inserito in Diritto&Diritti nel febbraio 2004

L’imposta sul patrimonio netto delle imprese, profili comunitari e illegittimita’ costituzionale

Di Dott.ssa Stefania Centonze

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Con ordinanza del 16/09/2003, n° 110/22/03, la ventiduesima sezione della Commissione Tributaria Regionale, sezione staccata di Lecce, presieduta dal dott. Angelo Sodo, ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale affinché si pronunci sull’annosa questione della illegittimità costituzionalità dell’imposta sul patrimonio netto delle imprese.

Si tratta, invero, di una buona occasione per far finalmente luce su di una questione che investe una vasta platea di contribuenti realmente interessati a porre fine ad una vicenda dai tratti più che nebulosi.

L’ordinanza rappresenta uno spunto da prendere in considerazione al fine di far emergere non solo i profili di incostituzionalità dell’imposta ma, anche, gli evidenti contasti con la normativa comunitaria di settore, nonostante la giurisprudenza contraria della Corte di Giustizia europea.

Il collegio della sezione ventiduesima ha ritenuto doveroso non lasciare passare inosservate le ragionevoli argomentazioni sostenute dal difensore della società ricorrente nel tentativo di mettere in luce il grosso carico di incostituzionalità dell’imposta in oggetto.

In particolare, i giudici tributari hanno rimesso gli atti alla Corte Costituzionale sulla base del rilievo che l’imposta appare in evidente conflitto con il principio della capacità contributiva (art 53 Cost.), con il principio di uguaglianza (art.3 Cost.) e con quello della tutela al risparmio (art.47 Cost.).

I) IL FATTO

Con apposita istanza, la Società chiedeva alla  Direzione Regionale delle Entrante - sezione staccata di Lecce-, la restituzione dell’importo versato a titolo d’imposta patrimoniale, ex D.L.30/09/1992, n.394, conv. dalla Legge 26.11.92, n. 461, per gli anni d’imposta : 1992-93-94-95-96, ritenendo la suddetta imposta in contrasto con la Direttiva 69/335/CEE. La stessa istante, con ricorso presentato alla C.T.P. di Lecce faceva presente che l’Ufficio non aveva provveduto al rimborso e, si era, quindi formato il silenzio-rifiuto. Nello stesso ricorso si chiedeva, in via principale, l’accoglimento del ricorso e , in via subordinata, in caso di rigetto, la rimessione degli atti  alla Corte di Giustizia europea del Lussemburgo per contrasto con la Direttiva suddetta. Ancora, in via più subordinata, veniva chiesta la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale in violazione degli artt. 3, 47, e 53 della Costituzione. La C.T.P., con sentenza n. 432/96/98 accoglieva il ricorso, ma, di seguito, l’Ufficio presentava appello .

In data 16/09/2003 la C.T.R. di Lecce, ritenendo fondate le ragione di illegittimità costituzionale dell’imposta rimetteva gli atti alla Corte con ordinanza n. 110/22/03.

Prima di affrontare la questione che oggi ci occupa, merita definire la natura e i presupposti dell’imposta netta sul patrimonio ed è opportuno tracciare, altresì, un breve panorama giurisprudenziale comunitario della materia, indispensabile per far emergere le problematiche applicative ed interpretative dell’imposta e le ragioni dello stesso rinvio.

II) L’IMPOSTA SUL PATRIMONIO NETTO DELLE IMPRESE

L’imposta fu istituita dal legislatore italiano con D.L. n. 394, 30/09/1992, conv. con mod., dalla legge n. 461/92 al fine di sopperire al grave deficit fiscale; ma, nonostante, la legge prevedesse, specificamente, dei termini perentori di durata dell’imposta, la stessa fu successivamente prorogata con D.L.n. 564/94, conv. in legge 30/11/1994, n. 656, ed, ancora, ulteriormente prorogata con legge 28/12/1995, n. 549 fino all’abrogazione avvenuta nel 1997 .

Essa colpisce il patrimonio quale risultante dal bilancio, oppure, in mancanza del bilancio, dai relativi elementi desumibili dalle scritture contabili diminuito dell’utile di esercizio. Inoltre, la patrimoniale si applica con riferimento alla data di chiusura del periodo d’imposta rilevante ai fini delle imposte sui redditi indipendentemente da qualsiasi movimento della ricchezza ed il suo ammontare è rapportato, appunto, alla ricchezza posseduta di cui fanno parte anche i conferimenti.

III) GIURISPRUDENZA E NORMATIVA COMUNITARIA

Invero, i giudici Comunitari, si sono pronunciati, già due volte (ordinanza del 15 marzo 2001 e sentenza CE C-4/97), sulla questione affermando, incomprensibilmente, la compatibilità della stessa imposta con l’ordinamento comunitario[1].

Tuttavia, appare evidente il contrasto dell’imposta in argomento con la Direttiva CEE n. 69/335[2]che ha avuto come finalità di impedire che gli Stati membri ponessero attraverso altre imposizioni ostacoli alla libera circolazione dei capitali.

Si ritiene che la ratio della citata direttiva comunitaria sia quella di evitare che le imposte sui conferimenti, in vigore negli Stati membri, diano luogo a doppie imposizioni nonché a disparità che ostacolino sostanzialmente la libera circolazione dei capitali. La Direttiva, pertanto, consente agli Stati membri di applicare una sola volta un’imposta sui conferimenti, con aliquota non superiore all’1% e li obbliga, espressamente, con riguardo sia alle società di capitali che alle società di persone con scopo di lucro, a sopprimere tutte le altre diverse imposizioni che “sotto qualsiasi forma” contrastino con la ratio della direttiva medesima. D’altronde, anche se la direttiva contempla le imposte indirette sulla raccolta dei capitali, da un punto di vista economico-sostanziale essa concerne tutte le imposte (dirette ed indirette) che realizzino un “effetto equivalente” all’imposta sui conferimenti.

Come risulta, tra l’altro, dall’ordinanza di rimessone degli atti alla Corte Costituzionale, l’imposta sul patrimonio netto, contrastando chiaramente con la più volte citata Direttiva che è di immediata applicazione, ha legittimato, di conseguenza, la disapplicazione della norma nazionale in conflitto.

La decisione della Corte di Giustizia[3], n° CE C-4/97, appare, invece, come l’invitabile risposta ad una domanda che non ha individuato con esattezza quella parte dell’imposta che, invece, colpisce il capitale sociale e si pone in manifesta violazione del diritto comunitario.

La suddetta decisione appare lacunosa ed insufficiente, in quanto non chiarisce se l’imposta abbia o meno un effetto equivalente ad una reiterazione nel tempo dell’imposta sui conferimenti o ad un surrettizio aumento dell’aliquota applicata sul capitale conferito. Perciò, per i predetti motivi, alla luce della clamorosa irrilevanza della sentenza della Corte di giustizia CE, l’orientamento giurisprudenziale italiano prevalente ha ritenuto, a ragione, di disapplicare il D.L. n.349/1992, condannando, più volte, l’Amministrazione finanziaria al rimborso.

I giudici comunitari hanno ritenuto che anche, se la base dell’imposta tiene conto dell’ammontare del capitale sottoscritto, tale capitale rappresenta solo una componente del patrimonio netto delle imprese e che non occorre isolare il capitale sociale dalla base imponibile per trattarlo separatamente rispetto agli altri elementi di quest’ultima. A fronte di tanta superficialità, i giudici nazionali hanno continuato a disapplicare la norma nel fermo convincimento che l’imposta è illegittima laddove colpisce il capitale sociale sottoscritto.

Sollecitata dalla C.T.P. di Trento, la Corte di Giustizia CE ha risposto con ordinanza del 15 marzo 2001, nella quale si legge :” La direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, 69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali, come modificata dalla Direttiva del Consiglio 19 giugno 1985, 85/303/CEE, non osta alla riscossione , a carico delle società di capitali, di un’imposta come l’imposta sul patrimonio netto delle imprese, nemmeno quando il detto tributo colpisce la componente del patrimonio netto costituita dal capitale sociale annualmente rilevato in bilancio”.

IV) L’ORDINANZA DELLA COMMISSIONE TRIBUTRIA REGIONALE- SEZIONE STACCATA DI LECCE-, SEZIONE 22, N° 11/22/03.

L’ordinanza di rimessone degli atti alla Corte  Costituzionale, in particolare, si sofferma su due aspetti che, sicuramente influiranno sul suo giudizio di incostituzionalità e cioè : l’evidente doppia tassazione attuata sui conferimenti e l’illegittimità delle proroghe compiute.

Se, quindi, l’imposta colpisce i conferimenti appare evidente che essa costituisca una nuova imposta, oltre a quella di registro, applicata appunto sui conferimenti.

Ed a questa conclusione non osta la diversa natura delle due imposte poiché appare decisivo l’oggetto economico delle imposte che per entrambe è sempre il patrimonio netto, cioè i conferimenti.

Basterà osservare che il patrimonio di una società all’atto della sua costituzione è formato appunto dal conferimento dei singoli soci ed esso, ove non sia aumentato da utili non distribuiti, rimane quello appunto costituito dai conferimenti.

L’illegittimità dell’imposta è, altresì, evidenziata dalla constatazione che il gravame è risultato avere il carattere della straordinarietà (così come scaturisce dallo studio dei lavori parlamentari preparatori relativi al disegno della legge istitutiva dell’imposta[4]), caratteristica che cozza con le numerose proroghe a cui la legge istitutiva è stata sottoposta.

Per quanto concerne la ratio delle proroghe, si evince dal comunicato stampa del Ministero delle Finanze del 29/09/1994 che tali proroghe si rendevano necessarie proprio per evitare “in futuro, l’emersione di un buco di gettito”.

 In merito alle proroghe, si legge nell’ordinanza:” Il collegio è dell’avviso che tali “proroghe”, nei modi e con le finalità espresse dal legislatore, (senza altri eventuali interventi per soddisfare interessi pubblici rilevanti), possono considerarsi in contrasto con alcuni principi generali del nostro ordinamento, ritenuti, dalla dottrina ed anche dalla giurisprudenza di legittimità, immanenti nel sistema, già prima dell’entrata in vigore dello Statuto del contribuente.”

Orbene, attraverso questo contorto meccanismo di rinvii l’imposta patrimoniale si è protratta dal 1992 al 1997, nonostante i destinatari confidassero nei limiti temporali palesemente perentori della legge. Ciò ha comportato un’evidente lesione del principio di affidamento[5] del contribuente nei confronti della legge, senza nascondere che l’imposizione ha avuto una forte incidenza negativa sulla normale gestione delle attività delle imprese, stante anche l’irragionevolezza derivante dalla palese contraddittorietà legislativa tra l’enunciazione di detti termini e le proroghe medesime.

D’altronde, l'art. 10 della legge 27 luglio 2000 n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) - che reca la rubrica: "Tutela dell'affidamento e della buona fede. Errori del contribuente" - dispone, al comma 1, che "i rapporti tra contribuente ed amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede".

E’ certo che, in questo caso, la tutela dell’affidamento abbia dovuto cedere il passo alle più imminenti esigenze di deficit economico che hanno dato causa alle copiose protrazioni a cui è stata sottoposta la legge istitutiva dell’imposta patrimoniale; con evidente “sberleffo” degli importanti principi contenuti nello Statuto dei diritti del contribuente.

Dagli atti del processo sospeso per la rimessone alla Corte Costituzionale risulta che l’imposta sul patrimonio netto delle imprese, è stata oggetto di notevoli controversie tra i contribuenti e l’amministrazione finanziaria[6]; senza nascondere, peraltro, il persistente e intollerabile contrasto, di cui si è accennato, tra la giurisprudenza tributaria nazionale e la Corte di Giustizia CE, in merito alla ritenuta incompatibilità dell’imposta italiana con la Direttiva CE n. 69/335.

Se, davvero, la Corte Costituzionale dovesse dichiarare illegittima la legge, questa perderebbe automaticamente di efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sulla Gazzetta Ufficiale, come stabilisce l'articolo 136 della Costituzione.

Difatti, è noto, che la dichiarazione di incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge rende la norma inefficace ex tunc e, quindi, estende la sua invalidità a tutti i rapporti giuridici ancora pendenti al momento della decisione della Corte, restandone così esclusi soltanto i «rapporti esauriti» come, ad esempio, quelli decisi con sentenza passata in giudicato, oppure non più operanti, per decadenza o prescrizione[7].

La scure della pronuncia della Corte avrebbe, dunque, un effetto definitivo e generale (non limitato al singolo giudizio in cui la questione è stata sollevata), e, oltre che comportare, come conseguenza immediata e diretta, l’eliminazione dall'ordinamento della legge incostituzionale, rappresenterebbe per tutti i giudizi pendenti un importantissimo punto di riferimento per la conclusione dei processi e per l’eventuale richiesta di rimborso.

Allo stato attuale andrebbe, dunque, affermata l’illegittimità costituzionale dell’imposta sul patrimonio netto delle imprese con riferimento all’ art. 1 della legge 26 novembre 1992, n.461 (istitutiva dell’imposta), all’art.1 della legge 30 novembre 1994, n.656 e all’art.110, legge 28 dicembre 1995, n. 549, (che stabilivano, rispettivamente, le proroghe della precedente legge).

L’incostituzionalità della summenzionata imposta traspare alla luce dello stridente conflitto con il principio della capacità contributiva (art.53 Cost.), poiché tassa un’aliquota che va ad aumentare di anno in anno tanto da risultare sproporzionata, colpendo una ricchezza già tassata e, incidendo pesantemente sulle riserve societarie che non rappresentano un incremento del potenziale economico della società.

In merito al principio di capacità contributiva, posto in relazione alla regola di discrezionalità del legislatore, è necessario menzionare l’importante monito della Corte Costituzionale al legislatore[8]: ”…….. il legislatore è libero, sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva, che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione d’imposta, può essere desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza…….”.

Quanto alla tassazione degli utili non distribuiti, l’imposta contrasta con il principio di uguaglianza (art.3) e con quello della tutela al risparmio (art.47 Cost.), discriminando le società che portano a patrimonio netto gli utili prodotti rispetto a quelle società che li distribuiscono, essendo applicabile ai soli aumenti di patrimonio netto, costituiti da utili di esercizio. Ciò appare in netta e irragionevole contrapposizione con la possibilità che detto utile sia poi considerato imponibile, per l’imposta in esame allorquando confluisca nelle riserve della società, senza che venga distribuito, e, quindi, anche con violazione del principio di ragionevolezza, ben noto ed espresso molto autorevolmente dalla Corte Costituzionale[9].

Del resto, il Comitato Economico e Sociale della CE, nel suo parere alla direttiva 335/69[10], ha sottolineato che dovrebbero essere abolite tutte le imposte indirette sui capitali, compresa anche l’imposta sui conferimenti.

A questo punto, è auspicabile che la Corte Costituzionale possa attentamente vagliare l’evidente carico di incostituzionalità della norma in questione e, senza mettere in dubbio la discrezionalità del legislatore del 1992 nell’istituire l’imposta, far luce sulle ragioni che hanno indotto a mantenere in vita così a lungo tale gravame che tanto negativamente ha inciso sulla fisiologia dei bilanci delle imprese.

Dott.ssa Stefania Centonze

Note:

[1] A tal proposito confronta :“Il contrasto tra la Corte CE ed i giudici nazionali sull’imposta patrimoniale” di Pietro Anello pubblicato sul Corriere Tributario n. 1/2002 in “Approfondimenti”.

[2] style='font-size:10.0pt;'>Direttiva 69/335/CEE, 17 luglio 1969, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali, pubblicata in gazzetta ufficiale n. L 249 del 03/10/1969 pag. 0025 - 0029 .

[3] La decisione rispondeva semplicemente al quesito se sia o meno compatibile con l’ordinamento comunitario e segnatamente con la Direttiva n. 69/335/CEE la previsione legislativa di un’imposta sul patrimonio netto delle società di capitali che abbia effetti economicamente equivalenti a quelli di un’imposta indiretta sui conferimenti. Invero, con la accennata sentenza la Corte di Giustizia ha assunto la liceità dell’imposta sul patrimonio quale risultante da tutto l’insieme delle componenti da esse indicate, ma non ha escluso l’illegittimità di quella parte dell’imposta che grava sul capitale sociale (da intendersi per tale anche i versamenti dei soci a fondo perduto o in conto capitale e tutti quei conferimenti sui quali è applicata l’imposta di registro).

[4] Atti Senato della Repubblica 60° seduta- assemblea: Resoconto stenografico del 18.10.1992; Discussione del disegno di legge: Conversione in legge D.L. 30.09.92, n. 394, recante disposizioni concernenti un’imposta sul patrimonio netto delle imprese. Trattasi, dunque, all’origine di un’imposta di tipo straordinaria e temporanea, chiaramente desumibile in modo espresso da tutti i lavori preparatori della stessa legge n. 461/1992, testè richiamata, oltre che dalla lettera legis e dall’intenzione del legislatore ex art. 12 delle disposizioni

[5] A proposito del principio di affidamento si veda Corte di Cassazione, sezione tributaria civile, sentenza n. 17576, del 10/12/2002.

[6] A tal riguardo è sufficiente menzionare le sentenze della C.t.P. di Reggio Emilia, n.1/7/99, della C.t.P. di Lecce , n. 306/7/01, ed infine della C.t.P. di Pescara n. 600/2000 che accogliendo in toto le tesi dei difensori hanno riconosciuto in pieno il diritto al rimborso dell’imposta sul patrimonio netto delle imprese.

[7] In ordine al termine e per il recupero dell’imposta indebitamente versata i giudici nell’ordinanza sottolineano che detto termine è sicuramente quello decennale civilistico di prescrizione ordinaria, ex art. 2946 c.c.

[8] Corte Costituzionale, sentenza n. 111 del 22/04/1997.

[9] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 313 del 28.06.1995: ”…perché sia dunque possibile operare uno scrutinio che direttamente investa il merito delle scelte (…..) operate dal legislatore, è pertanto, necessario che l’opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza.”

[10] Dal Consiglio del 10/06/85 che modifica la direttiva 69/335 CE in GUCE n. M. L 156 del 15/06/1985 pag. 23-24