività di verifica. Prevalentemente, in ordine alla natura giuridica dell’attività di controllo, sono due le tesi maggioritarie: quella dell’autotutela e quella del controllo successivo.

La soluzione dell’autotutela è stata prospettata sia dal Consiglio di Stato[13], il quale basa il suo assunto sulla con­siderazione che l’esercizio del potere di verifica de quo interviene suc­cessivamente all’inizio di un’attività già intrapresa, di talchè esso non può non configurarsi alla stregua e nei limiti del potere di autotutela spettante all’amministrazione: l’inquadramento dell’attività in que­stione nell’ambito dell’autotutela si evince dal collegamento con l’even­tuale intervento repressivo che ne può conseguire[14].

Nell’ambito della dottrina, mentre per alcuni tanto l’attività di accertamento quanto quella, eventuale, di repressione sono da ricondurre al potere di autotutela[15], altri propen­dono per una scissione della fase di verifica dalla fase repressiva, ed inquadrano solo quest’ultima nel potere di autotutela. Va puntualizzato_che non necessariamente dalla verifica dell’insussistenza dei presupposti e requisiti di legge, la PA, in via automatica, debba adottare un provvedimento di divieto, ciò avverrà qualora l’am­ministrazione non ravvisi la sussistenza di un interesse pubblico al­l’emanazione dell’atto repressivo.

            L’altra soluzione, invece, è quella per cui l’esercizio del potere di verifica, susseguente alla denuncia di inizio attività è da inquadrare nell’ambito dell’attività di controllo (successivo) dell’amministrazione dalla quale può scaturire un provvedimento repressivo.

 

3.7 I termini per l’attività di verifica e per adottare provvedimenti repressivi. E’ stata dibattuta la questione relativa alla natura perentoria ovvero ordinatoria del termine di sessanta giorni che l’art. 19, L.241\1990, fissa all’amministrazione per la verifica della sussistenza dei presuppo­sti e dei requisiti di legge, nonché per l’emissione del divieto di prose­cuzione dell’attività e dell’ordine di rimozione degli effetti che si siano eventualmente già prodotti.

A riguardo, va detto, che le opinioni più significative, in seguito alla riforma della norma in commento,  sono sostanzialmente tre: a) per una prima tesi minoritaria, è da escludere che il termine di cui trattasi abbia carattere perentorio, in quanto l’interesse pubblico a reprimere condotte con esso confliggenti prevale sull’interesse privato alla certezza della situazione; b) altra tesi è dell’avviso che il termine è perentorio solo relativmente alla verifica obbligatoria dei presupposti e requisiti di legge, mentre è ordinatorio riguardo alla successiva ed eventuale fase repressiva nell’interesse pubblico; c) la tesi maggioritaria propende per il carattere perentorio del termine,il quale una volta decorso impedirebbe l’assunzione di un provvedimento amministrativo volto ad inibire l’esercizio dell’attività del privato.

            Il Caringella ritiene che la previsione di un termine perentorio, pur inquadrabile nell’ottica di una garanzia del privato a fronte del pericolo di comportamenti ingiustificatamente dilatori della P.A., si tradurrebbe nella creazione di un ostacolo insormontabile ad una corretta effettuazione dell’opera di verifica da parte della P.A[16].

Alla luce di tanto, quindi, si renderebbe necessario  un intervento interpretativo di carattere correttivo che limitasse l’obbligo al rispetto del termine de quo nelle sole ipotesi in cui l’amministrazione si orienti nel senso della non praticabilità di una sanatoria da parte del privato e, quindi, esercitando immediatamente il potere repressivo di sua pertinenza[17].

Per converso, il rispetto del termine in questione, traiettoria dovrebbe venire meno ove l’amministrazione ritenga possibile un intervento sanante da parte del denunciante in arco temporale all’uopo conferitogli. In tale evenienza, infatti, il termine di 60 giorni dovrebbe ridecorrere dall’inadempimento del privato all’invito della conformazione.

 

3.8 Tutela dei terzi.  La novità normativa della denuncia di inizio attività, caratterizzata, come visto, da una verifica successiva della conformità dell’attività intrapresa dal privato, alla disciplina regolatrice di settore, ha scemato la tutela del terzo pregiudicato dalla attività del denunciante.

            La dottrina e la giurisprudenza hanno evidenziato, alla luce dei principi generali dell’ordinamento amministrativo, la rilevanza degli strumenti tutori della sfera di interesse del terzo, ed in particolare:

a)        la partecipazione, in qualità di controinteressati, al procedimento di acclaramento, con conseguente dedu­zìone, ex artt. 7 e ss. L.241\1990, delle ragioni e degli inte­ressi di loro pertinenza;

b) la diffida all’amministrazione all’adozione delle misure di autotutela, attraverso l’evidenziazione delle argomentazioni funzionali all’in­tervento delle stesse, ed, in

caso di silenzio dell’amministrazione, l’esperimento del ricorso all’autorità giurisdizionale amministrativa onde conseguire l’ac­certamento della sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo aIl’am­ministrazione;

c) la partecipazione, in qualità di controinteressato, nel giudizio propo­sto innanzi al giudice amministrativo, dal privato denunciante che agisce per l’annullamento del provvedimento repressivo illegittimo oppure in­tervenendo nel processo ad opponendum qualora non sia titolare di un interesse qualificato alla reiezione del ricorso.

 

4. L’art.20 L.241\1190. Le attività dei previsti ed il controllo dalla PA. Il tema degli effetti giuridici del comportamento inerte o silenzioso della PA ritorna, sotto altre firme nella norma dedicata ex professo al silenzio della PA. Il tratto comune con le disposizioni dedicate al nuovo istituto della denunzia di inizio attività sta nel fatto che, in entrambi i casi, non viene in considerazione un agere di organi e uffici pubblici, bensì un com­portamento di questi non attivo, consapevole (o intenzionale) o meno che sia l’organo della PA interessato delle conseguenze che scaturiranno sul piano giuridico del suo modus operandi silenzioso. E, in effetti, l’art.20 L. 241/1990 mostra un certo parallelismo con quello pre­cedente, e non a caso anche la sua concreta operatività è subordinata all’emanazione di un regolamento del genere di quello già (brevemente) esaminato.

In sostanza, sia la struttura e le modalità applicative della norma che il relativo contenuto depongono nel senso che la medesima va a completare le statuizioni ricomprese nell’articolo precedente, così ottenendosi una di­sciplina completa e articolata della casistica concernente l’esplicazione di attività private in linea di principio libere, (in uno Stato di diritto) subor­dinate al rilascio di un atto di assenso di organi amministrativi[18].

In relazione a tale ulteriore gamma di attività umane, la legge consente l’utilizzazione di uno strumento analogo a quello previsto all’art.19 L. 241\1990, (e già conosciuto dall’ordinamento) evidentemente conformato alle esigenze di snellimento di certe pratiche burocratiche per le quali l’ordinamento ritiene necessario un atto di assen­so, consentendo tuttavia alla P.A. interessata di intervenire anche successi­vamente onde verificare la conformità delle attività private alla normativa vigente.

La mens legis, in altre parole, sembra avere presente l’intera gamma delle attività umane, libere ma nondimeno soggette al consenso dell’autorità, esplicantesi in varie gradazioni implicanti un grado più o meno intenso di controllo e ingerenza da parte della PA, sulla vita dei singoli amministrati nel pubblico interesse, per un verso assoggettandole a fini, peraltro, di semplificazione e democratizzazione dei rapporti fra Stato-apparato e citta­dini al regime della denuncia legittimante, per l’altro a quello del silenzio assenso[19]. In tal modo, la legge ha, il chiaro intento, di agevolare le relazioni fra amministratori ed amministrati. Per quanto attiene alla distinzione fra i due regimi e all’inserimento di una determinata attività in uno piuttosto che nell’altro regime, il legislatore ha delegato il Governo a compiere le relative scelte per l’individuazione dei rispettivi ambiti di attività soggette alla denuncia legittimante e al silenzio-assenso, nel primo caso per esclusione, nel secondo in positivo. Quest’ultimo, nell’emettere il regolamento autorizzato, terrà presente il gra­do di complessità degli accertamenti da effettuare, l’intensità del controllo previsto per i vari settori delle attività private, e la rilevanza dell’attività medesima, etc. al fine di applicare l’uno o l’altro regime.

 

4.1 Il silenzio-assenso come istituto a carattere generale? La norma in esame prevede che, con successivo regolamento, vengano disciplinati i casi in cui la domanda di rilascio di un’autorizzazione, licen­za, abilitazione, nulla osta, permesso o altro atto di consenso comunque denominato — cui sia subordinato l’esercizio di un’attività privata — si con­sidera accolta qualora non venga comunicato all’interessato il provvedimento di diniego entro un determinato termine. Soggiunge la medesima norma che il termine in questione verrà prefissato per categorie di atti, in relazione alla complessità del relativo procedimento. In concreto, si preve­de che determinate attività private possano essere intraprese dopo l’inutile decorso del termine prefissato in relazione alla categoria in cui rientra l’atto di assenso richiesto, senza che l’amministrazione competente abbia comunicato il proprio diniego[20].

            Nel pregresso ordinamento, la regola era precisamente l’opposto, e che istituti come il silenzio-assenso costituivano l’eccezione, e si applicavano solo se esplicitamente previsti da specifiche norme (derogatorie) di legge[21].

            Conviene, ora, sottolineare un aspetto specifico del silenzio-assenso ex art. 20 (del resto corrispondente ad omologhe disposizioni dell’istituto re­golato nell’articolo precedente). Con una disposizione che si potrebbe de­finire una clausola di salvaguardia, si prevede che la PA competente, una volta formatosi il silenzio-assenso (in conseguenza dell’inutile decorso del termine prefissato dalla presentazione dell’istanza da parte dell’interessato), possa, riesaminando funditus la questione, annullare l’atto di assenso che essa ritenga illegittimamente formatosi (evidentemente in conseguenza del difetto di rilevanti presupposti o requisiti di legge)[22].

Tale annullamento tuttavia — specifica la norma — è consentito solo ove ne sussistano le ragioni di pubblico interesse (in ciò recependo principi elaborati da consolidata giurisprudenza), e sempre che non sia possibile as­segnare all’interessato un termine per sanare i vizi riscontrati, rimuovendo la corrispondente irregolarità.

Ritornando ai principi giurisprudenziali sui si è fatto riferimento, si ricorda che gli stessi hanno dato luogo ad insegnamenti di scuola, da tempo recepiti dalla dottrina. Alla luce di siffatti principi - elaborati in via generale pressocchè per tutti gli atti di rimozione di precedenti provvedimenti – l’annullamento d’ufficio di atti illegittimi è consentito qualora, oltre al ripristino della legalità violata, sussista un interesse pubblico (concreto e attuale) alla rimozione dell’atto (tali principi debbono essere osservati a maggior ragione nel caso della re­voca di atti viziati).

La ragione alla base di siffatto orientamento non è certamente oziosa o mera petizione di principio: questo è sorto e si è consolidato in relazione alla necessità di tenere conto dell’assetto di rapporti che si era instaurato, in conseguenza del consolidarsi dell’atto, fra l’Autorità e il singolo, beneficia­rio del provvedimento (sia esso ad efficacia prolungata o istantanea), poi ri­sultato viziato (ciò vale specialmente per la revoca). Al riguardo, anzi, si è anche affermata la necessità di effettuare la comparazione — oltre che fra l’interesse pubblico primario ai ripristino della legalità e gli altri interessi secondari, pubblici, all’eventuale conservazione dell’atto — fra il menziona­to interesse (pubblico primario) alla rimozione e quello del privato a man­tenere in vita l’atto.

Il limite che — nell’interpretazione prospettata — la norma pone all’an­nullamento dell’atto di assenso tacito in sede di autotutela, deve a maggior ragione ritenersi giustificato, per il fatto che la disposizione in questione non pone testualmente limiti di tempo all’esercizio del potere di autoan­nullamento. In tal modo la posizione giuridica dell’interessato potrebbe es­sere incisa anche dopo lungo tempo, quando ormai l’assenso tacito ha de­terminato un assetto di interessi consolidati.

            L’art. 20, in ordine al suo oggetto, afferisce a settori caratterizzati dall’intervento di autorizzazioni a contenuto discrezionale e, comporta, quindi, un’opera di organica disamina degli interessi, impedendo al privato di intraprendere l’attività autorizzando antecedentemente al decorso dell’arco temporale funzionale alla maturazione del provvedimento tacito di accoglimento[23].

 

 

 

4.         2 Il D.P.R. 26 aprile 1992 n. 300 e il D.P.R. 9 maggio 1994 n. 407 ed il potere interventivo della PA. Il regolamento approvato con 4 D.P.R. n. 300/92 ha posto la disciplina integratrice e attuativa non solo in relazione all’istituto di cui all’art 19, ma anche in merito al silenzio-assenso, regolato dall’art. 20. In particolare, la tabella C allegata al decreto si riferisce espressamente ai casi in cui si applica il silenzio-assenso, mediante l’elencazione delle relative materie.

            Quanto al silenzio-assenso, il comma I dell’art. 4 specifica che l’atto dì as­senso si considera formato (solo) allorché la domanda sia conforme alle prescrizioni dell’art. 3, comma 2, vale a dire, contenga non solo le gene­ralità del richiedente e le caratteristiche specifiche dell’attività da svolgere ma, altresì, la dichiarazione di responsabilità circa il possesso di presuppo­sti, compreso il versamento di tasse e contributi, e requisiti richiesti dalla legge[24].

            Giova tenere a mente che in giurisprudenza si è manifestato un indirizzo contrario alla introduzione del silenzio assenso attraverso norme regolamentari, sull’assunto che, in tal modo, verrebbero pregiudicate ragioni di legalità sostanziale[25]. Ha replicato il Consiglio di Stato rilevando che il conseguimento del provvedimento  favorevole per silentium non esclude che l’amministrazione possa esercitare, in via di autotutela ulteriori controlli, sia di legittimità che di merito, e, ricorrendone i presupposti, pronunciare annullamento ex tunc[26]. Maturato, quindi, il provvedimento tacito, la PA consuma automaticamente il suo potere di provvedere, in senso positivo come in senso negativo, conservando la sola possibilità di attivarsi in sede di autotutela con atto di annullamento del silenzio illegittimamente formatosi ovvero con provvedimento di revoca[27]. Naturalmente, come per il caso dell’art. 19 L. 241\1990, la decapitazione del provvedimento tacito presuppone il riscontro di ragioni di pubblico interesse nella direzione della cancellazione dell’atto[28].

            Va evidenziato, da ultimo, che la mancata estensione dell’efficacia del rego­lamento nel D.P.R. n. 300/92 alle amministrazioni diverse dallo Stato, (spe­cialmente gli enti locali territoriali) ridimensionava grandemente la portata del silenzio-assenso, che, nell’art. 20, si pone quale importante acquisizione di principio. Con il successivo regolamento (approvato con il D.P.R. n. 407/94), peraltro, si è provveduto ad ampliare sensibilmente la gamma dei procedimenti interessati ed a includerne non pochi rientranti nella competenza dei comuni.

 

4.3 Brevi cenni sulla tutela dei terzi. Merita, infine, un’ultima breve considerazione la quaestio iuris relativa al soggetto privato che ritenga di aver subito un pregiudizio a causa dell’intervento di un provvedimento tacito di autorizzazione: tale soggetto può attivarsi per tutelare la sua sfera giuridica, in sede di partecipazione al procedimento. Secondo alcuni, trattandosi di  un provvedimento della PA, seppur tacito, il  terzo potrebbe, ad ogni modo, esperire un ricorso giurisdizionale innanzi al GA.

                       

5. L’art.21 L.241\1990. L’art.21 L. 241/1990 costituisce, in buona so­stanza, un completamento dei due precedenti. In primo luogo esso va a in­tegrare, invero, il precetto degli articoli 19 e 20; in secondo luogo, inoltre, lo stesso detta disposizioni in materia di sanzioni (completando sotto que­sto profilo il precetto contenuto, rispettivamente nelle norme precedenti, che altrimenti sarebbero rimaste monche o imperfette).

Per quanto concerne il primo aspetto, va detto che l’articolo in esame contiene, con il co.1, disposizioni apparentemente di dettaglio, ma di non poco rilievo per il completamento del precetto posto con i due articoli precedenti: in tal modo, quelle statuizioni assumono concretezza e possibilità di corretta applicazione. Posto che l’art. 19 riconosce la possibilità al privato di iniziare determinate attività (il cui eserci­zio sia subordinato al rilascio di un atto di assenso da parte dell’autorità) subito dopo la presentazione della denuncia e che, il successivo articolo configura la formazione dell’assenso con il vano decorso di un termine prefissato (riconoscendo ai singoli, conseguentemente, il diritto ad iniziarne l’esercizio), la norma in esame precisa che gli interessati sono tenuti, comunque, a dichiarare l’esistenza dei presupposti e requisiti di legge richiesti.

Per quanto concerne la forma e le modalità di simili dichiarazioni, riteniamo che esse debbano essere rese davanti a pubblico ufficiale (fra i quali deve ricomprendersi anche il funzionario delegato o incaricato dal dirigente dell’ufficio, oltre a quelli canonici: notaio, cancelliere, segretario comunale) che ne autenticherà la sottoscrizione[29].

In sostanza, l’interessato viene legittimato (o facultato) ad esercitare l’attività (commerciale, edilizia, di trasporto, e così via) alla previa condizione che egli dichiari, sotto la sua responsabilità — già con l’atto iniziale la sussistenza dei presupposti e requisiti di legge. Ciò significa che la denuncia di inizio dell’attività alla PA competente, prevista dall’articolo 19, a fini del suo legittimo esercizio deve riportare quella che si può definir un’autocertificazione da parte dell’interessato; sarà, poi, compito dell’amministrazione competente provvedere a tutti gli incombenti e gli accertamenti necessari per la verifica degli stessi. Tuttavia, prescindendo dal compimento di detti incombenti, da considerare comunque doverosi per la P.A. competente, si deve sottolineare che l’effetto legittimante proprio del nuovo istituto non potrà giammai verificarsi qualora l’interessato non abbia inserito la dichiarazione in discorso nella denuncia di inizio dell’attività[30].

In tal senso deve intendersi la previetà della dichiarazione, la quale costituisce, in tal modo, una condicio sine qua non per il legittimo esercizio.

Tenuto presente quanto stabilito nell’art. 20, si deve indurre che il privato che richieda a un determinato organo, ente o uffici, l’assenso previsto dalla legge per l’esercizio di un proprio diritto relativo alle attività soggette alla disciplina del silenzio-assenso, è tenuto ad inserire analoga dichiarazione nella domanda. Ove la dichiarazione non sia stata fatta, ovvero nell’eventualità che la stessa risulti carente, si intende che la mancata pronuncia della PA. competente entro il termine assegnatole (con il regolamento di cui si è discorso), impedendo il compimento dell’effetto, non legittima l’interessato all’esercizio dell’attività.

            Infine, è opportuno ribadire che le più favorevoli disposizioni di cui agli artt. 19 e 20, non trovano, comunque, applicazione in tutti quei casi in cui l’esercizio dell’attività che il privato intende svolgere presupponga il superamento di esami o prove abilitative, dirette a verificare l’idoneità al ri­spettivo svolgimento (es. patente di guida; esercizio di professioni subordi­nate all’iscrizione a un albo, a sua volta condizionata dal superamento di prove, e simili).

 

5.1 Le conseguenze non penali delle dichiarazioni mendaci. Come si è visto, dalle dichiarazioni degli interessati (concernenti la sus­sistenza di presupposti e requisiti prefissati dalla legge per l’esercizio dell’at­tività per cui si chiede il rilascio dell’assenso) derivano notevoli effetti, qua­li la legittimazione ad intraprenderne lo svolgimento, in un caso fin dalla presentazione della denuncia (art. 19), nell’altro dal vano decorso del termi­ne fissato per la formazione del silenzio-accoglimento (art. 20). Di conse­guenza, è più che giustificato il regime sanzionatorio previsto nell’articolo in esame.

            Ivi si prevede che, in caso di dichiarazioni mendaci o di false attesta­zioni, in primo luogo non è consentita con la “conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista negli articoli medesimi” (19 e 20). In merito a tale disposizione, conviene fare qualche considerazione circa le ipotesi previste quali presupposto per l’irrogazione della misura (di natura sostanzialmente sanzionatoria). Al riguardo, sembra che il tenore letterale della norma induca a ricomprendere nella relativa previsione - in via alter­nativa - non solo le dichiarazioni fornite dal richiedente, ma anche even­tuali documenti (attestazioni o certificati) allegati alla domanda. Invero, le «dichiarazioni mendaci» non possono che appartenere all’autore delle di­chiarazioni (il richiedente o soggetto interessato); al contrario “le false at­testazioni” sembra che non possano farsi risalire che a quei soggetti (pub­blici o privati) forniti del potere (o capacità) di rilasciare, appunto, attestazioni.

            Insomma, quanto meno come ipotesi ordinaria, sembra che questa se­conda alternativa sia riferibile a terzi (soggetti diversi dal dichiarante).

            Quali conseguenze di ordine amministrativo della presentazione di di­chiarazioni mendaci e di false attestazioni, si contemplano quelle stesse previste negli artt. 19 e 20 nei casi in cui gli accertamenti condotti dalla P.A. competente conducano alla verifica dell’insussistenza delle condizioni di legge (in senso lato) per l’esercizio dell’attività in questione: il divieto di prosecuzione dell’attività già iniziata e la rimozione dei suoi effetti (art. 19). Il tenore testuale della disposizione sembra, peraltro, escludere che pos­sa farsi luogo alla conformazione a legge dell’attività e degli effetti finora prodotti (da parte dell’interessato), con la rimozione - entro il termine as­segnatogli - dell’irregolarità accertata dall’ufficio.

            Del resto la disposizione appare sorretta da una sua logica, dal momento che, se nell’ipotesi dell’art. 19 la P.A. accerta l’obiettiva mancanza di un presupposto o di un requisito, nella previsione dell’art. 21 si aggiunge la falsità o mendacia di attestazioni o dichiarazioni. Dunque, il trattamento non poteva essere identico per i due casi.

            Analogamente, la ricorrenza di dichiarazioni mendaci e false attestazio­ni esclude che possa applicarsi la sanatoria contemplata nell’art. 20, là dove si dice che l’interessato che abbia iniziato l’attività a seguito della forma­zione del silenzio-assenso può evitare l’annullamento d’ufficio dell’atto (rectius: dalla finzione di atto), sanando l’irregolarità entro il termine asse­gnatogli dall’amministrazione. La ratio, evidentemente, è quella stessa ap­pena rilevata.

            In relazione a simili statuizioni — a parte l’irrogazione della sanzione penale — ci si deve chiedere tra quali siano le conseguenze di siffatto tipo di sanzione (atipica), ovvero quale sia la sua efficacia nel tempo. Infatti, posto che l’interessato deve senza meno interrompere l’attività iniziata: senza pos­sibilità di conformazione a legge o di sanatoria, ci si domanda quale com­portamento possa legittimamente osservare l’ufficio competente nell’even­tualità che lo stesso soggetto reiteri subito dopo la domanda, stavolta in maniera del tutto regolare.

            Trattandosi di disposizione sostanzialmente sanzionatoria (come tale regolata dal principio di legalità), sembra che non possa legittimamente ostacolarsi l’attività, in relazione ad una successiva domanda (con regolari dichiarazioni, etc.).

            Il comma successivo va, dal canto suo, a completare la misura sanzionatoria, che si aggiunge a quella vista prima. Per tale disposizione, alle ipo­tesi appena esaminate si applicano anche le sanzioni ulteriormente previste dalle leggi vigenti in relazione alle ipotesi di svolgimento di una determina­ta attività in carenza dell’atto di assenso o in contrasto con esso.

            In altri termini, le misure sanzionatorie eventualmente previste da nor­mative specifiche di settore si cumulano a quelle contemplate nella norma in rassegna, salvo accertare se fra le due (o più) fattispecie normative si ponga un rapporto di specialità (cosa del testo, più che verosimile nell’ipo­tesi qui considerata), nel qual caso deve farsi applicazione dell’art. 9 della L. 24 novembre 1981 n. 689.

 

5.2 Le conseguenze penali. Oltre alle misure sanzionarorie sopra specificate, la disposizione in esa­me prevede, inoltre, che vengano applicate anche le sainzioni penali previste nell’art. 483 c.p., «salvo che il fatto costituisca più grave rea­to”.

L’art. 483 c.p. punisce il delitto di «falsità ideologica commessa dal privato in atto  pubblico”. In verità, come si evince anche dalla rubrica legis, viene, con tale norma, punito il reato ove la falsità sia commessa dal privato da­vanti a pubblico ufficiale, nel corso della formazione di un atto pubblico, e la falsità deve riguardare fatti dei quali tale atto pubblico è destinato a pro­vare la verità.

Ciò potrebbe suonare come indiretta conferma che le dichiarazioni di cui si è finora discorso debbono essere presentate, quanto meno, nella for­ma prevista dalla L. n. 15/68. Pertanto la dichiarazione deve essere sotto­scritta con dichiarazione autenticata dal funzionario all’uopo delegato dal dirigente dell’ufficio pubblico (oltre che da un notaio, cancelliere, segreta­rio comunale o altro funzionario incaricato dal sindaco (art. 20 L. 4 gen­naio 1968, nr. 15).

 

 

 

SEZIONE II: La denuncia di inizio attività in materia edilizia e nel commercio

 

1. Brevi note storiche. Nella materia dell’edilizia il concetto di “liberalizzazione” delle opere minori si fa strada ben prima dell’entrata in vigore della legge generale sul procedimento amministrativo. Invero, con la c.d. legge Nicolazzi del 25 marzo 1982 n. 94 (che convertì, non senza un focoso dibattito parlamentare, due decreti legge), si introdusse un regime semplificato per il rilascio della concessione edilizia, prevedendosi la formazione del silenzio assenso. In sostanza, in virtù dell’art. 7 di tale legge, tutti gli interventi di manutenzione straordinaria erano assoggettati ad autorizzazione gratuita ovvero al silenzio assenso, così come — del resto — le pertinenze e gli impianti tecnologici a servizio di edifici esistenti, le occupazioni di suolo pubblico mediante deposito di materiali, ecc.

Poco più tardi la legge 28 febbraio 1985 n. 47, ben nota per essere stata la prima normativa sul condono edilizio, liberalizzò le opere interne: il famigerato art. 26 (che non è ben chiaro se sia rimasto in vigore o meno allorquando sul finire del 1996 è stata coniata la d.i.a.) consentiva l’esecuzione di ogni opera interna (che non modificasse sagome, prospetti, volumetria, superficie e numero di unità immobiliari) con la semplice presentazione[31] di una relazione tecnica asseverata in luogo dell’ottenimento dell’autorizzazione[32].

Al momento dell’avvento della legge 241/1990 e, soprattutto, della L. 23 dicembre 1996 n. 662, salvo che per le opere interne (eseguibili come detto su denuncia), gli interventi edilizi minori (anche quelli in verità non proprio edilizi, ma ricompresi nel novero delle attività menzionate dall’art. 7 L. n. 94/1982) erano assoggettati o ad autorizzazione ovvero a silenzio assenso.

 

2. La denuncia di inizio attività, negli interventi edilizi minori, nel sistema della legge finanziaria del 1997.  L’art. 19 della L. n. 241 del 1990 fu modificato con la legge finanziaria per il 1994 (art. 2, comma 10, L. 24 dicembre 1993 n. 537). Per effetto dell’innovazione la legge finanziaria per il 1997 (art. 2 L. 23 dicembre 1996 n.662) novellò l’art. 4 D.L. 5 ottobre 1993 n. 398 (convertito con modificazioni dalla L. 4 dicembre 1993 n. 493), che aveva disciplinato il procedimento per il rilascio della concessione edilizia. Ebbene il co. 7 di tale art. 4 stabilì che ben otto categorie di interventi edilizi venivano assoggettate al sistema della denuncia di inizio attività, ai sensi e per gli effetti dell’art. 19 L. n. 241/90 riformato:

a) opere di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo;

b) opere di eliminazione delle barriere architettoniche in edifici esistenti consistenti in rampe o ascensori esterni, ovvero in manufatti che alterino la sagoma dell’edificio;

c) recinzioni, muri di cinta e cancellate;

d) aree destinate ad attività sportive senza creazione di volumetria;

e) opere interne di singole unità immobiliari che non comportino modifiche della sagoma e dei prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell’immobile e, agli immobili compresi nei cc.dd. centri storici non modifichino la destinazione d’uso (lettera modificata dall ‘art. 11 DL. 25 marzo 1997 n. 67);

f) revisione o installazione di impianti tecnologici al servizio di edifici o di attrezzature esistenti e realizzazione di volumi tecnici che si rendano indispensabili, sulla base di nuove disposizioni;

h) varianti a concessioni edilizie già rilasciate che non incidano sui parametri urbanistici sulle volumetrie, che non cambino la destinazione d’uso e la categoria edilizia e non erino la sagoma e non violino le eventuali prescrizioni contenute nella concessione

g) parcheggi di pertinenza nel sottosuolo del lotto su cui insiste il fabbricato.

            La norma escludeva la possibilità di avvalersi della d.i.a. in caso di opere incidenti su immobili soggetti a tutela sotto il profilo monumentale, storico, architettonico e paesistico.

La denuncia, che doveva esser corredata dall’indicazione dell’impresa appaltatrice, veniva sottoposta al termine di validità di tre anni, con l’obbligo per l’interessato di comunicare la data di ultimazione delle opere. Dunque il privato che intendeva eseguire uno degli interventi sopra ricordati, doveva presentare la denuncia almeno venti giorni prima l’avvio dei lavori, accompagnando la denuncia stessa da una relazione asseverata e dagli opportuni elaborati grafici.

            Presentata la denuncia potevano accadere due vicende: a) l’Amministrazione comunale si avvede che non ricorrono le condizioni per eseguire l’intervento in regime di dia. e, nel termine di venti giorni dalla presentazione della denuncia, notifica all’interessato l’ordine di non effettuare la trasformazione; b) l’Amministrazione accerta, ad intervento effettuato, la difformità di quanto eseguito rispetto a quanto denunciato ed attiva i poteri repressivi come se si trattasse di un abuso edilizio, applicando la sanzione pecuniaria pari al doppio del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione delle opere realizzate. Alla stessa sanzione sono assoggettate anche le trasformazioni eseguite in assenza completa di dia.

 

3. La denuncia di inizio attività nel Testo unico sull’edilizia. Dall’1 gennaio scorso sarebbe dovuto entrare in vigore il Testo Unico delle disposizioni in materia edilizia e dei 138 articoli del provvedimento solo due, gli artt. 22 e 23, sono dedicati alla denuncia dì inizio attività.

Una delle novità più rilevanti del Testo è costituita dall’eliminazione dell’autorizzazione, come titolo legittimante l’esecuzione di taluni lavori edilizi, con conseguente riduzione a due dei titoli abilitativi: il permesso di costruire ed appunto la denuncia di inizio attività. Si tratta di una scelta che avevano, già motu proprio, effettuato alcuni grandi Comuni, che nei loro regolamenti comunali hanno inteso sopprimere l’autorizzazione, individuare nel titolo “concessorio” un provvedimento eccezionale e nella denuncia un atto costituente la regola per eseguire  altri interventi non rientranti nel novero di quelli per i quali è tassativamente previsto il rilascio di un previo titolo abilitativo. Ed infatti il Testo Unico, dopo aver precisato all’art. 3 che cosa si intende per nuova costruzione (si tratta di sette tipi diversi intervento), all’art. 10 enuclea le opere per le quali ritiene necessario ottenere il permesso di costruire (tra le quali ovviamente fa rientrare appunto le “nuove costruzioni”).

Sostanzialmente il Testo Unico appare orientato da una logica in parte diversa da quella che sino ad ora ha ispirato tutta la legislazione in materia edilizia, la quale riteneva che una qualsiasi significativa trasformazione del territorio sotto il profiloedilizio\urbanistico dovesse necessitare della previa concessione comunale, mentre le eccezioni a detta regola, a dover essere specificamente previste dalla normativa: il Testo Unico inverte tale impostazione, ribaltandola, contemplando in via tassativa le ipotesi in cui il permesso di costruire è necessario e lasciando al regime della denuncia tutto il resto, quindi tutte fattispecie residuali non ricomprese in quell’elenco desumibile dal citato art. 10[33].

            E’ naturale concludere che in un sistema in cui esistono dei casi tassativi per i quali occorre il permesso di costruire, l’ambito applicativo della denuncia troverà un amplissima estensione, facendo assurgere il titolo rappresentato dalla d.i.a., quanto meno sotto il profilo quantitativo e statistico-numerico, a vero e proprio modello generale per l’esecuzione di lavori edilizi. In una parola: il permesso di costruire (già concessione edilizia) non è più la regola, ma l’eccezione che deve esser riservata ai macrointerventi” espressamente contemplati, mentre il regime della denuncia, da straordinario e tipizzato, diventa la norma per eseguire attività edilizia. Esiste, peraltro, la possibilità che le singole Regioni amplino l’elenco degli interventi soggetti al permesso di costruire (mentre è vietata la sua riduzione)[34].

            Il c.d. regime della “super d.i.a.”, introdotto da alcune Regioni, è di fatto vanificato, prima ancora dell’avvento della pronuncia della Corte costituzionale (adita con ord.za del Tribunale di Lucca del 24 novembre 2000 e dal G.i.p. presso il Tribunale di Firenze del 18 gennaio 2001), dall’entrata in vigore del Testo Unico, il quale consente a quelle Regioni che volessero mantenere una linea di “rigore” sotto il profilo dei poteri da esercitare in materia edilizia di far sì che alcuni interventi che il legislatore nazionale ritiene assentibili con denuncia vengano assoggettati al previo permesso[35].

            Ciò premesso si può ora passare a verificare quali siano gli elementi di novità che il Testo Unico ha introdotto, nei citati artt. 22 e 23, nel già vigente sistema della denuncia di inizio attività.

L’art. 22, di rango legislativo, è composto da cinque commi. La norma esordisce’ affermando il principio di cui sin qui s’è detto: sono realizzabili con d.i.a. tutti quegli interventi non riconducibili all’elenco di cui all’art. 10 e che contestualmente non sono da considerarsi “liberi” ex art. 6. Oggi, dunque, la d.i.a. è prevista per i seguenti interventi:

a) ipotesi già contemplate dal citato art. 4 del D L n 398 del 1993;

b) le opere interne disciplinate dall’art. 26 L. n. 47 del 1985 (qualora la norma dovesse ritenersi ancora esistente dal 1997);

e)        i casi residui già sottoposti al regime autorizzatorio (in sostanza: pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici esistenti; occupazioni di suolo mediante depositi o esposizioni di merci a cielo aperto; opere di demolizione senza ricostruzione, reinterri e scavi che non riguardino la coltivazione di cave o torbiere).

            L’art. 22, inoltre (comma 2), con previsione medita, assoggetta a denuncia anche le varianti a permessi di costruzione che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano le prescrizioni che sono contenute nel permesso stesso.

Il terzo comma introduce una novità di sensibile rilievo (anche se si poteva sostenere che l’istituto fosse stato già accolto dall’ordinamento), consentendo l’esecuzione di opere da realizzare con d.i.a., anche se incidenti su immobili soggetti a vincolo di tutela: in tal caso è necessario che l’interessato acquisisca in via preventiva il nulla osta della competente Autorità preposta alla tutela del vincolo stesso. Prima d’ora, invero, il co. 8 dell’art. 4 del D.L. 398\1993, chiariva che la facoltà di avvalersi della d.i.a., era data esclusivamente a condizione che l’immobile interessato non fosse sottoposto a vincolo.

            Anche il quarto comma dà vita ad una novità, o quanto meno pone fine ad una disputa che era insorta in seno alle Amministrazioni comunali relativamente alla onerosità o meno della denuncia. Il Testo Unico affida, infatti, alle Regioni il compito di individuare con legge le tipologie di interventi da assoggettare ad oneri, definendone criteri e parametri.

            L’art.22, ult.co., nella sua più chiara riscrittura, dopo i suggerimenti provenienti dall’Adunanza generale, consente al privato di optare per la richiesta del permesso di costruire anche in presenza di un intervento assoggettato a d.i.a. L’interessato, in sostanza, può decidere di intraprendere la strada più complessa e più tortuosa, quella cioè che porta al permesso di costruire, rinunciando ad avvalersi della procedura semplificata.

            L’analisi della parte legislativa del Testo Unico, relativo alla d.i.a., non può concludersi senza un accenno al disposto del successivo art. 37  che si occupa di disciplinare la c.d. sanatoria degli interventi eseguiti senza alcun titolo (quando questo era prescritto).

            Può accadere, infatti, che si eseguano interventi in assenza della denuncia, ovvero in difformità da essa. L’art. 37, ripropone l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del valore venale dell’immobile, conseguente all’esecuzione dell’opera. E’ possibile, peraltro, irrogare anche la sanzione dell’ordine di ripristino qualora si tratti di interventi di restauro e di risanamento conservativo, effettuati su immobili vincolati da leggi statali o da norme urbanistiche vigenti, oppure si tratti di immobili ricadenti nel centro storico.

            L’art. 23 Testo Unico, presenta, invece, sette commi, destinati appunto a disciplinare, sotto il profilo del procedimento, la denuncia di inizio attività. Sono rinvenibili alcune novità, tra le quali si segnala l’allungamento del termine per presentare la denuncia (rectius, per dare avvio ai lavori dopo la presentazione della denuncia), che passa da venti a trenta giorni (comma 1).

 

4. La cd. Legge obiettivo. Da ultimo, di rilevante novità in materia edilizia, è la legge obiettivo (L. 21 dicembre 2001 n. 443, in G.U n. 99 del 27 dicembre 2001, in vigore dall’ 11 gennaio 2002 ma, con riferimento alla c.d. super-dia, dal 10 aprile 2002), la quale pone numerosi problemi di interpretazione, anche con  riguardo alla Legge Costituzionale n. 3, concernente la riforma in termini federalistici dello Stato.

Per ciò che, nello specifico, concerne il regime delle opere edilizie, c.d. minori (ma che, in realtà, oggi “minori” lo sono di meno), il Testo Unico ha la sventura di nascere già vecchio.

            La Legge obiettivo costituisce, difatti, un provvedimento di modifica immediata del regime della denuncia di inizio attività. Invero, dal comma 6 al comma 14 dell’art.1, la Legge incide in modo marcato sul tema in discorso, varando il modello tanto discusso della cd. super dia, con buona pace della disciplina recata sul punto dal Testo Unico per l’edilizia.

            Ciò che lascia sicuramente confusi, ad una prima lettura dei commi in questione, è l’utilizzo di una terminologia giuridica che sembra non tener affatto in conto che, dal 1 gennaio scorso, sarebbe dovuta entrare in vigore una disciplina che la medesima terminologia ha voluto sopprimere.

            Ad ogni buon conto, secondo il tenore della legge, risultano realizzabili in base a semplice denuncia di inizio attività le seguenti tipologie di interventi edilizi:

a) le opere cc.dd. “minori” di cui al citato elenco tratto dall’art. 4 comma 7 DL. N. 398\1993;

b) le ristrutturazioni edilizie,

c) tutti gli interventi oggi soggetti a permesso di costruire, a condizione che siano disciplinati da piani attuativi che contengano precise disposizioni;

d) i sopralzi, le addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazion.

Il Legislatore, resosi comunque conto della necessità di rendere compatibile il sistema con quello appena varato con il Testo Unico, al comma 14 ha conferito al Governo il potere di emanare (entro il 31 dicembre 2002) un decreto legislativo volto ad introdurre, nel predetto Testo Unico, quelle modifiche strettamente necessarie per adeguarlo alla nuova disciplina[36].

            Ognuno vede la valenza estremamente “liberalizzante” delle disposizioni recate dalla L. 443\200, anche se, le incertezze normative, dovute alla sovrapposizione della legge obiettivo al TU, creeranno notevoli problemi, in ordine all’applicazione effettiva delle norme, ai quali dovranno porre rimedio coloro i quali sono chiamati ad applicare il diritto.

 

5.  La DIA nella disciplina del commercio (D.lgs 31.3.1998 n.114). La normativa  di riferimento — il D.Lgs. 31.3.1998, n. 114 — opera una tripartizione fondamentale, suddividendo gli esercizi com­merciali al dettaglio in: esercizi di vicinato, medie e grandi strutture di vendita, prendendo come parametri, sia la superficie, sia la popolazione residente nel Comune.

            Per meglio comprendere tale suddivisione, si richiama la definizione, data dalla normativa, del commercio al dettaglio, intesa come l’attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale (art. 4, comma 1, lett. b)[37].

            La vera novità della riforma, però, è quella di aver previsto la possibilità dell’apertura di esercizi di minime dimensioni, sottraendole all’obbligo della preventiva autorizzazione, al fine di facilitare l’in­gresso di nuove forze nel commercio.

Tuttavia, le limitazioni che possono essere poste, in via transi­toria o a regime, attraverso la disciplina urbanistica e quella rego­lamentare, mediante l’adeguamento degli strumenti urbanistici e dei regolamenti di polizia locale, fanno dubitare della portata e degli effetti espansivi della riforma[38].

Occorre rilevare, ad ogni modo, che la categoria degli esercizi di vicinato ha caratteristiche sue proprie, tali da nettamente distinguerla dalle altre strutture di vendita. In particolare, si differenzia da quelle medie (anche se con queste presenta molte analogie), in quanto per il loro insediamento, il successivo ed eventuale trasferimento di sede ed ampliamento di superficie, non paiono soggiacere agli indirizzi generali delle Regioni, se non in quanto esse legiferino espressamente nei loro riguardi. [39]

Per esercizio di vicinato, in particolare, si intende una struttura di vendita avente un superficie non superiore:

- a 150 mq, nei Comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti;

- a 250 mq, nei Comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti[40].

Le modalità per procedere all’apertura di un eser­cizio di vicinato, espressamente disciplinate dal D.Lgs. n. 114\1998, —che, peraltro, trovano applicazione anche per l’ampliamento ed il trasferimento di sede — sono ispirate ai principi della più ampia semplificazione amministrativa, tanto che, anche in questo caso, per consentire l’apertura si sostituisce l’autorizzazione con una semplice comunicazione al Comune (art. 7 del D.Lgs. 114).

Nella specie, quindi, hanno trovato applicazione, sia l’art. 19 che l’art. 20 della L. 241\1990, secondo i quali, l’atto di assenso (costituito dall’autorizzazione) è sostituito da una denunia di inizio di attività, attestante l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di_legge (art. 19), che può ritenersi accolta se, entro un termine prefissato (che, nella specie, è di trenta giorni), l’amministrazione non ne pronuncia il diniego (art. 20).

            L’interessato che intende aprire un esercizio di vicinato deve presentare preventiva comunicazione al Comune competente, con atto sottoscritto dal titolare o dal legale rappresentante, in caso, di società. Trattandosi di istanza rivolta a pubblica amministrazione è da ritenere che essa debba essere redatta in bollo e debba conte­nere tutti i dati necessari per consentire l’identificazione del titolare (cognome, nome, data di nascita, residenza, codice fiscale, la ra­gione sociale, l’eventuale iscrizione nel registro delle ditte, ecc.).

            Nell’ atto di comunicazione l’interessato dichiara:

            a) di essere in possesso dei requisiti morali, valevoli per ogni tipo di attività commerciale e di quelli professionali, qualora in­tenda esplicare l’attività nel settore alimentare; si tratta dei requisiti soggettivi;

            b) di avere rispettato i regolamenti locali di polizia urbana, annonaria e igienico-sanitaria, i regolamenti edilizi e le norme urbanistiche nonché quelle relative alle destinazioni d’uso, ossia di aver osservato i requisiti oggettivi

Innovativamente, si chiede il rispetto delle norme urbanistiche: prescrizione di non poco conto, in quanto la giurisprudenza — sotto la vigenza dell’abrogata normativa — era pervenuta alla conclu­sione che non competesse al Sindaco verificare, in sede di rilascio dell’autorizzazione, la compatibilità dell’esercizio commerciale con la disciplina urbanistica o con la normativa edilizia, in quanto g1i interessi diversi da quelli commerciali, dove­vano essere tutelati con altre modalità ed in diverse sedi [41].

            Secondo la nuova normativa, quindi, spetta al competente organo comunale verificare se, di fatto, quanto dichiarato corrisponde alla realtà e procedere, di conseguenza, alla pronuncia del divieto di inizio dell’attività allo scadere dei trenta giorni, decorrenti dalla presentazione della comunicazione.

Per quanto concerne il rispetto delle norme stabilite dai rego­lamenti comunali, è stato esattamente rilevato che il Comune dispone di un’ampia discrezionalità, sia con riferimento ai regola­menti di polizia urbana, i quali possono richiedere la disponibilità di idonea attrezzatura per il deposito e la conservazione dei generi alimentari o il rispetto di norme di sicurezza, in merito alla preven­zione incendi o l’osservanza delle disposizioni per la tenuta e la eliminazione dei rifiuti, sia per quanto concerne i regolamenti igienico-sanitari, i quali possono disciplinare, specie nei confronti dei negozi alimentari, speciali precauzioni circa l’ampiezza dei locali, gli impianti di aerazione. la pavimentazione, la localizzazione dei servizi igienici, la disponibilità di acqua, i requisiti dei locali destinati a magazzini, etc[42].

            Inoltre, non è precluso all’amministrazione comunale, nè dalla normativa previgente, né da quella attuale, l’esercizio della facoltà di valutare se un determinato locale sia o meno idoneo ad ospitare un nuovo punto di vendita (TAR. Lombardia, Milano, Sez. III, 16 aprile 1991 n. 139, ivi. 1991, pag. 2304). E’ da ritenersi legittima, quindi, la disposizione regolamentare, che —analogamente a quella contenuta nel regolamento di attuazione del piano di commercio — disponga che l’ubicazione dei locali adibiti alla vendita sia situata al piano terra, con ingresso su strada, rispondendo tale prescrizione a principi di logica, fondati — anche con riguardo all’art. 41 Cost. — ad evidenti ed intuibili ragioni di sicurezza[43].

c)         il settore o i settori merceologici, l’ubicazione e la super­ficie di vendita dell’esercizio.

            cI) l’esito dell’eventuale valutazione.

Si stabilisce, inoltre, che debbano essere le Regioni a disciplinare le modalità con cui, nelle aree metropolitane, nelle aree sovracomu­nali e nei centri storici, i Comuni possano sospendere o inibire, per non più di due anni, l’apertura degli esercizi di vicinato, “sulla base di specifica valutazione circa l’impatto del nuovo esercizio sull’ap­parato distributivo e sul tessuto urbano e in relazione a programmi di qualificazione della rete commerciale finalizzati alla realizzazione di infrastrutture e servizi adeguati alle esigenze dei consumatori”.

La violazione delle disposizioni relative all’apertura di un eser­cizio di vicinato comporta l’applicazione della sanzione amministra­tiva del pagamento di una somma da lire 5 a lire 30 milioni, nella misura stabilita dal Sindaco e dell’eventuale sospensione dell’atti­vità per non più di venti giorni, in caso di particolare gravità o di recidiva (art. 22, commi 1, 2 e 7).

            L’art. 7, co. 1, D.Lgs. n.114\1998, dispone, nello specifico, che l’apertura (analogamente al trasferimento di sede ed all’ampliamento della superficie) di un esercizio di vicinato può essere effettuata « decorsi trenta giorni dal ricevimento della comunicazione», nel senso che dopo quel pe­riodo si può dare inizio alle operazioni di vendita.

Alla scadenza dei trenta giorni, si verificano gli effetti del silenzio-assenso, ma nulla vieta, tuttavia, che il Comune, certifichi l’avvenuta formazione del silenzio-assenso, con uno specifico atto di consenso, da parte del responsabile del procedimento, entro il prescritto termine[44]. Anche se la norma non fa riferimento ad un espresso provve­dimento di diniego ovvero di inibizione all’apertura del nuovo esercizio di vicinato, la pronuncia di un provvedimento di quella natura deve ritenersi possibile, anzi esso costituisce atto dovuto, nell’eventualità in cui il Comune accerti che il richiedente non è in possesso dei prescritti requisiti soggettivi ed oggettivi, compresa la prevista superficie o si è in presenza di una valutazione comunale di inibizione o di sospensione degli effetti delle comunicazioni di apertura ( di cui all’ari. 10, comma 1, lett. c).

            E’ necessario, però, che l’eventuale provvedimento di inibizione sia sorretto da una motivazione particolarmente accurata, basata su elementi concreti, precisi e riferibili al caso di specie e non su mere apodittiche affermazioni, anche in attuazione del disposto dell’art. 3, co.1, della legge n. 241 del 1990, che richiede espressamente la motivazione di ogni provvedimento amministrativo.

Nel caso della comunicazione di apertura di esercizio di vici­nato, la necessità dell’adozione di un provvedimento inibitorio, trova fondamento sia nell’art. 19 della legge n. 241, che demanda alla pubblica amministrazione interessata, il compito di verificare entro un termine perentorio la sussistenza dei presupposti e dei requisiti richiesti dalla legge, sia nei principi di buon andamento della pubblica amministrazione, alla quale non può essere impedito di intervenire in qualsiasi momento, ad annullare i vizi di illegitti­mità di un procedimento, quale risulterebbe quello mancante di un elemento essenziale.

Il provvedimento di inibizione deve essere pronunciato entro il termine dei trenta giorni, in cui gli effetti della comunicazione sono sospesi, in attesa della scadenza del suddetto termine, ma la stessa amministrazione potrebbe, entro il termine dei trenta giorni, invitare l’interessato ad integrare la comunicazione ed a sanare eventuali vizi. Inoltre, deve ritenersi necessario, in conformità ai principi di speditezza e trasparenza del procedimento amministrativo, che l’eventuale diniego debba, non solo formarsi entro i trenta giorni, ma che nello stesso termine debba anche essere comunicato all’interessato[45]. Come rilevato, non è escluso che l’amministrazione, di fronte ad un’apertura che si è perfezionata su una falsa attestazione proceda, successivamente, quindi anche oltre il termine dei trenta giorni, all’annullamento dell’atto di assenso formatosi illegittima­mente, ma è necessario che sussistano valide ragioni di pubblico interesse, in conformità a quanto disposto dall’art. 20 della legge n. 241 del 1990.


Note:

[1] Caringella, Corso di diritto amministrativo, Tomo II, Milano 2001, pp.1190 ss., distingue tra liberalizzazione in senso stretto e liberalizzazione in senso lato. Per liberalizzazione in senso stretto si intende la sottrazione di un settore economico di pertinenza, originariamente, pubblica, al regime amministrativo, con contestuale riconoscimento della libertà di iniziativa privata. Ne consegue che il diritto del privato alla realizzazione ed all’espletamento della propria attività in materia liberalizzata, non più subordinato all’intervento di apposito provvedimento autorizzativi, risulta pienamente esercitabile, al di fuori di qualsiasi condizionamento e, tuttavia, limitato solo (ed inevitabilmente) dal rispetto delle altrui sfere e posizioni giuridiche. Accanto al tipo di liberalizzazione sopra illustrato, nel tessuto dei più recenti interventi legislativi, è rinvenibile una liberalizzazione in senso lato, la quale si concretizza, anziché nel recesso integrale dello Stato, nella sostituzione del provvedimento autorizzativo espresso con titolo abilitativo tacito, che si perfeziona a seguito del decorso di un determinato periodo di tempo dalla presentazione di apposita istanza da parte del privato. In quest’ultimo caso si parla, più propriamente, di silenzio assenso, istituto originariamente limitato ad ipotesi applicative ristrette e successivamente adottato in sempre più numerose e rilevanti materie: si tratta di un meccanismo per mezzo del quale, onde semplificare l’operato dei pubblici poteri e sanzionarne eventuali omissioni, alla protrazione dell’inerzia amministrativa consegue l’automatica formazione di un provvedimento di accoglimento dell’istanza privata.

[2] Circa l’esigenza, nei procedimenti autorizzatori, del necessario rispetto del principio di proporzionalità dell’azione, cfr. Franchini, Le autorizzazioni amministrative costitutive di rapporti giuridici tra l’amministrazione ed i privati, Milano 1956

[3] Secondo la terminologia attualmente usata dal Legislatore della legge Lunardi, contrariamente all’innovazione terminologica di cui al Testo Unico in materia edilizia, il quale la rinomina “permesso di costruire”, al fine di meglio evidenziare la posizione soggettiva assoluta del privato (diritto di proprietà), di fronte all’interesse pubblico garantito dalla PA.

[4] La giurisprudenza si è soffermata soprattutto sul carattere costitutivo o meno della autorizzazione. Agli inizi del XX sec., essa ha seguito la tesi della rimozione di un ostacolo ad un diritto preesistente (cfr. Cons. St., Sez. V, 22 gennaio 1936, in Foro It., 1936, III, c. 41, secondo cui lo ius aedificandi è già nella titolarità del proprietario dell’immobile; v. anche, tra le altre, Cons. St., Sez. IV, 23 luglio 1915, ivi, 1916, III, p. 77; Cass., 7 febbraio 1936, nr. 462, ivi, 1936, I, p. 439; Cass., SS.UU., 17 febbraio 1939, n. 557, ivi, 1939, I, p. 538. Successivamente, a metà del secolo, se ne è allontanata nettamente, soprattutto per negare la risarcibilità del danno derivante da illegittimo diniego dell’autorizzazione (Cass, 10 maggio 1916 in Riv. amm., 1916, p. 502; App. Genova, 27 aprile 1934, ivi, 1934, p. 744; invece, il risarcimento è state riconosciuto nel caso di annullamento giurisdizionale del provvedimento di revoca di una autorizzazione o qualora l’amministrazione avesse agito in carenza di potere. Negli ultimi decenni, la giurisprudenza ha ribadito come, prima dell’emanazione dell’atto autorizzativo, il privato non sia titolare dì un diritto soggettivo, ma di un interesse legittimo, anche in virtù della discrezionalità esercitata dall’Amministrazione. Da ciò ha trovato conferma l’orientamento contrario alla risarcibilità del diniego illegittimo di autorizzazione. Non se ne è ricavata, peraltro, la conclusione dell’allontanamento dalla tesi della rimozione di un limite all’esercizio di un diritto soggettivo del privato. Si è costruito, invece, un articolato meccanismo, per cui precedentemente all’autorizzazione il destinatario sarebbe titolare dì un interesse legittimo che si espanderebbe in diritto soggettivo con l’atto autorizzatorio e tornerebbe ad essere un interesse legittimo in presenza di un provvedimento di autotutela. Si è asserito, poi, che il rilascio di talune autorizzazioni comporterebbe il sorgere di un diritto soggettivo, sicchè l’annullamento giurisdizionale dell’atto illegittimo di autotutela determinerebbe la possibilità del risarcimento del danno. Cfr. per le ulteriori evoluzioni in materia di risarcibilità degli interessi legittimi Cass. SS. UU. 500/1999 e L. 205/2000.

[5] cfr. Cassese S., La nuova costituzione economica, Roma-Bari, 1995, 14 ss., che sottolinea come l’autorizzazione sia stata utilizzata in funzione di restrizione dell’accesso al mercato sin dai primi decenni del Novecento.

[6] Al riguardo si può fare l’esempio dello sfruttamento di acque pub­bliche, dell’attività di estrazione da una miniera, e simili.

[7] Tuttavia, occorre riconoscere che la portata della significativa innovazione era di molto ridimensionata dalle limitazioni insite nelle medesime disposizioni che la introducevano. Soltanto in via derogatoria, in sostanza, si aprivano settori delle attività umane alla semplificazione dei rapporti au­torità-libertà. Una così rilevante inversione di impostazione, infatti, era li­mitata ai soli settori che sarebbero stati individuati con il menzionato rego­lamento governativo. Lo svolgimento di tutte le altre attività sarebbe rima­sto disciplinato dalle vecchie regole.

[8] Viceversa, ciò non sarà consen­tito per quelle altre attività esplicitamente individuate con il regolamento governativo previsto dal comma 11 (regolamento poi approvato con D.P.R. 9 maggio 1994, n. 407, che ha innovato solo nella materia soggetta all’art. 20, poi seguito dal regolamento approvato in pari data con D.P.R. n. 411, e poi dal regolamento integrativo approvato con D.P.R. 31 luglio 1996 n. 468. I regolamenti sono stati pubblicati, rispettivamente, sulle GU n. 147 de1 25 giugno 1994, n. 149 dcl 28 giugno 1994 e 9 settembre 1996, n. 211.

[9] Cfr.Scoca-D’orsogna, Silenzio ,clamori di novità, in Dir.proc.amm., 3\95, pag.434-35. Nel caso di specie sono presenti tutti gli elementi distintivi del tipo di regola­mento appena richiamato, tranne l’abrogazione di norme vigenti, non rin­venendosene nella materia, trattandosi di istituto di nuovo conio.

[10] Cfr.Pajno, Gli artt. 19 e 20 della legge 241\1990, prima e dopo la legge 537\1993, in Dir.proc.amm.

[11] Cfr.Cassese, Corso di diritto amministrativo,tomo II, Milano, pag.1196.

[12] Così DE MINICO, Note sugli artt. 19 e 20 della legge 241/1990, in Dir. amm. 1993,282, secondo cui, in definitiva, l’innovazione introdotta dall’art. 19, è senz’altro più significativa per il privato, legittimato ad intraprendere una determinata attività sulla base della mera presentazione di una denuncia, che per la PA., tenuta anziché ad un controllo preventivo, ad avviare un procedimento di sindacato successivo. SCHINAIA. Notazioni sulla nuova legge sul procedimento amministrativo con riferimento alla dere­gulation delle attività soggette a regime autorizzatorio ed all’inerzia dell’amministra­zione, in Dir. proc. amm., 1991, 188.

[13] Parere n. 27/1992

[14] La tematica è esaurientemente sviluppata da G. ACQUARONE, La denuncia di inizio attività, Milano, 2000, 192 e ss.

[15] M. D’ORSOGNA, Silenzio, clamori di novità, in Dir proc.amm., 1995, 438.

[16] Pajno, op.cit.,pag.55.

[17] Caringella, op.cit.,pag.1201.

[18] Invero, mentre l’articolo 19, introducendo un istituto nuovo nel nostro ordinamento, si occupa di quei casi in cui è legittimo e possibile per il pri­vato iniziare l’attività subito dopo avere presentato denuncia di inizio di esercizio senza attendere il completamento dell’iter burocratico necessario per il rilascio dell’atto di assenso, la norma ora in esame prende in conside­razione un’altra fascia delle attività private, condizionate da un atto di as­senso della PA.

[19] Per essere più chiari, si può dire che, contrariamente all’art.19, l’art.20 non incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio, che rimane inalterato, ma introduce una modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione. Cfr.Caringella, corso di diritto amministrativo,tomo II, Milano, pag.1208.

[20] Ora, poiché analoga statuizione si era riscontrata nella stesura originaria dell’articolo precedente in relazione a determinate altre attività private, anche allora con disposizione di portata ampia e onnicomprensiva, a parte le deroghe esplicitamente individuate — se ne doveva dedurre che ci si trovava, in entrambi i casi, in presenza di istituti, se non a carattere generale, stando all’originaria impostazione “parallela” delle due norme, certamente di impiego alquanto ampio. Nella nuova prospettiva, appariva evidente cioè, l’inversione nell’impostazione delle relazioni fra amministratori e amministrati, sia pure entro i limiti delle materie individuate con regolamento governativo: salvo a inserire una specifica attività nell’uno o nell’al­tro regime, si parte dal principio che l’esercizio dell’attività privata debba essere con­sentito, in mancanza di una pronuncia tempestiva dell’ente, ovvero (nel ca­so della denuncia legittimamente) a meno che questo noti si pronunci sfa­vorevolmente, sempre entro un termine certo.

[21] Normale era l’ipotesi del silenzio diniego, che si formava dopo che fosse trascorso un certo termine (pure prefissato dalla legge) dalla data di presentazione dell’istanza, con il conseguente trasferimento nella sede giurisdizionale, ove l’interessato intendesse conseguire un risultato utile, consistente nel rilascio della concessione. Insomma, dalla finzione di un atto negativo, si è passati quasi a considera­re normale la finzione di un atto positivo.

[22] Cfr.Italo Franco, Il nuovo procedimento amministrativo commento, Padova, pag.388.

[23] A differenza dell’art. 19, il quale riguarda materie precedentemente soggette a regime autorizzatorio a carattere vincolato e, quindi, legittima all’esercizio dell’attività a seguito della sola presentazione della denuncia di inizio attività, salvo il potere repressivo in capo alla PA.

[24] In ordine alla previsione del versamento di tasse e contri­buti, lo stesso art. 4, precisato che il relativo versamento è comunque dovu­to “per il fatto della scadenza del termine per il silenzio-assenso”, soggiunge che il versamento in misura inesatta non priva di efficacia il silen­zio-assenso (tuttavia «fatte salve diverse disposizioni di legge«). L’unica con­seguenza del versamento soltanto parziale è che l’amministrazione è pie­namente legittimata a procedere alla riscossione non solo di eventuali dif­ferenze o conguagli, ma anche di somme accessorie dovute per interessi, soprattasse, maggiorazioni, penalità o sanzioni pecuniarie.

[25] Tar Lazio, sez.I, 11 novembre 1995, n.1955, in Giorn.dir.amm.,1996, 434, con commento di Cassese.

[26] Cons.Stato, sez. IV, 27 ottobre 1998, n. 1394, in Urb. E App.,1999, 1101.

[27] Ad. Gen. del Consiglio di Stato, con parere del 6 febbraio 1992, n.27.

[28] Cons. Stato, sez.IV, 21 aprile 1999, n. 494, in Urb. e app.,1999, 1102 che in senso opposto al decisum Cons.St., sez.IV, 27 ottobre 1998, n. 1394, reputa necessaria la motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico ai fini dell’annullamento del provvedimento tacito.

[29] Il dichiarante si assume la responsabilità delle dichiarazioni rese con la sottoscrizione. Cfr. la normativa sulla semplificazione, da ultimo il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa (DPR 28 dicembre 2000).

[30] Cfr. quanto si è detto in ordine alle previsioni del regolamento approvato con DPR n.300\1992.

[31] E’ stato osservato che all’emanazione dell’art. 26 il Legislatore è giunto più che per una piena consapevolezza giuridica, quanto per la marginalità delle opere interne sotto il profilo edilizio, per la loro amplissima diffusione e per l’assenza di impatto sul tessuto urbanistico propriamente detto.

[32] Probabilmente la considerazione coglie il vero, tenuto conto che ancora nei primi anni ottanta la cultura giuridica italiana non appariva esser completamente pronta ad accogliere i principi recati qualche tempo dopo dagli artt. 19 e 20 della L. 7 agosto 1990 n. 241. L’art. 26, però, costituisce una seppur poco indicativa anticipazione di quella tendenza alla “liberalizzazione” di interventi ritenuti poco invasivi secondo il prudente apprezzamento del Legislatore, e dunque meritevoli di esser assoggettati ad un regime giuridico diverso riservato, invece, a ben altre iniziative private.

 

[33] Ferma restando ancor oggi la vigenza del principio contenuto nell’art. 1 della cd. Legge Bucalossi (sulla necessità di un titolo formale per e opere di trasformazione del territorio), che il Testo Unico non avrebbe potuto elidere per assenza di delega, si è comunque deciso di specificare quali sono gli interventi che comportano quella “trasformazione” sotto il profilo edilizio/urbanistico (in “soldoni”, le nuove costruzioni e le ristrutturazioni con ampliamento).

[34] La facoltà è prevista dall’art.10, ult.co., del Testo Unico, il quale si affretta a sancire che la violazione delle regole regionali non determina, in tal caso, l’applicazione delle sanzioni penali.

 

[35] Va invero segnalato che in sede di Conferenza Unificata le Regioni hanno invano chiesto l’inserimento di un comma, nel futuro testo dell’art. 22, del seguente tenore: “Le Regioni possono individuare con legge ulteriori interventi da realizzare attraverso denuncia di inizio di attività”. Il che, in sostanza, rappresenta l’esatto contrario di ciò che invece è stato recepito nel Testo Unico, dove alle Regioni è stata si lasciata una facoltà, ma che è quella di estendere i casi di applicazione del permesso dì costruire e non di ridurli: in altri termini è sembrato costituzionalmente illegittimo permettere alle Regioni di “alleggerire” la disciplina dei titoli abilitativi, sottoponendo a semplice d.i.a. interventi che comportano una trasformazione edilizia ed urbanistica.

[36] Con D.L. 20.6.2002 n.122 (Gazz. Uff. n.144 del 21.6.2002), il Governo ha prorogato l’entrata in vigore del TU in materia edilizia, all’1.1.2003.

[37] Il decreto legislativo richiama, innovativamente, il rispetto del­l’art. 1336 c.c., circa l’efficacia dell’offerta al pubblico, che vale come proposta, salvo che risulti diversamente dalle circostanze e dagli usi, con la precisazione che il commerciante al dettaglio deve procedere alle operazioni di vendita, nel rispetto dell’ordine tem­porale delle richieste, determinandosi un vero e proprio obbligo di vendita (art. 3).

[38] Si aggiunga — come è stato esattamente rilevato (DELL’AQUI­LA, in La riforma del commercio, in Italia Oggi del 26 marzo 1998) — che sarà sempre più difficile aprire un negozio in zone particolar­mente «appetibili», « sia perché di fatto i migliori locali sono già occupati da attività ben avviate, sia perché nelle zone più ricercate è difficile trovare immobili la cui destinazione d’uso sia di tipo commerciale e nei quali già non si svolga una corrispondente attività». Pertanto, è da ritenere che l’impatto maggiore provocato da questa sorta di liberalizzazione (termine, peraltro, inadatto, vista la persistenza di limiti) « verrà accusato dai piccoli e piccolissimi agglomerati urbani e dalle periferie suburbane, specie se i Comuni non correranno ai ripari adeguando celermente e adeguatamente gli strumenti urbanistici » e aggiungiamo noi — i regolamenti locali di polizia, di igiene e sanità.

[39] Tutto ciò perché — a differenza delle medie strutture di vendita — non si prescrive che l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento degli esercizi di vicinato siano soggetti  agli indirizzi generali stabiliti dalle Regioni per l’insediamento delle attività produttive.

Ne consegue che, l’attività normativa dei Comuni, rispetto a queste strutture che per le piccole dimensioni costituiscono l’ossatura basilare della rete distributiva, risulta particolarmente ampia e tale da coprire i settori non rego­lamentati specificamente dal decreto legislativo.

[40] In particolare, per sovvenire a queste esigenze, si permette alla Regione di innalzare il limite massimo di superficie di vendita sopra indicato, come è specificatamente disposto con l’art. 10, comma 4, secondo il quale “la Regione può individuare le zone del proprio territorio alle quali applicare i limiti massimi di superficie di vendita di cui all’art. 4, lett. d) ed e), in base alle caratteristiche socio-economiche, anche in deroga al criterio della consistenza demografica”.

 

[41] Cfr., tra le numerose decisioni: T.A.R. Lazio, Sez. III, 30 settembre 1986 n. 1957, in T.A.R., 1986, I, pag. 3225; T.A.R. Veneto, 4 dicembre 1985 n. 942, ivi, 1986, 1, pag. 631; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. lI, 6 giugno 1988 n. 177, ivi, 1988, 1, pag. 2627; Id., Brescia, 16 giugno 1988 n. 571. ivi, 1988, I, pag. 2651; T.A.R. Calabria, Reggio Cala­bria, 19 aprile 1989 n. 66, ivi, 1989, I. pag. 2659; T.A.R. Lazio, Latina, 27 gennaio 1990 n. 41, ivi, 1990, I, pag. 590; Id., Sez. III, 15 ottobre 1993 n. 1232, ivi, 1993, I, pag. 3939; Id., Sez. Il, 13 dicembre 1994 n. 1522. ivi, 1995, I, pag. 55; Id., 11 marzo 1996 n. 476, ivi, 1996, 1, pag. 1219; Id., 10 luglio 1996 n. 1393, ivi, 1996, I, pag. 2974; T.A.R. Campania. Napoli. Sez. IV, 14 novembre 1989 n. 321, ivi, 1990, I, pag. 306; TAR. Puglia. Bari, Sez. I, 4 novembre 1993 n. 703, ivi, 1994. I, pag. 294; TAR. Toscana, Sez. Il, 20 marzo 1996 n. 155, ivi, 1996, I, pag. 1972; TAR. Sardegna, 23 agosto 1996 n. 1971, ivi, 1996, 1. pag. 3998; TA.R. Abruzzo, Pescara, 7 marzo 1997 n. 101; Cons. St.. Sez. V. 23 ottobre 1985 n. 346, in Cons. Stato, 1985, I, pag. 1132; Id., 14 giugno 1991 n. 942. ivi, 1991, I. pag. 978; contra, T.A.R Campania, Napoli, Sez. IV, 26febbraio 1996, n.164, in TAR,, 1996, I, pag. 1520, pronuncia rimasta — a quanto risulta — isolata.

[42] Cfr. RAGONESI, La disciplina dell’attività commerciale, Milano, 1999.

[43] (TAR. Campania, Napoli, Sez. V, 14 settembre 1993 n. 529,ivi, 1993, I, pag. 4188).

 

[44] È stato ritenuto che la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di apertura, ampliamento e trasferimento di esercizio commerciale, a norma del D.P.R. n. 407 del 1994, non comporta la decadenza dell’amministrazione comunale dal potere di pronunciare in ordine alla domanda in modo espresso e motivatamente (T.A.R. Lombar­dia, Milano, 15 aprile 1996 n. 497, in TAR., 1996. I, pag. 1856).

[45] T.A.R. Veneto, 26 aprile 1996 n. 1790, ivi, 1996, 1, pag. 4529.