inserito in Diritto&Diritti nel gennaio 2005

L’evanescente confine tra satira e diffamazione

A cura della dottoressa Giulia Milizia*

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Di recente i reati di diffamazione, soprattutto nella sua forma aggravata della diffamazione a mezzo stampa, sono stati oggetto di molte e contrastanti discussioni sia in dottrina che in giurisprudenza. In questa sede, però, non m’intendo occupare della controversa riforma del reato a mezzo stampa, ma di un altro aspetto più curioso e meno conosciuto.

            Mentre si discute sempre della tutela del diritto di cronaca (57-58bis cp), non si disserta a sufficienza della libertà artistica e di espressione ex art. 21, 33, 111 Cost., tanto da farla sembrare, a mio modesto parere, un diritto di nicchia.

            Anni fa suscitò grande scalpore la causa intentata da un politico contro un noto vignettista, reo, a suo dire, di averlo diffamato con una serie di vignette, evidenzianti alcuni suoi presunti vizi e difetti legati alla sua attività ed alle sue opinioni politiche. La stampa ed i vari giornali satirici (v. “Striscia la notizia”) dedicarono ampi servizi al caso, perché era stata lesa la libertà d’espressione dell’artista, che, poi, fu assolto poiché le vignette erano espressione della satira politica, che, perciò non è sanzionabile ex art.51 cp.

            Questo è stato uno dei primi casi recenti in cui la giurisprudenza si è trovata ad affrontare la sottile linea di demarcazione tra satira, umorismo e diffamazione.

            In genere umorismo e satira possono essere usati anche come sinonimi, poiché la satira indica un componimento poetico composito (v. Devoto) in cui si fa dello humor su alcuni aspetti e difetti umani, della società, della politica etc., cioè si tratta di un’opera che “..mira all’ironia sino al sarcasmo e comunque all’irrisione di chi esercita un pubblico potere, in tal misura esasperando la polemica intorno alle opinioni ed ai comportamenti..”, esercitando così il c.d. diritto di satira o libertà di espressione artistica “..in quanto opera una rappresentazione intuitivamente simbolica che, in particolare una vignetta, propone quale metafora caricaturale..” (v.Cass.Pen. sez.V n.13563/98, caso Vauro).  

            Come si diceva mentre per l’individuazione del reato di diffamazione a mezzo stampa è facile individuare l’area di azione della scriminante sopra descritta e quella di perfezionamento del reato, in quanto la legge prevede dei parametri rigorosi e tassativi, è molto difficile, invece, individuare quando un poemetto, una fotografia od un’altra qualsiasi forma di arte figurativa possa rientrare nel campo della satira o in quello penalmente sanzionato, poiché non sono state individuate delle regole inequivocabili e precise.

            Giova fare un piccolo excursus storico sulla vicenda. La satira e le raffigurazioni allegoriche sono state utilizzate sin dall’antichità per ironizzare su questo o quell’aspetto della vita, intesa nella sua accezione più ampia, o della politica (v. ex multis “L’asino d’oro” di Apuleio, il “Satyrikon” di Petronio, le pitture delle case di Pompei etc.).

            È bene ricordare che anche gli umoristi antichi non avevano sorte facile come, talvolta i loro successori moderni, in quanto a causa delle loro opere ironiche ebbero non pochi guai.

            Per quanto riguarda le opere scritte celebri sono i guai subiti dal Boccaccio, dal Macchiavelli e dal Casanova, solo per fare qualche celebre nome, quest’ultimo perseguitato anche dall’inquisizione veneziana. Nel redigere la mia tesi di laurea (Giulia Milizia, Processi dell’inquisizione senese nel XVIII secolo, inedita) poi, mi sono imbattuta nel personaggio storico, che ispirò il protagonista di un celebre film di Alberto Sordi “Il Marchese del Grillo”, nobile di origine genovese che subì alcuni processi nel 1727 circa, per altro, per aver scritto e distribuito alcuni libelli anticlericali. Bisogna ricordare che tra i nobili, gli intellettuali, addirittura alcuni sacerdoti, era di moda scrivere piccoli poemi satirici sul clero ed il Papa; gli autori venivano processati dalle inquisizioni quali eretici, bestemmiatori e detentori di scritti sacrileghi.

            A Siena la diffusione di tali scritti, grazie anche alla presenza nel territorio di truppe spagnole e francesi, nonché per “l’importazione forzata” di coloni tedeschi per rinvigorire l’agricoltura toscana, operata sotto il regno di Leopoldo dei Medici, era un reato discretamente diffuso, così da creare una sottocategoria di reati contro il clero (allora molto corrotto). Tali reati però non erano mai puniti con la morte ed a Siena la pena era alquanto blanda e per lo più si riduceva all’abiura forzata, nonché, raramente, alla messa alla gogna, cioè nel costringere il reo a stare nella pubblica piazza nei dì di festa con le braccia bloccate in un giogo con una candela in testa od in mano ed un cartello indicante il reato commesso.

            Tra i pittori si ricordino le allegorie del Botticelli, le caricature del Brueghel, del Durer o le più celebri allegorie del Goya che, nel ciclo degli “Alienati” ironizza sui vizi e virtù del suo tempo e della corte spagnola.

            Anche Michelangelo e Caravaggio, per citare ex multis alcuni celebri casi, ebbero a che fare con la censura del tempo. Il primo fu censurato perché le sue opere nella Cappella Sistina, raffiguranti nudi (poi in gran parte celati da artisti successivi, detti in senso spregiativo e denigratorio mutandoni) furono censurate ed il pittore fu costretto a velarle, senza però togliersi una piccola soddisfazione, vendicativa, raffigurare il Card. Soderini, committente dell’opera, nudo e divorato da un demone nell’inferno. Caravaggio, poi, subì un processo per diffamazione per aver scritto poemetti licenziosi sul suo biografo Giovanni Baglione, apostrofato con termini tutt’altro che edificanti (v. Sì alla diffamazione a mezzo d’opera d’arte, “Muse al vetriolo” equiparate alla stampa”, condannato il pittore che sbeffeggiò i critici ritraendoli di Vincenzo Pezzella in Diritto e Giustizia n.44 del 4/12/04, ed. Giuffrè, pagg.46ss).

            Da questo rapido e necessario excursus storico si può facilmente comprendere come, pur non essendoci più l’inquisizione, le muse siano state tutt’altro che ben auguranti e foriere di fortune per alcuni artisti anche in tempi moderni.

Infatti non esistendo una disciplina codificata in materia ci si chiedeva quale normativa occorresse applicare se quella della diffamazione tout court o quella della forma aggravata del mezzo stampa.

Dopo una serie di sentenze, che prendevano atto che la satira è diversa dalla stampa, quindi non le possono essere applicati gli stessi parametri, in primis quello della verità, si giunse ad una prima sentenza storica: la Cass.Pen. sez.V n.2118/00.

In essa si affermava che sì alla satira non si può applicare il metro della verità, ma è soggetta al limite della continenza”..poiché rappresenta, comunque, una forma di critica caratterizzata da particolari mezzi espressivi.Ne consegue che come ogni critica non sfugge al limite della correttezza..”onde per cui non si potrà invocare la scriminante ex art.51cp qualora si attribuiscano “..condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, o la deformazione dell’immagine..” susciti disprezzo o dileggio (Cass.pen. Sez.V n.2128/00), “..anche se si adoperino vignette o caricature o si voglia fare della satira o dell’ironia” (Cass.pen. Sez.V. n.2885/92 e Cass.civ. Sez.III n14485/00).

Infatti la giurisprudenza costante prevede, come trait de union, per tutti i tipi di diffamazione l’obbligo di rispettare il diritto all’identità personale, al rispetto del decoro, del pudore e dell’onore del soggetto, tenendo conto delle circostanze di tempo, luogo e modalità dell’offesa (v. ex multis Cass.pen. Sez.V nn 5757/81, 5258/85, 8282/85, 5559/92,849/93 etc.)

Perché il reato si perfezioni è sufficiente che le caratteristiche del soggetto sottoposto a satira siano anche semplicemente tratteggiate, abbiano un contenuto allusivo così che siano comprensive anche dall’uomo medio (v. Cas. Pen. Sez.V nn10372/99 e 9839/98), essendo sufficiente individuare anche in via induttiva la persona bersaglio di un’ironia pungente, sia essa concretizzata in una fotografia od in una vignetta od in un quadro e similia (v. Cass.pen. Sez.V 8220/92).

Inoltre in base ad un orientamento recente e costante della dottrina e della giurisprudenza per lesione del pudore, dell’onore etc. di una data persona è da valutarsi non in base alle credenze della società, dell’epoca in cui l’offeso vive, ma in base a ciò che questo ultimo ritiene e percepisce come lesivo della sua personalità, intesa nella sua accezione più lata.

Quindi non si può considerare diffamazione una vignetta sul politico x che ironizzi su un suo atteggiamento, sul quale lo stesso ironizzi; invece è da considerare lesiva dell’onore di una donna, notoriamente casta, ritratta in un momento di stanchezza in una posa ambiguamente lasciva oppure nel descrivere, con toni sferzanti, come obeso un soggetto che in passato ha sofferto di disturbi alimentari oppure suscettibile sul punto in questione. Il tutto verrà lasciato alla libertà d’interpretazione e/o giudizio dell’autorità adita, essendo richiesto un dolo generico per il perfezionamento del reato de quo.

Perciò, letta in quest’ottica, la recente sentenza della Cass. Pen. n.42375/04, che condannava per diffamazione aggravata dal mezzo stampa il pittore e critico Gianni Pisani, non è poi tanto rivoluzionaria. Ciò che è rivoluzionario è che sia stato equiparata la diffamazione a mezzo quadro a quella a mezzo stampa.

Bisogna, per correttezza, ricordare che il Pisani, ex direttore dell’Accademia delle Belle arti di Napoli aveva realizzato, dopo il suo licenziamento, una mostra con una serie di quadri in cui ironizzava pesantemente attribuendo vizi e difetti ad alcuni suoi ex colleghi, tra cui Maria Teresa Penta ( “La vedova allegra”) ed Armando De Stefano (“Il Papa nero più stronzetto nero”), esplicando tali caricature, la cui satira poteva essere ravvisabile solo dagli interessati e dai loro colleghi di lavoro, in un libretto illustrativo delle singole opere. Di conseguenza l’ampia portata, raggiunta dall’offesa, tramite la stampa della suddetta brochure, seppur non si facesse il nome di nessuno degli interessati, nonché l’ampia somiglianza dei soggetti del quadro agli offesi, nonché altri elementi che rimandavano chiaramente ad attribuite abitudini più o meno edificanti dei diffamati, connotavano i suddetti quadri come diffamatori.

Penso che si sarebbe giunti ugualmente a questa conclusione, per i motivi sinora esplicati, in quanto il quadro, come forma di astrazione artistica, suscettibile di raggiungere una moltitudine di persone, trasformando in caricature lati, presumibilmente tutt’altro che edificanti dei soggetti ritratti, esponendoli al pubblico dileggio, possa essere equiparato ad un poemetto satirico od ad un giornale.

Quindi anche i reati di diffamazione a mezzo di opera artistica, figurativa o meno, trovano una loro normativa regolante grazie alla sussunzione, in via analogica, sotto la disciplina dei reati a mezzo stampa ex artt.595, comma 3 e 57-58 bis cp.

In ogni caso spetterà al giudice di volta in volta valutare se si tratti di diffamazione generica od aggravata, anche se si è dimostrato che in definitiva il confine tra satira e diffamazione non è poi così evanescente come in passato, ma, bensì, delineato con estrema precisione. 

Dott.ssa Giulia Milizia