inserito in Diritto&Diritti nel febbraio 2002

Riflessioni in tema di punibilita’ dei clienti delle prostitute.

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La scelta di addivenire alla punibilità del cliente di chi si prostituisca, come fattore ritenuto determinante la riduzione del più complessivo fenomeno, sì da determinare una coercitiva diminuzione della domanda, è argomento che non da oggi viene prospettato[1].

Esso trova fondamenti di natura, soprattutto, etica, che venendo recepiti e sviluppati in ambito strettamente giuridico, mirano a colpire il disvalore morale insito nella condotta del soggetto, che si ritiene, in qualche modo, favorire ulteriormente il perdurare del fenomeno.

L’ipotizzazione della sussistenza di una responsabilità penale in capo al “cliente”, quindi, è tentativo di allargare lo spettro ed il campo di punibilità delle condotte connesse alla prostituzione.

Pare di poter cogliere, comunque, nella tesi che si commenta, profili di differenziazione, sul piano sanzionatorio, rispetto a quei delitti oggettivamente propri previsti dalla L. 1958/75 e che attingono usualmente precise categorie di soggetti.

Come ho già avuto occasione di affermare ritengo che, allo stato, ferma una totale rivisitazione del complesso legislativo vigente in materia, non sia affatto possibile percorrere alcuna strada seria che possa portare all’incriminazione e, tanto meno, alla condanna di persona che fruisca della prestazione di una persona che si prostituisca, intendendo, con la dizione di “cliente”, il soggetto che “classicamente”, contro dazione di danaro, riceve una prestazione sessuale.

E’ di tutta evidenza che, rispetto a siffatta ipotesi, derogano palesemente tutti quei comportamenti che possano esorbitare dal sinallagmatico contratto, che, per la legge vigente, non è di per sé solo illecito.

Intendo fare ovvio riferimento a tutte quelle condotte di violenza e coercizione, che, se commesse da persona diversa dal protettore della prostituta, integrano reati contro la persona, contro il patrimonio, e, per tale motivo risultano già in nuce soggetti alla pretesa punitiva del nostro ordinamento.

Su quest’abbrivio, devo confessare che l’ipotesi di applicare al caso che ci occupa il disposto dell’art. 609 bis c.p., così come prospettata, nella sua radicalità, non appare convincente.

La norma, in oggetto, infatti, muove da una premessa del tutto diversa da quella ricompresa nella L. 75 del 1958.

 

IL CONCETTO DI INDUZIONE

 

Va, infatti, sottolineato come il concetto di “induzione”, cui entrambe le disposizioni di legge fanno riferimento, muta sostanzialmente valore, significato e portata nei due casi.

L’induzione di cui all’art. 609 bis c.p., in effetti, si ricollega, come atteggiamento finalistico della condotta illecita, a tutta una serie di altre condizioni, che appaiono necessarie per il perfezionamento formale e materiale del reato.

Siffatta condotta, infatti, non è punibile di per sé sola, non assumendo alcun disvalore processualmente apprezzabile.

Tranquillizzante conferma sul punto deriva dal fatto che, non a caso, chi propugna la tesi della perseguibilità penale del cliente, non dimentica affatto la necessaria presenza di due elementi decisivi ed imprescindibili “la condizione di inferiorità fisica o psichica della vittima” , di cui l’agente deve avere piena e completa contezza, nonché “la volontà di abusare di tale condizione”.

Se, pertanto, è del tutto persuasiva l’affermazione che indurre sta a indicare “la condotta di persuadere qualcuno a compiere un’azione ben specificata”, è del pari, assolutamente pacifico che sulla base di questo unico presupposto, l’allargamento della responsabilità a soggetti diversi da quelli parassitari, già individuati con la legge speciale, non pare per nulla possibile.

Merita, però, un approfondimento il tema riguardante la verifica della condotta del cd. cliente, per verificare se in essa possano rinvenirsi i tratti salienti e necessitati dell’induzione alla prostituzione.

Sotto il profilo ermeneutico si può osservare, preliminarmente, un’ulteriore elemento di differenza fra i due tipi di induzione in oggetto, avendo riguardo ai soggetti che vi avrebbero partecipazione fattiva.

L’induzione all’atto sessuale, in senso stretto, prevista dal codice di diritto sostanziale, è negozio illecito avente a protagoniste due parti, l’agente proponente e il soggetto cui la proposta illecita è diretta.

Il vincolo che si dovesse venire a creare è sinallagmatico, e non coinvolge necessariamente terze persone, anche se non si può escludere uno sorta di “contratto a favore di terzi”.

Può, infatti, avvenire che l’induttore sia la medesima persona interessata a fruire delle prestazioni sessuali di controparte, come, talvolta, il “beneficiario” possa essere un terzo consapevole od ignaro, della proposta negoziata tra le altre parti.

Il negozio illecito ha, pertanto, carattere essenzialmente bilaterale, e, seguendo lo schema civilistica, solo in via ipotetica ed eventuale potrebbe assumere foggia di negozio a favore di terzo.

Non è, affatto, necessario che esista in origine un vincolo od un legame lecito od illecito tra chi riceva la proposta, rispetto all’agente.

E’, comunque, evidente che l’oggetto dell’illecito patto sia una prestazione (od una serie di prestazioni) individuata e determinata in maniera specifica e che il destinatario di essa sia, del pari, perfettamente indicato.

L’opera di convincimento, valutata in senso stretto, tende a creare ex novo una situazione che precedentemente era inesistente.

Si pensi ad esempio all’offerta di danaro, od altra utilità, al fine sessuale, nei confronti di una persona assunta con altre mansioni.

La S.C., infatti, ai sensi dell’art. 609 bis c.p. afferma che “L'induzione si realizza quando con  un'opera  di  persuasione,  spesso  sottile  o subdola, l'agente spinge o convince il partner a sottostare ad atti, che diversamente non  avrebbe  compiuto”[2].

E’, pertanto, necessaria, in capo al soggetto attivo, una condotta che muti in modo radicale, rigorosamente all’interno del rapporto tra i due protagonisti, la situazione che, originariamente vigeva, determinando la condizione di illiceità punibile del rapporto sessuale, unitamente agli artifizi o abusi, espressamente previsti dalla norma.

Diversamente da questa prospettazione “Il  reato  di  induzione  alla  prostituzione non postula la presenza della persona fisica con la quale si debba avere un rapporto carnale, poiché  l'induzione  non è finalizzata né ad un determinato rapporto, né  ad  un singolo rapporto, bensì allo spiegamento di un'attività da svolgersi con quel  minimo  di  continuità   che  ne  consenta l'apprezzamento sul piano giuridico”[3].

Ciò sta a significare che l’attività di persuasione, in questo caso, avviene, in primo luogo, da parte di soggetto, che, diversamente dall’ipotesi precedente, persegue il fine di instaurare una continuativa attività illecita, rivolta ad un insieme indefinito di soggetti, e caratterizzato da una serie indeterminata di prestazioni.

In questo caso, il vantaggio intrinseco dell’induttore è finalizzato ad un commercio turpe che non si esaurisce nel singolo atto sessuale o nel rapporto con il singolo soggetto ben individuato, ma è destinato a proseguire forzosamente nel tempo[4].

La tipologia dei rapporti, nella fattispecie, deve indurre a ritenere che si sia in presenza di un negozio bilaterale nel quale la prestazione è necessariamente a favore di un terzo fruitore.

Questi, potrebbe, comunque, come si avrà modo di esaminare in prosieguo, essere del tutto ignaro del rapporto originario, non essendo tenuto a sapere se la persona che si prostituisce sia soggetta ad un lenone, od operi in piena autonomia.

E’, pertanto, evidente la differenza di fondo tra le due situazione descritte con il medesimo termine lessicale.

Addirittura, come si legge in massima, nell’induzione di cui alla L. 75/1958, la condotta tipicizzata dalla norma non può essere attribuibile al soggetto “utente”, né fa riferimento ad un singolo rapporto sessuale, quanto, piuttosto, attiene, all’attività di chi si prostituisca intesa nella sua globalità.

Se, pertanto, non è revocabile in dubbio che con il termine in esame ci si riferisca ad una “attività  diretta  a vincere  le  resistenze  di ordine morale che trattengono il soggetto passivo  dal  "prostituirsi"  (ovvero  a rafforzare la risoluzione di prostituirsi  non  ancora  consolidata,  o  a  far  continuare  detta attività  a  chi  avrebbe  voluto  cessarla),  e  cioè dal vendere il proprio   corpo,   ma   non  dall'avere  rapporti  sessuali,  seppure indiscriminati e con un numero indeterminato di persone”[5], appare del tutto convincente, già di per sé sola, l’ipotesi che vuole estraneo a tale iter il cliente, il quale si trova ad essere mero fruitore finale del risultato volitivo e comportamentale delle eventuali pressioni esercitate sulla persona che si prostituisca.

Il cd. cliente della persona che si prostituisce, perciò, non si inserisce affatto nella sequela eziologica ideativa ed attuativa prodromica a quei contegni ed a quelle decisioni, che portano all’esercizio dell’attività in oggetto.

Né, pare che si debba dimenticare la premessa svolta ab inizio, laddove tra gli elementi discretivi le due fattispecie, si evidenziava la necessità che l’induzione ex art. 609 bis c.p., venga accompagnata senza dubbio dagli altri elementi già citati, non assumendo rilevanze penale, in loro assenza.

Valutando, quindi, il concetto di induzione, in sé e per solo, cioè in assenza di altre condizioni che si dovranno esaminare in seguito, la conclusione è obbligata.

Non si può, infatti, ritenere che il cliente assuma veste e funzione di soggetto che, pur fornendo la dazione di una qualche utilità o rilievo economico[6], risulti autore di una condotta penalmente rilevante sul piano della determinazione od istigazione di chi si trovi a prostituirsi.

Né si può ritenere di poter liquidare il tema della responsabilità sostenendo che “..La prostituta, pertanto, è indotta a compiere l’atto sessuale in virtù della dazione o dell’elargizione che ne seguirà”, al fine di fare discendere da tale osservazione l’applicabilità dell’art. 609 bis c.p. al caso di specie.

È così opinando si dimentica, invece, come sia usualmente la prostituta ad effettuare la proposta, che subisce l’adesione del cliente; pertanto, la modalità di formazione dell’ulteriore contractus è decisiva, posto che essa dimostra come la volontà di chi si prostituisca è già giuridicamente formata, anche se possa essere viziata in origine.

Si potrà, pertanto, discettare, ma questo attiene ad altri aspetti di responsabilità, che esulano dal presente, sul modo originario di formazione della volontà predetta; certo è che il cliente rimane estraneo in toto a tale percorso, che è precedente.

 

2) LA PROVA DELLA CONSAPEVOLEZZA DELLA CONDIZIONE DI INFERIORITA’ DEL SOGGETTO PASSIVO.

 

Il requisito della manifesta condizione di inferiorità psichica o fisica, in capo al soggetto passivo, e quello della consapevolezza di ciò da parte dell’agente, impongono alcune ulteriori riflessioni, che involgono anche l’aspetto probatorio.

In primo luogo, ritengo che la previsione di cui all’art. 609 bis c.p. possa avere una sua corretta applicazione solo, in presenza di un evidentissimo stato di assenza o riduzione della capacità di autodeterminarsi del soggetto passivo.

Con tale affermazione, intendo che la portata del dettato normativo trascende l’aspetto specifico del fenomeno della prostituzione, per assumere una valenza di tutela generale della persona.

Ferma questa premessa, ritengo che il tenore letterale della norma codicistica non possa essere stravolto, od applicato in forma analogica.

Se taluno abusi di una persona, facendo leva ed avvantaggiandosi, consapevolmente di artifizi da altri posti in essere, quali il fare assumere esclusivamente allo scopo sostanza stupefacente o alcolici, è palese la responsabilità dell’agente, che potrà essere di natura individuale o concorsuale.

Non così pacifica appare la situazione, laddove si voglia imporre a carico dell’agente, motivi che, invece, possano essere strettamente interni alla sfera privata della persona soggetto dell’atto sessuale, quali la necessità di danaro, per qualsivoglia ragione, o la sottomissione a violenze da altri compiute, che non necessariamente possono essere esternati o recepiti da terzi.

L’adesione tout-court a tale concetto, trasmoda in un mero giudizio etico, sul quale è indubbio l’accordo, ma mai in un elemento di rilevanza penale.

Il problema da affrontare, attiene, esclusivamente alla prova del dolo del cliente.

Si tratta di una questione estremamente delicata, che non può essere definita con piglio giustizialista.

Per addivenire al convincimento della consapevolezza in capo al cliente, si deve ravvisare “il  dolo  generico, caratterizzato dalla volontà dell'atto sessuale, con  la  coscienza  di  tutti gli elementi essenziali del fatto”[7].

Ciò posto, molte delle ipotesi formulate appaiono, infatti, caratterizzate da indeterminatezza e da una oggettività di mera apparenza, siccome connotate da equivocità.

La presenza di lividi e ferite sulla persona possono essere genericamente indicative, ma non concludentemente decisive di uno stato di soggezione.

Del pari valga la medesima osservazione per  manifestazioni emotive di varia natura e manifestazione.

L’assenza di integrazione etnica, al contempo, è situazione estremamente difficile da cogliere, in un contesto quale è quello del frettoloso rapporto mercenario, di qualche minuto, che si instaura fra prostituta e cliente.

Il ricorrere, nelle fattispecie indicate, ad accertamenti probatori periziali appare, nel contesto del patto cliente-prostituta, francamente impossibile, apparendo tale incombente già di difficile attuazione, laddove venga instaurato un procedimento da parte della Magistratura competente, attese le ovvie e conosciute difficoltà che spesso insorgono.

La prostituta può essere clandestina, già colpita da provvedimenti amministrativi di allontanamento dal territorio nazionale, pregiudicata; sicchè una verifica preliminare di questa portata è inattuabile nel caso che ci occupa.

Per quanto riguarda quelle percezioni para-oggettive, quali la presenza sul luogo di terzi, in atteggiamento suscitante sospetti di varia natura, pare estremamente difficile poter svolgere una frettolosa indagine che permette di ricollegare i medesimi alla prostituta.

L’esperienza professionale mi insegna, che il lenone, soprattutto con l’avvento di organizzazioni straniere, ben raramente si trova presente sulla strada, ove opera la persona che si prostituisce.

Le forme di controllo attivo vengono svolte, sempre più in modo accorto, attraverso l’uso di telefonici cellulari, con cadenze temporali precise, in forza di uno stato di assoggettamento che si concreta in precedenza ed altrove, proprio per eludere ogni forma di intervento delle forze dell’ordine.

E’ ormai scomparsa la figura del protettore che accompagna al lavoro la prostituta e la riprende alla fine della nottata, proprio, in quanto la forza criminale di determinati soggetti provoca una particolare situazione di sottoposizione della persona, la quale difficilmente deroga agli ordini ricevuti.

E’, pertanto, estremamente arduo, se non impossibile, ascrivere obblighi ed oneri, in relazione ai dati sin qui valutati, la cui violazione  abbia rilevanza giuridica penale, in capo al cliente.

 

3) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.

 

Deriva, pertanto, da queste considerazioni il convincimento che una politica giudiziaria che miri ad abbattere la richiesta di prestazioni sessuali, nel circuito della prostituzione, non può combattere efficacemente il fenomeno.

Non si possono, infatti, utilizzare abnormemente strumenti giuridici, quale è l’art. 609 bis c.p., che hanno una ratio molto precisa, in quanto così facendo, li si svuoterebbe di significato.

Non si possono colmare carenze legislative, imponendo alla Magistratura od alle Forze dell’ordine di inventare rimedi, che spesso potrebbero essere peggiori della malattia.

Saremmo, così, in presenza di palliativi, posto che si deve colpire chi organizza e gestisce l’attività in parola.

La prostituzione non può, quindi, essere debellata sic et simpliciter, con facilità, in quanto costume vecchio quanto il mondo ed “industria che non conosce crisi”.

Non credo sia compito dell’operatore del diritto, invadere le attribuzioni del legislatore, però, a sommesso mio parere si deve colpire l’offerta, tenendo conto, in primo luogo, della circostanza che, allo stato, il mercato della prostituzione è gestito in altissima percentuale da cittadini extracomunitari, clandestini ed irregolari.

Cominciamo, pertanto, a regolamentare organicamente la presenza degli stessi, colpendo coloro che si trovano in uno stato di palese volontaria e preordinata illiceità e irregolarità.

Si deve, inoltre, favorire quell’attività di sradicamento dalle strade di tante giovani, fornendo alle stesse strumenti seri e non di comodo per un inserimento tangibile.

Non basta un permesso di soggiorno temporaneo a fini di giustizia, in caso di denuncia. Questo strumento, infatti, troppe volte si è rivelato un mezzo improprio per ottenere un salvacondotto, a spese di soggetti, spesso, estranei all’ambiente.

Intendo dire che è avvenuto che taluni, senza scrupoli, per ottenere la possibilità di rimanere in Italia, non abbia esitato a denunziare terzi, diversi dai veri responsabili, traendo in inganno gli inquirenti, e continuando, magari, a svolgere in proprio quell’attività  prima svolta per altri.

Vanno incoraggiate le attività di volontariato in essere, e credo anche ripensata ed abolita la legge Merlin.

Avv. Carlo Alberto Zaina

 


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[1] V. ad esempio Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia,
Richiesta di convalida di sequestro e di decreto di sequestro preventivo 9 agosto 2000

 

[2] Cass. pen., sez. III, 3 dicembre 1996, n. 4114, Pennese, Riv. Pen., 1997, 383, Foro It., 1997, II, 692

 

[3] Cass. pen., 27 novembre 1987, Curvà, Riv. Pen., 1988, 610

[4] Per  induzione  alla  prostituzione si deve intendere quella condotta svolta  nei  confronti  di  una persona e coscientemente finalizzata, mediante  opera  di determinazione, persuasione o rafforzamento della volontà,  a  far  sorgere  in  lei l'idea di prostituirsi, ma anche a prospettare   ulteriori   motivi   o   stimoli   per  dedicarsi  alla prostituzione,   o   convincerla  a  persistervi  o  a  ricominciare. L'attività  di induzione deve consistere in ogni caso in una condotta attiva,  idonea e concreta, e deve avere un'efficacia causale diretta anche  a  far  cessare  le resistenze che trattengono una persona dal prostituirsi.   Si  ha  induzione  alla  prostituzione,  intesa  come abitualità   di  prestazioni  carnali  nei  confronti  di  un  numero indeterminato  di  persone, anche quando la vita di prostituzione del soggetto  passivo  sia  già  iniziata  ma  non  sia ancora protratta.

Trib. Milano, 18 marzo 1999, Foro Ambrosiano, 1999, 146,

 

[5] Cass. pen., sez. III, 20 maggio 1998, n. 7608, Mimou, Riv. Pen., 1998, 876

[6] sulla genericità del concetto di vantaggio economico V. Cass. pen., sez. III, 24 novembre 1999, n. 98.De Stasio, Cass. Pen., 2001, 289; Cass. pen., sez. III, 11 luglio 1996, n. 9065, Marrone e altro, Cass. Pen., 1998, 648

[7] App. Firenze, 13 aprile 2000,O., Foro toscano, 2000, 287, n. FOTI