inserito in Diritto&Diritti nel novembre 2001

Il reato di terrorismo internazionale come introdotto dal 
Decreto-Legge 18 ottobre 2001: alla ricerca di una nozione possibile.

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di Luca Bauccio Avvocato in Milano

La sentenza del GUP di Bologna  ha ad oggetto un procedimento contro cittadini extracomunitari accusati di cospirare ai danni di paesi stranieri (in particolare l’Algeria), attraverso attività quali la propaganda religiosa, la falsificazione di documenti e la progettazione di attentati. Per tali fatti la pubblica accusa aveva ritenuto di configurare l’ipotesi di reato di cui all’art. 270 bis c.p. (reato di associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico) sulla base del fatto che l’azione eversiva o terroristica, tesa contro un paese straniero, sarebbe produttiva di una lesione del bene giuridico “ordine democratico” italiano. Ciò in quanto sarebbe pur sempre interesse dello Stato tutelare i propri interessi all’estero, salvaguardare i rapporti politici e commerciali internazionali, ripudiare la guerra e le altre forme di lotta politica violenta, ancorché rivolte contro paesi stranieri, conformemente al dettato dei primi undici articoli della Costituzione.

Per conseguenza, l’intervento repressivo dello Stato è stato giustificato in quanto diretto contro fatti che, se tollerati, avrebbero trasformato il nostro paese “in un’oasi di impunità per le più svariate e pericolose organizzazioni islamiche” (ma il riferimento è chiaramente generale).

Nella sentenza in commento il GUP di Bologna, collocandosi nel solco unanime tracciato dalla Corte di Cassazione, rifiuta tale interpretazione facendo leva sul principio di tassatività e determinatezza della norma: l’art. 270 bis c.p. ha ad oggetto quale bene giuridico protetto l’ordine democratico e pertanto esulano dalla repressione penale quei comportamenti rivolti contro paesi stranieri in quanto improduttivi di una lesione dell’ordinamento costituzionale italiano.

Allo stesso modo la Corte di Cassazione, (sez. VI, 17 aprile 1996 n. 973, Ferdjani Mouland e altri, in Cass. Pen. 1997, 51; sez. VI 30 gennaio 1996, Bendebka, in Giust. Pen. 1997, II, 158; sez. VI, 1 giugno 1999, Abdaoui Youssef ed altri, in Dir. Pen. e Proc. n. 4/2000) ha avuto modo di sottolineare che, ai sensi dell’art. 270 bis, l’azione deve avere di mira in modo diretto ed immediato l’ordine democratico italiano, non essendo lecito introdurre forme mediate ed indirette di lesioni coincidenti con gli eventuali effetti, politici prima di tutto, determinate nel nostro ordinamento da azioni lesive di altri ordinamenti.

Per vero non v’è chi non veda come la soluzione ermeneutica “estensiva” dell’art. 270 bis c.p. anche a copertura di fenomeni eversivi e di terrorismo a base italiana contro ordinamenti stranieri offenda il principio di determinatezza, instaurando una responsabilità penale come mero effetto politico sul nostro ordinamento dell’azione eversiva e terroristica contro un paese straniero. In definitiva, il giudizio circa l’avveramento dei requisiti materiali dell’azione dipenderà di volta in volta da imponderabili coordinate politiche di natura contingente, riflesso dei rapporti internazionali che lo Stato, in quel determinato momento, vive e che implica come premessa un giudizio prognostico privo di oggettività giuridica e di accessibilità cognitiva.

Sulla scia di tali critiche la recente sentenza del GUP di Bologna ha, altresì, sottolineato come la prospettazione, in termini di mera eventualità, di un pericolo per interessi italiani all’estero, non può ricadere nello spettro del penalmente vietato, posto che “la previsione di una specifica finalità nella condotta descritta nella fattispecie criminosa impone che l’azione sia esclusivamente rivolta a quella finalità, senza alcuna possibilità alternativa od eventuale, stante l’incompatibilità tra le categorie del dolo specifico e del dolo eventuale”.

Invero, il rilievo, poi, secondo cui le azioni eversive e/o terroristiche potrebbero sfociare in atti diretti contro beni ed interessi del nostro paese all’estero trova un’adeguata risposta nel rinvio alla normativa che punisce i singoli reati fine dell’associazione e, per quanto attiene alla personalità internazionale dello Stato, nel rinvio alle norme di cui  al Capo I, Titolo I del Libro II del codice penale.

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Le conclusioni giurisprudenziali sopra esaminate hanno portato il legislatore - spronato dall’onda emotiva e dalle preoccupazioni di ordine pubblico provocate dalle drammatiche vicende dell’11 settembre – a varare in via d’urgenza il decreto legge n. 374/2001 (“Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale”)  con l’intento, da un lato di colmare la lacuna normativa sopra esaminata e dall’altro di approntare metodi di indagine e di repressione più pervasivi.

In questa sede ci soffermeremo solamente sul primo aspetto, ovverosia sull’introduzione della fattispecie “terrorismo internazionale” e  sui problemi definitori che essa comporta.

Sotto questo specifico angolo visuale, gli articoli del Decreto legge n. 374/01 coinvolti sono l’art. 1 “Associazioni con finalità di terrorismo internazionale” e il 2 “Aggravante del terrorismo internazionale”.

L’art.1 nell’introdurre l’art.270 ter stabilisce che “Chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige, finanzia anche indirettamente associazioni che si propongono il compimento all’estero, o comunque ai danni di uno stato estero, di un’istituzione o di un organismo internazionale, di atti di violenza su persone o cose, con finalità di terrorismo, è punito con la reclusione da sette a quindici anni”.

L’art. 2 (“Aggravante del terrorismo internazionale”) stabilisce che “Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando riguarda uno Stato estero, una istituzione od organismo internazionale”.

Le due norme citate pongono una serie di problemi interpretativi di non facile soluzione, dai quali però dipende la compatibilità costituzionale della norma e la cogenza della norma stessa.

La nuova disciplina, anzitutto, pur coltivando l’ambizione di introdurre una fattispecie penale riguardante il terrorismo internazionale manca di dare una definizione di terrorismo internazionale. A ben vedere, infatti, il c. 1 dell’art. 1 del decreto citato sembra affidarsi ad una pura tautologia, laddove punisce “chiunque promuova …associazioni che si propongano…atti di violenza su persone o cose, con finalità di terrorismo…”. Orbene, pur ammettendo che – come è stato affermato ( Luca Pistorelli “Intercettazioni preventive ad ampio raggio ma inutilizzabili nel procedimento penale” su Guida al Diritto, n. 42/2001)  - il programma e le finalità “qualificano l’associazione e non già la condotta dell’autore dei delitti previsti dai primi due commi dell’art. 270 ter” rimane invariato il fatto che la norma non “descrive” il comportamento vietato, di tale che l’azione terroristica si risolve per la norma nell’azione violenta posta in essere con “finalità di terrorismo”. L’esame della vicenda giurisprudenziale legata all'interpretazione dell’art. 270 bis ha mostrato come la condotta descritta nella norma non poteva subire una lecita dilatazione ai fini di ricomprendervi anche le azioni di terrorismo internazionale, posto che il bene giuridico protetto è per l’art. 270 bis “l’ordine democratico” italiano ( e parimenti l’ “ordine costituzionale”).

Necessita pertanto il recupero di una nozione di “fine di terrorismo” internazionale che – per le ragioni sopra esposte – non può essere attinta dall’art. 270 bis, ma che dalla cui individuazione dipende la configurabilità stessa della fattispecie ex art. 270 ter.

A tal fine, di scarso aiuto si rivela la norma internazionale. La Convenzione europea per la repressione del terrorismo all’art. 1, infatti, si limita ad indicare i casi in cui il reato non verrà considerato “politico” ai fini estradizionali. Manca in tale elencazione una definizione di reato politico e, parimenti, di reato di terrorismo. A nostro avviso non l’individuazione di una casistica di azioni alle quali sarebbe ontologicamente estranea la natura di reato politico potrà comportare l’immediata individuazione della nozione di reato di terrorismo internazionale.

Nell’assenza di una norma – anche extrapenale - alla quale fare riferimento la norma penale risulta “vuota”, priva di determinatezza, una scatola pronta ad ospitare le più svariate tipologie di azioni violente a sfondo, in senso lato, politico. Rebus sic stantibus sembrano più che fondati i dubbi di legittimità costituzionale della norma in esame.

Delle insidie legate alla introduzione della fattispecie di terrorismo internazionale (art. 270 ter) sembra consapevole anche il decreto in commento laddove al c. 5 dell’art. 1 inserisce il reato di terrorismo internazionale tra quei delitti contro i quali, a sensi dell’art. 313 c.p.. non si può procedere senza l’autorizzazione del Ministero della Giustizia, e ciò al fine “di consentire – come si legge nella relazione al decreto legge 374/2001 -  una attenta valutazione politica dei fatti, riguardanti nei possibili e delicati riflessi sui rapporti internazionali”. La previsione dell’art. 1 c. 5, attesa l’assenza di una nozione del “fine di terrorismo”,  rischia di trasformarsi in una fattispecie magmatica, consentendo l’integrazione della fattispecie sulla base delle scelte e delle selezioni politiche dell’esecutivo. Il procedimento sarebbe chiaramente illegittimo: il fatto deve nascere come delitto in forza di una norma penale (ferma restando l’operatività dell’art. 313 c.p. in materia di procedibilità) e né il giudice né l’esecutivo potranno creare o modellare, con apprezzamenti discrezionali o politici una nozione di fine di terrorismo internazionale.

Concludendo, se per i reati di terrorismo e di eversione “interni” si ha come parametro e paradigma del bene protetto l’ordinamento democratico o il suo equivalente “ordinamento costituzionale” lo stesso non potrà dirsi nel caso di terrorismo internazionale, posto che l’integrità politica, economica e sociale di un paese straniero non rientra – anzitutto per il principio di sovranità – nei compiti punitivi dello stato.

C’è da augurarsi che il legislatore , in sede di conversione del decreto 347/2001, vorrà , anche mutuando dalle esperienze straniere, introdurre dei parametri in punto di materialità della fattispecie che siano in grado di selezionare i fatti penalmente rilevanti come terrorismo internazionale da azioni (dirette ed indirette) di diversa natura ed aventi ad oggetto beni giuridici estranei alla sfera di protezione del nostro ordinamento, ancorché connotate dall’elemento della violenza (sul punto, più dettagliatamente, infra).

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La disciplina inglese.

Non potendo in questa sede esaminare la disciplina in subjecta materia in tutti i paesi europei, soffermiamo la nostra attenzione sulla Gran Bretagna, paese nel quale recentemente è entrata in vigore la nuova legge (Terrorism Act 2000) sulla repressione del terrorismo.

Il Terrorism Act 2000 introduce, anzitutto, nella parte prima (“introductory”), una definizione di terrorismo assai ampia. Si definisce pertanto terrorismo “l’azione” violenta (“use”) o la minaccia (“threart”) diretti ad influenzare il Governo, intimidire la collettività, o parte di essa, o diretti a raggiungere un fine politico, religioso o ideologico. Sono considerate terrorismo, altresì, l’azione o la minaccia consistente in una “grave violenza” contro la persona o in un “grave danno” contro la proprietà privata”, ovvero l’azione che mette in pericolo la vita della persona o crea un grave pericolo per l’incolumità o sicurezza della collettività o parte di essa. Rientra nel novero di azione terroristica, altresì, l’azione “programmata per interferire in modo grave con un sistema elettronico”.

Quanto all’elemento territoriale, l’“atto di terrorismo” penalmente rilevante include anche quello proiettato al di fuori del Regno Unito. Dispone infatti il prg. 4 della prima sezione, parte prima, che il riferimento a persona e proprietà vada intesa “indipendentemente da dove siano situati”. La lettera c) della sezione 4 precisa ulteriormente che il “riferimento alla collettività include un riferimento alla collettività di uno stato diverso del Regno Unito” e la lettera d) stabilisce che per Governo s’intende “il Governo del Regno Unito, di una parte del Regno Unito o di uno stato diverso dal Regno Unito”.

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La disciplina in esame introduce alcune importanti novità: anzitutto conia una nozione di terrorismo che comprende la motivazione religiosa. Inoltre, sembrerebbe, ad una prima lettura, che la semplice adesione, (capace di integrare anche solo una minaccia), ad una determinata visione e ad un programma sociale, politico e religioso eversivo integri il reato di terrorismo. La norma segna, così, il superamento della nozione di atto terroristico come atto violento, sanguinario, eversivo in senso classico.  Conferma tale interpretazione quanto contenuto nella circolare esplicativa del Terrorism Act 2000 emanata dal Ministero dell’interno ove si legge a questo proposito: “La legge adotta una definizione più larga riconoscendo che il terrorismo può avere una motivazione ideologica, politica e religiosa e che può ricoprire azioni che possono non essere violente in se stesse ma che possono avere, in una società moderna, un impatto devastante”.

Fa da pendant la previsione, per vero già presente nelle precedenti formulazioni legislative (PTA ed EPA), di un elenco delle organizzazioni ritenute illecite e pertanto vietate nel Regno Unito. Elenco che potrà essere aggiornato dal Ministro dell’Interno secondo i parametri dettati dal Terrorism Act 2000 (è prevista la possibilità, sia per le persone fisiche che per le organizzazioni, di presentare istanza alla Segreteria di Stato, di autorizzazione e di presentare appello alla POAC – Proscibed Organization Appeal Commission – in caso di rigetto).

Altra significativa novità del Terrorism Act 2000 è costituita dall’inclusione nella nozione di bene giuridico protetto, oltre che delle istituzioni politiche e del Governo del Regno Unito, anche di “uno stato diverso dal Regno Unito”.

L’innovazione legislativa in parola è stata preceduta da una giurisprudenza per vero anticipatrice, seppur tra contrasti. Emblematico il caso “Secretary of State for the home departement vs Rehman del 25 maggio 2000”, nel quale la Court of Appeal ha annullato una decisione del SIAC (Special Immigration Appeals Commission). Tale ultima decisione aveva annullato un decreto di espulsione del Ministro dell’Interno di un cittadino pakistano sospettato di essere membro di una organizzazione terroristica islamica Markaz Dawa al Rishad. La decisione del SIAC si fondava sulla considerazione che il comportamento ritenuto pericoloso non fosse destinato a colpire il Governo britannico o i suoi cittadini, e, pertanto, non poteva essere considerato “pericoloso per la sicurezza nazionale” per il fatto di avere, eventualmente, obiettivi stranieri. La Court of Appeal, invece, nell’annullare la predetta decisione, ha ritenuto che “Il fatto che la condotta possa avere avuto conseguenze negative sui rapporti con un paese amico, non significa che le attività non possano avere conseguenze sulla sicurezza nazionale. La promozione del terrorismo contro un qualsiasi stato è in grado di rappresentare una minaccia per la nostra sicurezza nazionale. Il Governo è legittimamente autorizzato a considerare qualsiasi cosa mini la sua politica volta a proteggere questo paese dal terrorismo internazionale, in contrasto con gli interessi di sicurezza di questo paese”.

 

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Conclusioni

Le categorie giuridiche introdotte dal Terrorism Act 2000 e dal D.L. 374/2001, considerando vietata l’azione violenta o eversiva tout court, “ovunque nel mondo” e contro qualunque stato o istituzione, finiscono, a nostro avviso, per includere all’interno della nozione di bene giuridico protetto la integrità e la invulnerabilità di qualunque comunità umana e di qualunque stato.

Inoltre restano sul campo alcuni interrogativi che, con ogni probabilità condizioneranno l’applicazione delle due discipline, per quanto la norma inglese presenti, un maggiore sforzo “descrittivo” e definitorio.

L’azione è terroristica e perciò punibile anche quando l’eversione o il cosiddetto terrorismo siano diretti contro Stati dittatoriali, violenti o solo apparentemente ammantati di democraticità ? L’azione è vietata anche quando essa si cali in contesti di violenza etnica o di guerra civile? Anche quando pretenda di affermare con la forza e la violenza, talvolta unico mezzo concretamente opponibile, diritti fondamentali dai quali potrebbe dipendere la possibilità stessa di sopravvivenza di un popolo?

Indubbiamente rispetto a questi casi e simili, non vi è un punto di vista obiettivo, un giudizio storico definitivo, dispensatore di verità, ma solo dinamiche storico-politiche incompiute, contraddittorie, spesso ambigue. Fino ad oggi la cultura giuridica e politica delle democrazie occidentali, conscia di tali limiti, ha adottato un canone giuridico improntato al rifiuto di ingerenza e di collaborazione e su tale base, per vero, è stato costruito il divieto di collaborazione giudiziaria per reati politici (art. 10,26 Cost., art. 8 c.p.; recentemente anche i paesi arabi hanno recepito tale eccezione, art. 2 dell’Accordo per la lotta al terrorismo siglato a Il Cairo il 24.4.1998 dai 22 paesi della Lega Araba).

Rebus sic stantibus la preoccupazione di una compressione delle libertà individuali non pare ingiustificata, sol che si ponga mente al fatto che possono concretare il reato di terrorismo anche il mero pericolo del prodursi del fatto (si pensi a quanto sia ardita una stima di tal genere quando il riferimento sociale e storico è criptico, indecifrabile) od anche il mero aiuto diretto od indiretto  (economico, propagandistico, logico ecc.) ad organizzazioni internazionali che operano in modo violento con un fine di eversione.

Orbene, i presupposti che ispirano le  norma inglese e la norma italiana paiono essere anche il loro limite: ovverosia, la, di per sé, condivisibile, pretesa di incaricarsi di istanze di collaborazione internazionale e di prevenzione internazionale, attuata attraverso una legislazione nazionale, finisce per creare una norma penale dai confini incerti, mobili, difficilmente percepibili dall’agente in quanto strettamente connessi alla mutevolezza dell’angolo visuale dal quale i fenomeni storici e politici vengono percepiti e giudicati. La costruzione dei reati di terrorismo sul modello dei reati di pericolo rende ancor più pressante l’esigenza di limitare l’offensiva a fattispecie certe e determinate e di salvaguardare diritti fondamentali tra i quali la libertà di manifestazione del pensiero.

Inoltre, la pretesa di reprimere il terrorismo internazionale “ovunque nel mondo” e indipendentemente dallo stato contro il quale si adoperi, oltre a scontare forti limiti sul piano della ontologia del reato (quando un’azione violenta è da considerarsi terroristica piuttosto che patriottica?) incontra ostacoli di non poco conto anche sul piano della ricerca della prova, atteso il principio di sovranità che da un lato fa divieto ad uno stato di procedere autonomamente nel territorio di un altro stato e, dall’altro, obbliga ad una valutazione autonoma del fatto-reato.. Di scarso contributo sarebbe il ricorso alle convenzioni internazionali posto che esse consentono una possibilità di collaborazione limitata, di certo inadeguata al nuovo profilo tracciato dalla disciplina in commento. Inoltre va osservato che l’esigenza di collaborazione si presenterebbe soprattutto verso quei paesi non legati da trattati di assistenza giudiziaria e comunque a scarso tenore democratico. In definitiva le prove afferenti reati contro lo stato verrebbero in gran parte filtrate dallo stesso stato asseritamente colpito dall’azione terroristica.

A noi pare che la strada da seguire sia, piuttosto, la promozione di una legislazione internazionale penale da parte di un soggetto unitario, quale centro di imputazione della tutela penale, che possa avvalersi di un organo unico di giustizia (l’istituzione del tribunale penale internazionale va, seppur lentamente, in questa direzione). Il contrappeso giuridico e politico dovrebbe essere la garanzia del rispetto dei principi di libertà e di democrazia da parte dei paesi stranieri asseritamente vittime dell’azione terroristica beneficiari di tale protezione. Solo l’accettazione e il rispetto delle garanzie democratiche da parte dello stato “vittima”, infatti, può dare la sicurezza che attività di destabilizzazione violenta siano ascrivibili alla voce “terrorismo” e perciò vietati. In altre parole, l’instaurarsi di un circuito di globalizzazione democratica e l’inserimento in esso del paese straniero sono la condizione indispensabile per una nozione di reato di terrorismo internazionale a riparo da distorsioni antistoriche ed antigiuridiche. Ed infatti, senza un costrutto di diritto internazionale penale come potrà essere qualificato “internazionale” quel reato volto a colpire esclusivamente e con effetti limitati un soggetto straniero senza alcun collegamento con il paese procedente?

Sia consentito concludere questa breve e sommaria disamina riportando una dichiarazione dell’attuale Ministro della Giustizia britannico Jack Straw rilasciata nel 1998 (Panorama, 25 giugno 1998, pag. 94) a proposito dei reati eversivi e terroristici contro istituzioni straniere. A chi gli chiedeva spiegazioni dell’assenza nell’ordinamento inglese di una norma incriminatrice così rispondeva: “Non dimentichiamo che chi oggi è considerato un terrorista potrebbe domani essere definito un combattente per la libertà”. Le sue preoccupazioni di allora sono le nostre di oggi, nonostante tutto.