inserito in Diritto&Diritti nel febbraio 2004

Codici di condotta ex art. 18 del D.Lgs n. 70/2003

di Roberto Spelta

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L'ultima normativa sul commercio elettronico, adottata dal legislatore in attuazione della Direttiva Comunitaria n. 2000/31/CE, sembra essere nata sotto il segno della deregulation reale e non apparente[1]. Che non si tratti di una mera operazione di delegificazione[2] ma di una sostanziale promozione della normazione interprivistica risulta ictu oculi proprio dall'art. 18 del D.Lgs n. 70/2003, il quale rimanda appunto alle associazioni ed organizzazioni imprenditoriali il compito di promuovere l'adozione di codici di condotta.

In particolare il detto articolo stabilisce che «Le associazioni o le organizzazioni imprenditoriali, professionali o di consumatori promuovono l'adozione di codici di condotta che trasmettono al Ministero delle attività produttive ed alla Commissione Europea, con ogni utile informazione sulla loro applicazione e sul loro impatto nelle pratiche e consuetudini relative al commercio elettronico».

Il legislatore comunitario prima e quello nazionale poi - forse loro malgrado - hanno dovuto prendere atto della sfuggente e diveniente realtà di internet, la quale ben poco si presta ad essere sottoposta ad una rigida ed analitica disciplina di carattere legislativo. Quest'ultima è infatti per sua natura immota o quanto meno poco reattiva e pertanto lenta nell'adeguarsi alle esigenze del mercato e della società civile.

Per parafrase le parole di un illustre storico del diritto comune ben si può sostenere che la normazione interprivatistica de qua possa divenire il nucleo di una nuova lex mercatoria adapted to the modern world[3]. Lo ius commune, archeologico retaggio bandito dagli ordinamenti giuridici dalla moderna codificazione napoleonica, ritornerebbe così sotto nuove e mentite spoglie sul proscenio della storia del diritto, paradossalmente veicolato dalla diffusione globale di una rete innovativa di comunicazione di massa.

Ma non solo, il nuovo diritto comune della rete finirebbe con l'essere null'altro che diritto di formazione corporativa e quindi terra di elezione di un moderno particolarismo giuridico.

Senza ricercare eccessivamente nobili natali alla scelta operata dal legislatore europeo prima ed italiano poi, non si può dubitare che questi ultimi abbiano volto lo sguardo anche oltreoceano ove le prassi di self-regulation nel campo dell'e-commerce hanno segnato l'e-law sin dai primi momenti[4]. 

Il legislatore è intervenuto comunque a confermare una prassi che nel mercato europeo ed italiano si era già da tempo affermata: le associazioni di imprenditori o di consumatori si erano infatti spinte autonomamente ad adottare codici di condotta al fine di promuovere e tutelare la sicurezza e la trasparenza delle transanzioni commerciali telematiche[5], divenendo così di fatto enti certificatori della qualità dei servizi offerti via web dalle singole imprese aderenti.

La via "etica" scelta dalle associazioni di categoria, per quanto disinteressata e gratuita, viene dunque evidentemente diretta, al pari di quanto accade per le regole di corporate governance[6], alla creazione del valore aggiunto di una speciale visibilità, credibilità ed affidabilità. Le imprese che aderiscono ufficialmente e formalmente ai codici dovrebbero pertanto incontrare un maggiore favore nel mercato, oggi più che mai attento agli aspetti qualitativi delle offerte economiche.

Il pericolo insito in tutto ciò è solamente legato al fatto che l'adozione dei codici di condotta potrebbe rivelarsi null'altro che una mera operazione di marketing o, se si preferisce, di maquillage, stante la terzietà in genere fittizia delle associazioni certificatrici rispetto al soggetto certificato.

Di una, per così dire, più accentuata terzietà dovrebbero godere invece quelle associazioni certificatrici che compiono valutazioni in ordine a soggetti che non sono loro associati, come accade per esempio con riguardo alle certificazioni rilasciate dal Codacons.

Non vi è dubbio che proprio in tale ultima prospettiva il legislatore abbia cercato di potenziare queste forme di autodisciplina, specie per favorire la diffusione dell'e-commerce tout court inteso in un contesto - quello italiano ed europeo - nel quale quest'ultimo stenta a decollare[7].

Per rendere immediatamente visibile e di conseguenza rintracciabile e percepibile da parte del consumatore l'adesione di una impresa di e-commerce ad un codice etico, le associazioni hanno dovuto far ricorso a marchi ad hoc creati.

Diversamente, la concreta adesione di una società ad un codice di condotta rimarrebbe un fatto rilevante esclusivamente intra moenia societatis, risultando priva pertanto di quella spendibilità sul mercato che ne fa un appetibile obiettivo.

La sanzione di una prassi positivamente esistente da parte del legislatore nazionale non ha inciso sui meccanismi di adozione del codice di condotta: la sua approvazione rimane rimessa esclusivamente alla buona volontà delle associazioni di categoria senza alcuna forma di pubblico imprimatur.

La legge prevede semplicemente che i codici di condotta vadano trasmessi per conoscenza al Ministero delle attività produttive e alla Commissione europea con tutte le informazioni annesse e connesse del caso.

Non vi è dubbio sul fatto che tale normativa debba trovare applicazione solo in relazione ai codici che siano stati adottati sotto il suo impero e che non possa essere ritenuta suscettiva di applicazione retroattiva.

L'art. 18 non chiarisce se le successive pattizie modifiche dei codici di condotta, al pari del loro eventuale abbandono, debbano essere pure notificate da parte dell'associazione alle autorità pubbliche sopramenzionate.

Nel silenzio della legge, e fatto salvo l'affermarsi di consuetudini che la sola prassi potrà determinare, non pare possibile concludere per un'interpretazione gratuitamente estensiva del dato letterale.

A riprova dell'assoluta marginalità del ruolo della Pubblica Amministrazione nel campo dell'adozione dei codici di condotta, si deve tener presente anche il fatto che l'art. 18 detta una disciplina anche sguarnita del benchè minimo sostegno sanzionatorio, nonostante oltre l'obbligo di comunicazione esistano altre prescrizioni di carattere positivo.

Il legislatore ha dunque rimesso totalmente al mercato[8] il potere di "sanzionare" o specularmente di premiare le imprese che siano oppure no state rispettose della disciplina di cui all'art. 18. Va da infatti che il gradimento del mercato dovrebbe indirizzarsi verso un'azienda che abbia adottato un codice di condotta, accessibile facilmente per via telematica, redatto in più lingue e che si appalesi garante della dignità della persona umana nonchè dei minori in particolare.

Sono di conseguenza le associazioni di categoria che debbono muoversi affinchè i marchi di qualità rilasciati dalle stesse siano veramente tali e cercare di rendere sempre più appetibile per il mercato l'e-commerce attraveso l'adozione di codici di condotta che diano origine ad un corpus di regole sempre più precise ed affidabili.

Allo stato, per quanto possa essere rappresentativa una valutazione di carattere generale, i codici di condotta sembrano però poco esporsi da questo punto di vista e limitarsi all'enunciazione di principi generici o quantomeno autoevidenti.

Se dovesse continuare questo trend i codici di condotta alla fine diverrebbero semplicemente sterili elenchi degli obblighi già previsti ex lege, finendo con ciò le associazioni di categoria per abdicare a loro volta quel ruolo di normazione di dettaglio che il legislatore sembra aver attribuito ad esse per il tramite della politica di deregulation.

Non vi è traccia per esempio di prescrizioni precise in relazione alla compatibilità dei siti web delle imprese aderenti alle associazioni di categoria: si potrebbe per esempio imporre nei codici di condotta l'adozione di misure tali da consentire l'accesso ai siti a tutti gli utenti del web a prescindere dal tipo di browser utilizzato. È ictu oculi evidente il fatto che la implementazione di siti di facile o semplificata accessibilità attraverso la riduzione al minimo del ricorso a complicate o inconsuete configurazioni possa recare seco enormi vantaggi sul piano della fruibilità del sito da parte di potenziali clienti.

È stato infatti dimostrato che una delle cause che scoraggiano l'utente a comprare via web è legato al fatto che molti siti delle imprese di e-commerce non sono paradossalmente compatibili con tutti i browser esistenti sul mercato o richiedono comunque per accedervi il download di particolari programmi[9]. Non è detto che tutti gli utenti della rete abbiano voglia, tempo e conoscenze sufficienti per portare a termine operazioni di download quando la finalità principale dell'e-commerce è proprio quello di agevolare e favorire al massimo le transazioni telematiche. In altri termini, la creazione di un sito di e-commerce graficamente piacevole, accattivante e ricco di animazioni non sempre può rivelarsi una scelta felice se ad essere sacrificata è la usabilità del sito da parte degli utenti.

Similmente i codici di condotta potrebbero prescrivere disposizioni particolari circa l'utilizzo di programmi e server sicuri destinati a tutelare maggiormente il consumatore non solo sotto il profilo della privacy ma anche sotto quello della certezza delle transazioni monetarie tramite carta di credito o moneta elettronica.

Come si è avuto modo di intuire, i codici di condotta sono intrinsecamente legati alla  fruizione di un marchio da parte delle imprese che decidono di aderire agli stessi per gli scopi che sono stati sopra evidenziati.

Nella prassi abbiamo riscontrato il ricorso da parte delle associazioni di categoria sempre allo stesso modello: sia che si tratti di marchio registrato[10] che di marchio di fatto[11] l'associazione concede in licenza, dietro pagamento di un obolo simbolico o gratuitamente, il diritto di utilizzare il marchio alle imprese che abbiano aderito al codice di condotta.

Lo schema in parola, nel quale rientrano un soggetto certificante che non utilizza direttamente il marchio ma che ne concede l'utilizzo ad una pluralità di soggetti terzi, sembra attagliarsi perfettamente al marchio collettivo di cui all'art. 2 Regio Decreto n. 929/1942.

Se così fosse, allora il codice di condotta potrebbe anche configurarsi come il regolamento del marchio collettivo da ritualmente allegare all'atto di presentazione della domanda di registrazione per il marchio ai sensi del secondo comma dell'articolo di cui sopra.

Pur tuttavia, nonostante lo schema utilizzato nella prassi ricalchi sostanzialmente quello del marchio collettivo, non esistono a conoscenza degli scriventi esempi nel campo de qua di formale registrazione di un marchio collettivo con l'allegato codice di condotta quale regolamento dello stesso.

Tale fatto non pregiudica evidentemente la possibilità che in un futuro prossimo venturo le associazioni di categoria possano ricorrere a tale strumento giuridico anche al fine di conferire maggiore credibilità e visibilità ai marchi nel campo dell'e-commerce, considerando in particolare il fatto che il marchio collettivo assolve la funzione istituzionale di certificare ed attestare.

Poichè però in alcune ipotesi il marchio utilizzato non viene, come si è visto, neppure registrato, si potrebbe, anche se la cosa appare dottrinalmente e giurisprudenzialmente controvertibile[12], comunque arrivare ad  ipotizzare l'esistenza di un marchio collettivo di fatto. Se così fosse, allora avrebbe un senso postulare la configurazione del codice di condotta quale regolamento di un marchio collettivo di fatto.

Nonostante le considerazioni appena formulate siano ricche di suggestioni, poichè nella prassi mancano esempi di marchi collettivi registrati e tenendo conto del fatto che la stessa configurabilità del marchio collettivo di fatto è assai dubbia il codice di condotta a latere di un contratto di licenza dell'uso del marchio potrebbe essere qualificato come il complesso delle condizioni generali di contratto ex art. 1341 del Codice Civile.

A favore di una tale ricostruzione militerebbe la natura "seriale" e standard del codice di condotta rispetto al contratto di licenza per l'uso del marchio. Infatti, alla stipula del contratto di licenza del marchio corrisponde l'adesione al codice etico: in altri termini l'utilizzo del primo è subordinato e condizionato al rispetto del secondo.

È anche vero che, essendo costituito il codice di condotta sostanzialmente solo da norme che impegnano la società aderente nei confronti dei terzi, quest'ultimo potrebbe essere ricompreso nel vasto genus del contratto a favore di terzi di cui  all'art. 1411 del Codice Civile.

L'interesse dell'associazione stipulante[13] in base alle prescrizioni di cui al detto articolo potrebbe essere individuato nel favorire lo sviluppo dell'e-commerce nel settore nel quale opera la associazione di categoria o quanto meno nell'interesse della categoria tutelata. 

L'associazione stipulante, secondo le norme dei codici di condotta, in presenza di violazioni del medesimo, può in genere procedere a diffidare la sospensione o la inibizione all'uso del marchio.

Non vi è dubbio che, sempre a livello di sanzioni private, sarebbero più efficaci sanzioni ultronee quali l'esclusione dall'associazione.

Le associazioni di categoria potrebbero all'uopo modificare le norme statutarie in relazione ai codici di condotta, di modo che la loro violazione possa comportare non solo la perdita del diritto all'uso del marchio nei casi di più grave violazione ma anche l'espulsione dalla associazione stessa. Ciò evidentemente contribuirebbe a rafforzare la rilevanza prescrittiva dei codici di autodisciplina e nel contempo anche ad aumentare la visibilità del marchio sul mercato in virtù di una più accentuata e manifesta "eticità".

Sempre in tale prospettiva le associazioni potrebbero studiare la possibilità di costituire al proprio interno una sorta di ufficio/centrale reclami al quale gli utenti del web potrebbero segnalare eventuali presunte violazioni del codice di condotta da parte delle imprese aderenti. All'uopo dovrebbero essere previste anche delle procedure interne, o quantomeno adattare quelle già esistenti, ad hoc per disciplinare l'iter del procedimento di irrogazione delle sanzioni afferenti alle violazioni dei codici di condotta.

Sul piano poi delle responsabilità dell'Ente certificatore per le eventuali violazioni del codice di condotta da parte delle imprese aderenti, riteniamo che non possano sussistere gli estremi della responsabilità contrattuale, almeno tra il consumatore danneggiato e l'associazione di categoria.

La sola responsabilità aquiliana potrebbe essere invocata per giustificare eventuali azioni per il risarcimento del maggior danno causato al consumatore dalla particolare affidabilità ingenerata nello stesso da parte del marchio di qualità utilizzato dalla impresa di e-commerce.

Si tratta, ed è facile comprenderlo, di una strada in salita, specie sotto il profilo probatorio, e forse di residuale, per quanto non impossibile, configurabilità.

La responsabilità degli enti certificatori potrebbe alla fine configurarsi come una ipotesi di culpa in vigilando per aver ingenerato nel pubblico una ingiustificata e mal risposta fiducia: responsabilità che potrebbe essere mutatis mutandis avvicinata a quella che hanno, seppur in un contesto diverso e in applicazione di norme di legge particolari, le società di revisione.

I codici di condotta in ultima analisi, specie a seguito dell'ufficiale riconoscimento che hanno ricevuto da parte del legislatore, se sfruttati in tutte le loro potenzialità ben possono diventare uno dei motori per il rilancio delle transazioni telematiche che sembrano essere andate incontro ad un prolungato periodo di stagnazione.

Note:

* Senior Associate dello Studio Legale Sutti ( www.sutti.com  )

[1]"Il D.Lgs 70/2003 di attuazione della direttiva 2000731/CE sul commercio elettronico", in Contratti, n. 6/2003, p. 607 e Salvatore Sica, "Recepita la direttiva sul commercio elettronico", in Corriere Giuridico, n. 9/2003, p. 1247.

[2]Massimiliano Spagnuolo, "La semplificazione dell'azione amministrativa. La delegificazione", documento consultabile per intero sul sito web www.insa-italia.com.

[3]Adriano Cavanna, "Storia del diritto moderno in Europa", Giuffrè editore, 1982, Milano, p. 4 e ss.

[4]Francesco Santoro, "Il Commercio Elettronico", Edizioni FAG, 2000, Milano, pp. 31 e ss. e  Stefano Nespor, "Internet e la legge", Editore Ulrico Hoepli, 1999, Milano, pp. 217 e ss.

[5]Si pensi agli esempi costituiti dalla certificazione Codacons, Federcomin o Webtrader.

[6]Si pensi sul tema in questione agli effetti del D.Lgs n. 58/1998, come esposti da Diego Corrado in "Corporate Governace: tendenze internazionali e realtà in Italia", documento consultabile per intero sul sito web www.imprenditoriliberal.it.

[7]Lorenzo Facchinotti, "E-commerce, gli errori scoraggiano", in Italia Oggi, 30 Agosto 2003.

[8]Fatte salve ovviamente le diverse disposizioni di legge che governano particolari materie, come accade per esempio per la disciplina sanzionatoria in materia di violazione della privacy di cui agli artt. 34 e ss. della Legge n. 675/1996.

[9]Facchinotti, ibidem.

[10] Si pensi al marchio "FIDUCIA FID@ FEDERCOMIN" registrato dalla associazione Federcomin.

[11] Si pensi al marchio"CODACONS TEST AFFIDABILITA'" registrato dalla associazione Codacons.

[12] Marchetti-Ubertazzi, "Commentario breve al diritto della concorrenza", CEDAM, Milano, 1997, pp. 976 e ss.

[13] Si pensi ai contratti conclusi dalle associzioni sindacali che vengono ricondotti allo schema del contratto a favore di terzi da parte della giurisprudenza, Cass. n. 7723/86.