inserito in Diritto&Diritti nel novembre 2004

“Il codice europeo di condotta  degli eletti locali e regionali”

di Angelo Canale

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“Il codice europeo di condotta  degli eletti locali e regionali”

Palazzo della Provincia, Napoli, 22 ottobre 2004

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Intervento del dott. Angelo Canale, Vice Procuratore Generale della Corte dei conti

Sintesi

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Confesso che la prima volta che ho avuto modo di conoscere il codice di condotta degli eletti elaborato e proposto dal Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa ho pensato che le regole racchiuse in tale codice fossero tanto scontate da non apparire necessario codificarle ulteriormente e suggerirne la formale condivisione da parte degli amministratori eletti; insomma , pensai allora che il codice non avesse ragione d’essere.

Ma, con lo stesso metro,  essendo scontate e condivise le regole di buona amministrazione, non avevano in astratto ragion d’essere neppure le centinaia di fascicoli istruttori che pure affollavano – e ancora affollano – il mio ufficio, ciascuno dei quali spesso rappresenta  un caso di malcostume amministrativo, una deviazione dai principi di probità, lealtà, imparzialità, una lesione dell’interesse generale.

Conclusi allora che proprio l’esistenza  di quei fascicoli e delle storie ad essi sottese motivavano ampiamente il “codice” e soprattutto ne motivavano la divulgazione, la condivisione e l’approvazione da parte degli amministratori eletti.   

                        Del resto proprio l’esistenza di tanti fascicoli,  metafora che cela la constatazione di quanto siano purtroppo diffusi i fatti di malcostume amministrativo e di quanto l’etica sia spesso lontana dall’amministrazione, denota che le ordinarie misure sanzionatorie non impediscono l’insorgenza di tali fatti; suggerisce rimedi che si collocano a monte, che si collocano  su di un  fronte che addirittura precede quello delle misure legislative di prevenzione, sul fronte della coscienza individuale e dell’etica.

In questa ottica il “codice” può svolgere un ruolo e se ne deve raccomandare l’adozione.

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 Nessuno però può essere così ingenuo da credere che l’adesione ad un codice di condotta, che in fondo è una sorta di codice d’onore, abbia chissà quali effetti taumaturgici, ma aderire ad un codice che nel preambolo fa esplicito riferimento, quale causa dello stesso, al “moltiplicarsi degli scandali giudiziari in cui sono implicati responsabili politici a motivo di atti commessi nell’esercizio delle loro mansioni”, è già di per sé un fatto positivo.

Io credo che per gli amministratori non sia facile ammettere l’esistenza di un problema di tale natura –magari è più facile evocare manovre politico-giudiziarie o ribaltare sugli avversari politici accuse e sospetti – e proprio per questo, se proprio dagli amministratori ci giunge questa amara ma vera constatazione, che diviene addirittura premessa di un codice di condotta, in definitiva di autoregolamentazione, non possiamo non dare un giudizio positivo ad una iniziativa che muove in primo luogo da una severa autocritica.

E in tempi in cui sembra talvolta più normale solidarizzare con gli imputati ed i condannati piuttosto che affiancare i giudici nella lotta contro l’illegalità,  questo fatto merita apprezzamento.

Ammettere che c’è un problema, anzi che si ha un  problema di degrado dell’etica nella politica,  è il primo passo per risolverlo.

Allora che questo primo passo sia fatto.

In occasione della presentazione del “codice”, a Roma, in Campidoglio, formulai alcune osservazioni, che in questa sede voglio rinnovare.

Dissi che  il codice contribuisce a formare o comunque a ricostruire una deontologia dell’eletto, e cioè l’insieme delle regole condivise che costituiscono i doveri morali del rappresentante politico eletto nei confronti degli elettori; e ciò è tanto più significativo se si considera quanto sia radicata, purtroppo, l’idea della distanza addirittura necessaria o dell’inconciliabilità tra la  morale e la politica.

Dissi e ribadisco che formare o ricostruire una deontologia del rappresentante politico eletto avrebbe un effetto positivo sul rapporto di fiducia tra eletti ed elettori ; in questa ottica il codice è da apprezzare : di per sé non accresce la fiducia, ma  indica un percorso, è un tassello importante di una strategia di conquista e mantenimento della fiducia dei cittadini, che tuttavia si deve soprattutto fondare sui fatti concreti, cioè sull’applicazione dei doveri contenuti nel codice, sulla possibilità di poter verificare i comportamenti nel concreto assunti dagli amministratori, sulla trasparenza delle condotte.

Dissi infine che il “codice”, che pur si muove nella giusta direzione, ha un senso solo se inserito in una più complessiva strategia  e se accompagnato da fatti concludenti, diversamente rischia di rimanere una inutile elencazione di buone intenzioni.

Dissi tutto ciò ponendo il problema, che a me tuttora sembra centrale, di come vigilare sull’applicazione dei principi e delle regole contenute nel “codice”, di come cioè consentire ai cittadini di verificare il rispetto degli obblighi  assunti con l’adesione al codice.

In effetti è lo stesso codice, agli articoli 23, 24 e 25 a fornire alcune utili indicazioni, laddove prevede che l’eletto risponda in maniera diligente, sincera e completa a qualsiasi richiesta di informazione da parte dei mass-media per quanto riguarda l’esercizio delle sue funzioni; incoraggia e sviluppa ogni misura che vada a favore della diffusione presso i mass-media di informazioni sulle sue competenze, sull’esercizio delle sue funzioni e sul funzionamento dei servizi che si trovano sotto la sua responsabilità; incoraggia e sviluppa qualsiasi provvedimento volto a favorire la diffusione del codice e la sensibilizzazione ai principi in esso contenuti.

La stampa quindi, ed in genere i mezzi di informazione, sono chiamati, dallo stesso codice, ad una attività costante di monitoraggio e controllo, stimolata dagli stessi eletti, in funzione di una informazione sperabilmente corretta ed imparziale.

Viviamo però nel mondo reale e non in quello delle illusioni,  e sappiamo bene tutti quanto i mezzi di informazione possano essere condizionati e quanto possano condizionare.

Mi pare che sia stato recentemente scritto da un protagonista di questo stesso convegno (Lorenzo Zoppoli, in “Istituzioni locali, democrazia ed etica pubblica- per un nuovo patto di fiducia tra cittadini ed Istituzioni politiche”) che “la formazione del consenso avviene sempre più attraverso sistemi di manipolazione delle informazioni”, diagnosi amara ma terribilmente vera;  e allora è normale chiedersi chi garantirà che i mezzi di informazione usino l’indispensabile imparzialità o non obbediscano piuttosto a logiche di potere, di mantenimento del consenso attraverso il tacere o , peggio, attraverso la manipolazione del vero ?

Ciò che voglio dire è che forse il punto debole del codice sta in questo,  e cioè nella oggettiva difficoltà di vigilare sul suo effettivo rispetto e allora, mi chiedo, come fare per consentire ai cittadini di essere informati , di poter azionare il proprio diritto a conoscere, di seguire le Istituzioni che con il proprio voto si concorre a legittimare?

In questo quadro, l’ iniziativa che secondo me è andata nella giusta direzione è stata quella che ha preso corpo qui a Napoli: mi riferisco al Comitato per il rinnovamento dell’Etica Pubblica , aperto a tutti gli schieramenti, al Manifesto per una rinnovata Etica Pubblica proposto ai candidati di tutti i partiti, all’Osservatorio.

E’ auspicabile il formarsi anche altrove di tali Comitati? la sottoscrizione di simili Manifesti? la formazione di “osservatori” super partes che vigilino sul rispetto delle regole deontologiche alle quali  i rappresentanti eletti scelgono, con l’adesione ad un tale codice, di sottomettersi? In definitiva è auspicabile l’attivazione di un “circuito” di partecipazione democratica? Io risponderei Sì, Sì, Sì e ancora Sì.

            E’ una strada giusta, è giusto percorrerla.

Certo, non sfugge il problema per così dire “genetico” di simili iniziative: guai se non fossero in ogni momento al di sopra delle parti;  è pertanto auspicabile che l’incipit provenga dal mondo della cultura, dalle Università, dalle Istituzioni, dalla società civile che si rispecchia nei principi dell’etica pubblica, dalle persone di qualsiasi fede politica alle quali non occorre spiegare quanto i valori morali siano necessari per un buongoverno, perché già ne sono intimamente convinte.

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Sempre in tema di verifica dei comportamenti nel concreto assunti dagli amministratori  vorrei aggiungere ulteriori riflessioni.

Le “norme di comportamento” contenute nel “codice”, e che gli eletti si impongono di osservare, sono talvolta regole di condotta la cui violazione integra specifiche fattispecie penali (art.13 – divieto di corruzione) ;   altre volte, collocandosi a monte della stessa elezione, si traducono in doveri morali e non giuridici (artt.7,16) ; più spesso si tratta di principi e  regole di buona amministrazione.

Mi riferisco in particolare alle norme  relative al “primato della legge e dell’interesse generale” (art.4), agli “obiettivi dell’esercizio del mandato” (art.5),  all’”esercizio del mandato” (art.6); alle norme sull’esercizio delle competenze discrezionali (art.12) e sul rispetto delle leggi di bilancio e finanziarie, a quelle contenute nel titolo VI del codice, intitolato ai rapporti con l’amministrazione.

Ebbene, non sarà superfluo rammentare in questa occasione che tali prescrizioni, pur se indirizzate, secondo il preambolo del “codice di condotta”, a contrastare fenomeni di corruzione di rilevanza penale, costituiscono quelle stesse regole di buona amministrazione,  di sana ed oculata gestione della cosa pubblica, la violazione delle quali, nell’ordinamento italiano, ricorrendo gli altri requisiti di legge  -ed in primo luogo il danno patrimoniale causato alle pubbliche finanze- determina l’esercizio dell’azione di responsabilità patrimoniale amministrativa da parte delle procure regionali della Corte dei conti.

Ciò significa per un verso  riconoscere che la corruzione si contrasta con la buona amministrazione, e questo lo darei per scontato, dal momento che è scontato che la corruzione si alimenta di amministrazioni inefficienti; per altro verso  che le responsabilità amministrative scaturenti dalla violazione delle regole di buona amministrazione contrastano sia pure indirettamente i fenomeni   di corruzione, pur se l’azione di responsabilità è prioritariamente finalizzata al risarcimento del danno patrimoniale.

Significa anche che la Corte dei conti, quando giudica i pubblici amministratori per fatti di responsabilità patrimoniale-amministrativa , ha spesso, come parametro di riferimento, principi e regole, espressioni attuative dell’art.97 Cost., che oggi noi vediamo racchiuse in un codice di condotta, alla stregua di principi e regole di carattere etico. 

Non so se questo conduce a ritenere la Corte dei conti una sorta di giudice sull’etica pubblica; credo di no, poiché il giudice è in primo luogo chiamato ad applicare la legge, non principi etici;  però è vero che quando la Corte giudica il caso concreto è tenuta a valutare se il comportamento assunto dagli amministratori , dal quale sarebbe derivato il danno erariale che ha legittimato l’azione risarcitoria del procuratore della Corte dei conti , sia stata conforme oltre che a specifiche norme amministrative e contabili, anche ai principi generali di economicità, efficienza e di efficacia dell’azione amministrativa, che sono per l’appunto espressione attuativa dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, il carattere etico dei quali a me sembra fuori discussione.

            Del resto è anche vero:

- che giornalmente si rivolgono alla Corte dei conti tantissimi cittadini, che chiedono solo amministrazioni oculate ed efficienti e amministratori  che gestiscano onestamente le risorse pubbliche e non le sprechino; essi si attendono dal giudice contabile iniziative giudiziarie adeguate; la Corte è dunque percepita come giudice della buona amministrazione;

- che la non tipicità dell’illecito amministrativo dannoso impone al procuratore e al giudice della Corte dei conti di individuare  quali siano nel concreto le regole – talvolta non scritte , epperò non meno cogenti -  di buona amministrazione nella fattispecie violate,  avuto riguardo ai diversi contenuti che nel tempo, con il modificarsi della società e della pubblica amministrazione,  hanno assunto obiettivi come l’“oculata gestione delle risorse pubbliche” o la “sana amministrazione”; ciò impone quindi un continuo allineamento dei parametri di riferimento relativi alle regole di buona amministrazione, posto che queste ultime, non essendo “codificate”, sono soggette a mutevole interpretazione o comunque ad una interpretazione non cristallizzata; ciò fa della Corte dei conti un giudice particolarmente attento alla realtà amministrativa e alle sue dinamiche.

Il discorso sembra essersi allontanato dal “codice di condotta”; ma non è del tutto vero; è comunque emerso che la Corte dei conti , almeno nell’ordinamento italiano, ha un ruolo centrale, in sede di giudizi di responsabilità,  nella verifica del rispetto dei principi e delle regole di buona amministrazione, alle quali fa riferimento il “codice di condotta”.

E gli stessi principi e le stesse regole, sullo sfondo del principio di legalità, costituiscono pure parametri di riferimento della Corte dei conti nella diversa sede del controllo; che oggi, dopo aver ridotto forse troppo frettolosamente l’ambito del controllo preventivo di legittimità,  è soprattutto controllo successivo e di gestione, ma sempre controllo esterno svolto da un organo autonomo e neutrale, nell’interesse della collettività. 

Non sarà quindi inutile prestare maggiore attenzione alle sentenze della Corte dei conti in materia di responsabilità e alle deliberazioni della stessa Corte in sede di controllo.

 Allo stesso modo c’è da chiedersi se la norma che stabilisce, in caso di condanna inflitta dalla Corte dei conti con sentenza passata in giudicato, una incompatibilità (a ricoprire la carica di consigliere comunale, provinciale, assessore) solo temporanea e dipendente dall’estinzione del debito derivante dalla condanna, sia coerente ed in linea con gli obiettivi etici perseguiti dal “codice di condotta”,  tenuto conto che la condanna segue all’accertamento giudiziale di comportamenti dolosi o gravemente colposi, posti in essere in violazione di norme di legge  e di regole di buona amministrazione e  in danno della collettività.

Forse non sarebbe eccessivo, in caso di condanne del genere, che mettono in evidenza fatti di cattiva amministrazione, sprechi, incuria dell’interesse pubblico, pensare ad una interdizione temporanea dai pubblici uffici, estendendo la portata della vigente norma speciale relativa agli amministratori responsabili di aver causato il dissesto dell’ente locale.

Ciò “de iure condendo”; intanto sarebbe auspicabile che i candidati dichiarassero se nei loro confronti pendono giudizi per fatti di responsabilità amministrativa o se per gli stessi fatti  sono stati condannati e ciò a prescindere dall’avvenuta esecuzione della sentenza di condanna.

Giudicherei più completo un “codice di condotta” che preveda un tale “obbligo” di informazione.