La cosa giudicata, disciplina giuridica e caratteri

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Giudicato o cosa giudicata, nel diritto processuale italiano, indica un provvedimento giurisdizionale diventato incontrovertibile, cioè non più assoggettabile ai mezzi di impugnazione ordinari, o perché siano decorsi i termini per impugnare o perché siano stati esperiti i mezzi d’impugnazione previsti.

Un provvedimento passato in giudicato è contraddistinto dall’incontrovertibilità della cosa giudicata, nessun giudice si può pronunciare un’altra volta su quel diritto sul quale c’è stata una pronuncia che abbia esaurito la serie dei possibili riesami (principio del ne bis in idem), questo esaurimento si verifica sia quando i diversi gradi di giurisdizione si siano svolti, sia quando si sia rinunciato ad essi.

La caratteristica strutturale dell’attività giurisdizionale di cognizione è data dall’essere strutturata in modo da concludersi in una pronuncia, assoggettata a una serie limitata di riesami del giudizio o mezzi di impugnazione, l’esaurimento dei quali dà luogo all’incontrovertibilità propria della cosa giudicata.

L’incontrovertibilità del giudicato è di tipo relativo, perché esistono dei mezzi d’impugnazione straordinari sia in diritto processuale penale (revisione) sia civile (revocazione e opposizione di terzo).

Una sentenza si dice passata in giudicato quando è cosa giudicata, cioè quando è trascorso il tempo utile per poter essere impugnata, di norma sei mesi dalla pubblicazione, senza che l’impugnazione (per esempio presentazione di appello o ricorso in Cassazione) sia stata presentata, e da questa  data la sentenza acquisisce efficacia definitiva.

In casi particolari per scelta del Giudice alcune sentenze possono essere emesse con “immediata” efficacia esecutiva.

Possono essere impugnate lo stesso, ma la loro efficacia deve essere revocata dal Giudice superiore perché le cose ritornino alla situazione precedente.

Il principio del ne bis in idem (dal latino letteralmente “Non due volte nello stesso”) è fortemente correlato al giudicato.

Cardine essenziale di questo principio è la certezza del diritto e dei provvedimenti emessi dagli organi giurisdizionali.

In ambito penale questo principio si riflette anche sulla possibilità di evitare persecuzioni eccessive nei confronti di soggetti prosciolti o condannati.

Nel codice di procedura civile viene espressa dall’articolo 324 che contiene la regola del passaggio in giudicato della pronuncia.

Questa norma è rubricata sotto il titolo “cosa giudicata formale”, in contrapposizione a “sostanziale”, ed equivale a processuale.

In relazione alla funzione sostanziale della cognizione chiamata cosa giudicata sostanziale e disciplinata tra i diritti sostanziali cioè nel codice civile all’articolo 2909, il quale enuncia che l’accertamento passato in giudicato fa stato tra le parti, loro eredi ed aventi causa.

Di conseguenza rendendolo conforme al risultato incontrovertibile dell’accertamento, salve le conseguenze di eventuali fatti successivi (jus superveniens).

Secondo l’articolo 2909 del codice civile, la cosa giudicata (o giudicato sostanziale o autorità di cosa giudicata) è il far stato ad ogni effetto dell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato formale nei confronti delle parti, dei loro eredi o aventi causa.

La funzione pratica dell’istituto, come del processo dichiarativo che a questo è fondamentalmente preordinato, è quella di soddisfare il bisogno di certezza giuridica circa la regola di diritto che disciplina i rapporti sostanziali tra le parti.

A questa esigenza, l’istituto risponde appunto garantendo che l’accertamento contenuto nella sentenza oramai non soggetta alle impugnazioni ordinarie non possa più essere rimesso in discussione in futuri ed eventuali giudizi.

In relazione a questo si parla di immutabilità, irretrattabilità o intangibilità dell’accertamento, e il  risultato è tecnicamente garantito attraverso la paralisi, nei successivi giudizi, dell’esercizio dei poteri processuali che le parti hanno esercitato nel processo originario o che avrebbero dovuto esercitare (c.d. preclusione del dedotto e del deducibile).

Si deve stabilire in quali esatti limiti agisca il vincolo in questione e in relazione a che cosa si è soliti distinguere tra limiti oggettivi e soggettivi del giudicato. Stando alla regola dei limiti oggettivi, l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto soggettivo fatto valere nel processo agisce nei futuri giudizi nei quali sia dedotto in via principale quello stesso diritto soggettivo (c.d. effetti diretti) o siano fatti valere diritti soggettivi la quale esistenza dipenda da questo (c.d. effetti riflessi).

Se il fenomeno dell’efficacia diretta e riflessa trova fondamento nella comparazione dell’oggetto del giudizio originario con l’oggetto del giudizio successivo, vanno a monte acquisiti i criteri che garantiscono l’esatta determinazione del diritto soggettivo fatto valere in giudizio.

La questione ha condotto la scienza giuridica ad elaborare un insieme di principi noti come teoria dell’identificazione delle azioni.

Secondo questa sarebbe opportuno distinguere tra domande etero-determinate e domande auto-determinate. Alle prime andrebbero ricondotte le ipotesi nelle quali con la domanda l’attore faccia valere diritti soggettivi che si determinano in virtù delle parti, del contenuto del rapporto e del fatto costitutivo che vi ha dato origine.

L’ipotesi tipica è rappresentata da diritti relativi che hanno in oggetto prestazioni di genere, come ad esempio il diritto al pagamento di una somma di denaro. Le domande auto-determinate sarebbero relative alle ipotesi nelle quali con la domanda siano fatti valere diritti soggettivi individuabili in riferimento alle parti ed al contenuto del rapporto, come avviene tipicamente con i diritti assoluti come ad esempio il diritto di proprietà su un bene infungibile.

La regola dei limiti soggettivi mira a determinare chi sia esattamente investito dall’efficacia vincolante del giudicato civile. Sotto questo profilo si ritiene che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato vincoli, come si evince dal disposto dell’articolo 2909 del codice civile, le parti del processo, nonché i loro eredi ed aventi causa. Salvo queste due eccezioni si ritiene    che coloro che non hanno preso parte al processo non debbano soggiacere all’autorità di cosa giudicata, e questo per garantire il pieno rispetto del diritto di difesa previsto dall’articolo 24 della Costituzione.

Sempre al tema delle garanzie costituzionali è poi connesso l’ulteriore quesito se il giudicato civile costituisca una garanzia costituzionalmente prevista. La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza, sebbene lungo percorsi argomentativi anche fortemente divergenti, arrivano alla soluzione favorevole sulla base dell’interpretazione del coordinato disposto degli articoli 24 commi 1 e 2, e 111 comma 7 della Costituzione.

Nel processo civile la sentenza non più assoggettabile ai mezzi ordinari di impugnazione individuati dall’articolo 324 del codice di procedura civile (regolamento di competenza, appello, ricorso per cassazione e revocazione ai sensi dell’art. 395, nn. 4 e 5, c.p.c.) si intende passata in giudicato formale.

L’istituto disciplina la stabilità formale della sentenza ed esprime, in particolare, il più elevato grado di stabilità che l’ordinamento riconosce lla sentenza, sia pure senza giungere alla immutabilità della stessa, come chiaramente si evince dalla possibilità, per le parti cioè per alcuni terzi, di esperire le impugnazioni straordinarie.

Il fenomeno del giudicato formale interessa le sentenze del giudice, sia quelle che decidono la domanda nel merito, sia quelle di rito, con le quali il giudice decide sull’esistenza o meno di un vizio di natura processuale.

In contemporanea alla formazione del giudicato formale, le sentenze che decidono il merito della controversia diventano idonee a produrre l’effetto di accertamento definitivo descritto dall’articolo 2909 del codice civile, cioè fanno stato ad ogni effetto tra le parti, loro eredi e aventi causa.

Il passaggio in “giudicato” di una sentenza penale è quella situazione di definitività della pronuncia stessa che segue all’inesperibilità avverso quel provvedimento di alcun mezzo di gravame;e ciò, per esaurimento delle impugnazioni possibili ovvero per decadenza dalle stesse. Il giudicato penale tuttavia è flessibile: vi sono infatti alcuni mezzi d’impugnazione straordinari appositamente predisposti in via eccezionale per permettere un nuovo giudizio sul fatto. Ci si riferisce alla revisione e alla revoca della sentenza di non luogo a procedere. In questi casi si deroga di fatto al disposto del divieto di bis in idem indicato nell’articolo 649 del codice di procedura penale.

Il giudicato determina l’ “irrevocabilità” della sentenza e del suo contenuto e crea un effetto preclusivo, di carattere soggettivo, verso quel soggetto “giudicato” e non più sottoponibile a processo per lo stesso fatto (ne bis in idem) (ex artt. 648 e 649 c.p.p.).

Dal giudicato nasce la cosiddetta esecutività delle pronunce, e cioè, in caso di condanna, l’espiazione della pena inflitta. Colui che si occupa dell’esecuzione dei provvedimenti definitivi è il Pubblico Ministero presso il Giudice che ha reso la pronuncia. Il Pubblico Ministero in particolare, nelle ipotesi nelle quali la condanna riguardi una pena detentiva emette un ordine di esecuzione ordinando la carcerazione del condannato.

Dott.ssa Concas Alessandra

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