inserito in Diritto&Diritti nel giugno 2002

La riforma dei servizi pubblici locali in rapporto alla riforma del titolo quinto della costituzione. [1]

Di Annalisa Di Piazza

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La riforma costituzionale incide sul quadro normativo preesistente sotto alcuni profili, tra i quali quello di modificare il sistema delle competenze legislative. 

Il previdente art. 117 Cost. prevedeva, per le regioni a statuto ordinario, un elenco di materie nelle quali le regioni potevano adottare norme legislative nel rispetto dei limiti stabiliti dalle leggi dello stato. Nelle restanti materie la funzione legislativa rimaneva attribuita allo Stato che, con legge, a sua volta, poteva conferire alle regioni il potere di emanare norme attuative.

 

Il nuovo testo dell’art. 117 capovolge, invece, questo  modello. In esso vengono elencate le materie nelle quali lo stato dispone di potestà legislativa esclusiva e quelle nelle quali viene riconosciuta allo stato  una potestà legislativa che viene definita  concorrente,  per cui allo stato permane la potestà di determinare i principi fondamentali ed alle regioni quella di emanare la disciplina di dettaglio.

 

In tutte le altre materie la potestà legislativa spetta, invece, esclusivamente alle regioni le quali, nell’emanare le norme, sono soggette solo al rispetto della Costituzione, nonché ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

 

Dato tale nuovo assetto  delle competenze legislative ogni intervento legislativo statale deve essere valutato dal punto di vista della legittimità in relazione alla titolarità del potere per verificare che il riparto delle competenze delineato dalla riforma costituzionale venga rispettato.

 

Sotto questo profilo la decisione di inserire in una legge nazionale la regolamentazione dei servizi pubblici locali ha sollevato alcune perplessità in razione alla compatibilità con le previsioni del nuovo art. 117 della Cost.

 

Ci si è chiesti, in sostanza, se la materia dei servizi pubblici locali possa davvero essere legittimamente ricondotta alla competenza statale o se, piuttosto, l’art. 35 della legge 448/2001 (c.d. legge finanziaria per il 2002) non rappresenti, invece, una indebita ingerenza nella sfera dell’autonomia regionale.

 

Il primo punto di riferimento per valutare la legittimità costituzionale dell’art. 35 è sicuramente rappresentato proprio dal nuovo testo dell’art. 117, secondo comma, della Costituzione.

 

La lettura della norma evidenzia subito che la materia dei servizi pubblici non è citata in modo espresso nel testo dell’articolo.

 

La lettura dell’articolo, però, evidenzia anche che l’elencazione riportata non riguarda soltanto un insieme di “materie”, ma anche alcuni “settori”, cioè ambiti di competenza in qualche modo trasversali che raggruppano in sé diverse “materie”.

 

Pertanto, anche mancandone una previsione espressa, la legittimità costituzionale dell’art. 35 può essere affermata anche riconducendo la materia servizi pubblici nel novero di uno dei settori espressamente elencati dalla norma.

 

Da parte di alcuni autori c’è stato, infatti, il tentativo di ricondurre i servizi pubblici  nell’ambito del settore di cui alla lett. e), cioè alla tutela della concorrenza.

 

Da questo punto di vista occorre evidenziare che mentre la prima stesura della norma faceva riferimento alla disciplina della concorrenza, facendo così intendere un riferimento ad una materia dai confini abbastanza definiti, la nuova formulazione letterale, dove più genericamente si fa riferimento alla tutela della concorrenza  sembrerebbe, in effetti,  configurare  una competenza trasversale  su un numero assai rilevante di materie.

 

Il riferimento non va, quindi, solamente alla disciplina antitrust, alle sanzioni dei comportamenti collusivi tra le imprese, alla repressione della pubblicità ingannevole, alla disciplina dei compiti di regolazione e controllo delle autorità indipendenti, ma in qualsiasi settore o materia in cui la relativa legislazione può comportare effetti sulla concorrenza..

 

Inoltre la locuzione è talmente generica che gli ulteriori ambiti di materia che questa disposizione sarà capace di attrarre alla competenza statale sono tutti da determinare e approfondire, così come rimane da dimostrare che in questo ambito possa trovare legittimazione l’intervento dello stato in materia di servizi pubblici locali.

 

E’ da dire, a questo riguardo, che il dibattito politico che ha preceduto la riforma dei servizi pubblici locali, caratterizzato dalla discussione in parlamento di diversi disegni di legge, sembrava prevalentemente caratterizzato da una linea continua.

 

Tutti i disegni citati avevano, infatti,  in comune la previsione dell’obbligatorietà di procedure di evidenza pubblica per l’affidamento di servizi anche a società partecipate.

 

Le relazioni che accompagnavano i DDL ruotavano tutte intorno a petizioni di principio simili che rimandavano ad una visione anticoncorrenziale di ogni disciplina che potesse prevedere la possibilità di prescindere da procedure di gara per l’affidamento di un servizio, anche se a società partecipata.

 

“L’attuale assetto normativo del settore dei servizi pubblici locali […] si caratterizza per il rilievo con cui viene considerato il profilo della funzione sociale dei servizi pubblici locali. Nel tutelare questa funzione la disciplina vigente sottovaluta però la valenza economico imprenditoriale dei servizi o, laddove la richiama esplicitamente come nel caso dei servizi di erogazione di energia e gas, di gestione del ciclo dell’acqua, di trasporto collettivo, di gestione dei rifiuti, non mette in discussione le condizioni di monopolio in cui operano i gestori dei servizi, quasi che gli scopi sociali e le ricadute economiche di simili attività possano risultare garantiti semplicemente dalle procedure di affidamento diretto o in concessione da parte degli enti locali e dal carattere pubblico di gran parte dei gestori.” Il sistema attuale determina pertanto “ risultati negativi sui costi e sulla qualità dei servizi erogati ai cittadini, condizionando la funzione sociale dei servizi stessi e il loro contributo alla costruzione di un contesto favorevole allo sviluppo economico e civile delle comunità locali. […] Il disegno di legge propone dunque una riforma che coniuga liberalizzazione, regolamentazione e industrializzazione dei servizi pubblici locali, come elementi fondamentali per realizzare un sistema che risponda ai bisogni dei cittadini e fornisca il contesto necessario allo sviluppo economico e civile delle comunità locali” (Relazione al testo DDL 4014 di iniziativa governativa).

Vi è “l’assoluta urgenza di dotare l’intero settore dei servizi pubblici di un corpus normativo di indirizzo, adeguato alle esigenze dei cittadini utenti e a quelle di un mercato europeo, in cui andrà prima assicurata e poi salvaguardata la nostra concorrenzialità, in un settore in cui è innegabile che si giochino più sfide. […] Una regolamentazione che indichi un cambiamento sostanziale e che, aprendo il settore alle logiche del mercato e della concorrenza, tracci una volta per tutte un cambiamento di rotta che trovi il suo punto di sintesi fra la necessaria logica del libero mercato e l’etica stessa del servizio alla comunità, fra l’inarrestabile competitività e la salvaguardia dell’interesse collettivo. […] Siamo oggi in presenza di modelli obsoleti di relazione gerarchico pubblicistica, in cui l’ente proprietario si avvale di un suo ente strumentale ad amministrazione autonoma invece del più moderno modello a base contrattualistica e a contrapposizione di ruoli e interessi”(Relazione al testo DDL n.3448 di iniziativa dei senatori Magnalbò e Pasquali).

 

“Il presente disegno di legge parte da un obiettivo minimo: che il settore di attività dei servizi pubblici locali non sia sottratto all’iniziativa privata, a cui deve essere data la possibilità di competere alla pari. […] Questo obiettivo minimo consente che siano rispettati quei principi di libertà di iniziativa privata e di apertura alla concorrenza impliciti nel dettato costituzionale ed esplicitamente riconosciuti dai trattati comunitari.[…] Se gli enti locali, nella loro autonomia e discrezionalità, intendono essere presenti anche nella gestione, potranno farlo ma su un piano di assoluta par condicio. Questo appare sufficiente per garantire liberalizzazione e concorrenza” (Relazione al testo del DDL n.3295 d’iniziativa del senatore Debenedetti). 

 

Che a monte della disciplina dei servizi pubblici locali vi possano essere delle esigenze di tutela della concorrenza può quindi essere una affermazione non del tutto peregrina.

 

Altri, però, hanno preferito ricondurre la materia dei servizi  locali nell’ambito della lettera p) dell’art. 117  giustificando così l’attribuzione della potestà legislativa allo stato in quanto si tratterebbe di una normativa riguardante la disciplina delle funzioni fondamentali degli EE.LL.

 

Il punto di riferimento normativo per giustificare eventualmente la legittimità dell’intervento statale nella materia de quo non deve, però, essere limitato all’art. 117 Cost..

 

Infatti la previsione dell’art. 117 che “spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata allo stato” non va riferita solo alla elencazione contenuta nello stesso articolo ma anche alle riserve di legge materiale presenti nelle altre parti della costituzione, siano o non riconducibili in qualche modo alla suddetta elencazione residuale totalizzante delle materie.

 

In base a queste considerazioni alcuni autori riconducono la legittimazione statale in tema di servizi pubblici all’art. 41, c. 3 della costituzione, in cui si afferma che “la legge (intesa come legge statale) determina i programmi e i controlli affinché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” oppure all’art. 43 letto come fondamento costituzionale dell’intervento dello stato nell’economia.

 

Quale che sia la posizione che si intenda adottare sulle tesi sopra esposte è da dire che anche laddove si concluda per la impossibilità di ricondurre la materia dei servizi pubblici nel novero della competenza esclusiva dello stato ma piuttosto nel campo della competenza residuale e generale delle regioni ciò non è di per sé sufficiente per configurare la illegittimità costituzionale dell’art. 35.

 

Non manca, infatti, chi ritiene che l’art. 117 venga comunemente travisato nella sua portata applicativa senza tenere conto che la sua formulazione letterale afferma che “lo stato ha legislazione esclusiva “ nelle materie elencate ma non dice assolutamente che lo stato abbia “esclusivamente” competenze in quelle materie.

 

In questo senso il secondo comma dell’art. 117 non sarebbe, come è più comunemente affermato, una clausola limitativa della competenza dello stato, ma appare piuttosto come una clausola che garantisce lo Stato dalle interferenze della normazione di altri livelli istituzionali.

 

Alla luce di tale interpretazione lo stato conserva un potere di intervento anche nelle competenze assegnate alla potestà legislativa regionale.

 

Non vi è dubbio, infatti, che malgrado le intervenute modifiche costituzionali il sistema italiano resti un sistema non ancora federale, anche se molto decentrato.

 

In questo quadro i rapporti tra l’autonomia regionale e il potere centrale sono regolati, per espresso richiamo costituzionale, sulla base del principio di sussidiarietà, di nota matrice comunitaria.

 

Tale principio implica che l’intervento dell’autorità statale dovrebbe essere ammesso soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dalle regioni e a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione che possono essere realizzati meglio a livello sovralocale.

 

Il principio di sussidiarietà, nato per  salvaguardare il rispetto della sfera dell’autonomia locale ha finito, però, col tempo per trasformarsi in un elemento volto a garantire la coerenza complessiva del sistema.

 

In questa accezione il principio di sussidiarietà può diventare un elemento inedito di regolazione dei rapporti interistituzionali che ha come scopo primario il soddisfacimento (secondo i parametri della qualità, dell’efficacia e dell’economicità”) dei bisogni della società civile.

 

Sotto questo aspetto alcuni autori riconducono la legittimità  dell’art. 35 all’art. 120 Cost. dove nel delineare il nuovo e discusso potere sostitutivo del governo rispetto agli organi delle regioni, delle città metropolitane e delle province e dei comuni, vengono indicate fra le cause che ne possono giustificare l’utilizzazione sia il mancato rispetto di norme o trattati internazionali o della normativa comunitaria, sia la tutela di eventuali esigenze di carattere unitario dell’ordinamento.

 

E’ da puntualizzare, però, che la formulazione testuale dell’art. 120 induce ad alcune riflessioni che possono mettere in dubbio la possibilità di rinvenire in esso il presupposto della legittimità dell’art. 35.

 

L’intervento sostitutivo disciplinato nell’articolo 120 C., infatti, è attribuito al “governo” e non al Parlamento e ciò farebbe intendere che lo strumento di esercizio del potere sostitutivo non sia di natura normativa quanto piuttosto amministrativa.

 

Tralasciando le considerazioni che riguardano la cattiva formulazione letterale che ha caratterizzato questa riforma costituzionale ed evitando, pertanto, di considerare che quanto sopra evidenziato sia imputabile ad un errore lessicale quanto concettuale, sottolineiamo,  invece, come  anche a prescindere dall’art. 120 il fondamento costituzionale di un intervento legislativo dello stato possa comunque essere rinvenuto nell’ambito dei principi e dell’equilibrio immanente al sistema.

 

La traduzione del principio di sussidiarietà sul piano delle fonti di produzione della regolamentazione comporta, infatti, l’affermazione che l’attività normativa deve essere innanzitutto esercitata a livello istituzionale più vicino al cittadino. Ma comporta anche, affinché non vi siano pericolosi vuoti che farebbero venire meno l’idea stessa di unitarietà ed indivisibilità della Repubblica, che nell’ordinamento debbano essere rinvenuti principi e criteri per far sì che, in caso di mancato esercizio della propria autonomia da parte delle istituzioni di livello inferiore, sia comunque possibile applicare norme appartenenti ad un ordinamento di un livello istituzionale di grado maggiore.

 

Si potrebbe in definitiva giungere ad affermare che l’assunzione nella costituzione del principio di sussidiarietà come principio ordinatore del riparto di competenze della normazione ha proprio lo scopo primario di evitare di lasciare privi di disciplina settori non espressamente disciplinati dalle norme di livello istituzionale più basso competente per materia.

 

In tal modo si potrebbe affermare che lo stato, pur essendo ora al pari di altri enti solo uno dei soggetti che costituiscono la Repubblica, rimane tuttavia l’ente locale che, conservando rappresentanza e rappresentatività coincidenti con le dimensioni della Repubblica stessa, svolge il ruolo di tutore dell’unità ed indivisibilità della medesima e dispone dell’ordinamento giuridico generale mediante il ricorso alla propria potestà legislativa esclusiva, concorrente e sussidiaria.

 

Certo il rischio a volere così legittimare l’intervento dello stato nella materia dei servizi pubblici è quello di svuotare la reale portata applicativa della riforma e di giustificare l’ingerenza dello stato ogni volta in modo autoreferenziale ravveda l’esigenza di “tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica”.

 

Il possibile punto di equilibrio del sistema sta nel modo in cui l’eventuale intervento dello stato viene esplicato, in quanto lo stesso risulta quanto più compatibile con la riforma e con l’autonomia degli EE.LL. quanto più si mantiene su un piano generale e di principio.

 

Da questo punto di vista la legittimità dell’intervento statale va determinata non soltanto sull’an ma anche e soprattutto sul quomodo in quanto pur nel rispetto delle esigenze di unificazione, che comunque permangono, l’intervento dello stato in materie “di confine”, come  può essere quella di cui si discute, risulterà più conforme con il nuovo assetto quanto più saranno rispettati i seguenti criteri:

  1. la normazione deve autolimitarsi allo stretto indispensabile;
  2. deve essere tale da consentire scelte territorialmente differenziate;
  3. deve lasciare spazio al legislatore regionale di compiere autonomamente le valutazioni di carattere politico.

 

Anche l’art. 120 Cost., infatti, stabilisce che  i poteri sostitutivi devono essere esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione e tali limiti possono essere estesi anche al di fuori del campo di applicazione dell’art. 120 Cost[2].

 

Dal punto di vista della tecnica di redazione è innegabile che l’art. 35 è una disposizione di un certo dettaglio perché non contiene soltanto la previsione di principi fondamentali ma detta precetti e principi giuridici concreti.

 

Le norme fondamentali potrebbero rinvenirsi nella distinzione tra servizi pubblici a rilevanza industriale a servizi privi di tale rilevanza; nel separare, per i primi, la proprietà delle reti e degli impianti dalla gestione; nell’affidare il servizio mediante sistemi ad evidenza pubblica; nel prevedere il divieto per l’ente locale di riservarsi il monopolio di taluni servizi industriali.

 

D’altro canto non sarebbe comunque possibile per la regione modificare le funzioni fondamentali degli enti locali in materia di servizi pubblici locali né dettare norma circa la struttura e gli assetti interni delle società privatistiche di gestione ovvero la loro attività ed i poteri degli organi sociali, trattandosi di ambiti riconducibili alla competenza sicuramente esclusiva della legge statale (art. 117 lett. p) e l)).

 

L’esercizio del potere sostitutivo dello stato conforme ai limiti sopra evidenziati consentirebbe di ricostruire l’assetto delineato dalla riforma costituzionale in modo non molto difforme dal sistema dei rapporti istituzionali  che l’ordinamento delineava ante riforma  per le regioni a statuto speciale.

 

A tali regioni, infatti, l’ordinamento riconosceva una potestà legislativa primaria ed esclusiva, intesa come sottrazione alla disciplina legislativa dello stato, in cui le stesse incontravano soltanto dei limiti esterni rappresentati dai principi generali dell’ordinamento, dalle norme fondamentali delle riforme economico sociali, gli obblighi internazionali dello stato.

 

In questo quadro non si era mai, tuttavia, dubitato della possibilità per lo stato di intervenire anche in queste materie di competenza esclusiva delle regioni in caso di inerzia delle stesse e fintanto l’inerzia fosse perdurata.

 

L’intervento successivo della regione  faceva acquistare alla legislazione nazionale un carattere recessivo, rimanendo però questa suscettibile di riespansione nell’ipotesi del venir meno dell’occupazione di quello spazio di autonomia da parte della regione.

 

Questo meccanismo potrebbe essere applicato anche nel nuovo sistema costituzionale.

 

Ritenendo valida tale ricostruzione da un lato sarebbe possibile affermare la legittimità costituzionale dell’art. 35 e dall’altro si potrebbe affermare la possibilità di intervento anche successivo della legislazione regionale con conseguente recessione della normativa nazionale su un piano più di principi e di indirizzo. 

 

D’altra parte anche l’intervento regionale in materia di servizi pubblici locali (unico o successivo che sia) subisce dei limiti dal nuovo assetto di competenze delineato dalla riforma costituzionale.

 

Il legislatore regionale deve, infatti, rispettare i vincoli derivanti dai principi costituzionali, dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, dalla indiscutibile competenza statale in alcune materie (in tema di concorrenza, ad esempio).

 

Il legislatore regionale incontra, inoltre, anche il  vincolo derivante dalla competenza statale in ordine alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni corrispondenti ai diritti civili e sociali. In ordine a singole materie può incontrare vincoli di merito e questi rientrano nella specifica competenza legislativa esclusiva dello stato.

 

Per converso la competenza legislativa regionale, nel disciplinare i servizi pubblici locali, deve rispettare il principio di adeguatezza e di sussidiarietà non invadendo l’autonomia normativa degli enti locali circa lo svolgimento delle funzioni o dei servizi loro attribuiti.

 

Così intendendola ed interpretandola la competenza regionale in materia di servizi pubblici si pone come momento di snodo fra una normativa generale di ordinamento in sede nazionale ed un autonomia organizzativa e funzionale degli enti locali.  

 

Non rimane che da dire che la classificazione della materia dei servizi pubblici nell’ambito della competenza esclusiva dello stato o nell’ambito della competenza generale delle regioni vale anche come parametro di individuazione della competenza alla emanazione del successivo regolamento attuativo.

 

Infatti in base al disposto del comma 6 dell’art. 117 si  riconosce la potestà regolamentare allo stato nelle materie di legislazione esclusiva e alla regione in ogni altra materia.

 

Per concludere ricordiamo che alcune regioni, tra cui la Toscana, hanno già annunciato il loro ricorso alla Corte Costituzionale, per cui è possibile che sulle argomentazioni riportate ben presto sopraggiungano delle indicazioni più precise.

 

Intanto in diverse regioni  sono stati presentati o sono in discussione disegni di legge in materia di servizi pubblici locali di cui sarà interessante seguire l’evolversi e i riflessi a livello istituzionale. 


Note:

[1] Resoconto dell’intervento al convegno “La disciplina dei servizi pubblici locali” organizzato dall?unione Segretari Comunali e Provinciali della provincia di Bergamo, tenutosi a Bergamo il 23 maggio 2002.

[2] Laddove si condivida che il potere disciplinato nell’art.120 C. sia di tipo amministrativo e non legislativo.