inserito in Diritto&Diritti nel luglio 2004

Commistione  informazione/pubblicità: Come il Consiglio dell’Ordine della Lombardia tutela (sostenuto dalle sentenze dei giudici milanesi) l’interesse generale, che coincide con lo svolgimento  corretto e autonomo della  professione giornalistica.

Ricerca di Franco Abruzzo

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INDICE

1. Premessa. Il diritto vivente in tema di commistione pubblicità/informazione scritto a Milano.

2. Diritti e doveri del giornalista.

3.  Bisogna evitare che un giornale si trasformi in un catalogo commerciale. Tribunale civile di Milano: “La pubblicità deve essere chiara, palese, esplicita e riconoscibile.... il lavoro giornalistico deve  rimanere inconfondibile”.

4. Corte d’Appello di Milano: “Il direttore quantomeno deve rendere pubblico il proprio dissenso all'ufficio marketing”.

5. Amtitrust: “La sollecitazione al consumo può nascondere un caso di pubblicità ingannevole”.

6. Gli articoli  pubblicitari giustificano le dimissioni del giornalista, perché ledono la dignità professionale. Inserimento di articoli di natura pubblicitaria in un periodico contro la volontà del condirettore  può giustificare le dimissioni del giornalista, con diritto all'indennità sostitutiva del preavviso per lesione della sua dignità professionale (Cassazione sezione lavoro n. 5790 dell'11 giugno 1999 pres. Lanni, rel. Berni  Canani).

7. Le sentenze del Tar Lazio sulla pubblicità ingannevole

8. Tribunale civile di Milano: “La pubblicità ingannevole è slealtà del giornalista”.

9.  La prima sezione civile della Corte d’Appello di Milano conferma la sanzione inflitta dal Consiglio dell’Ordine di Milano a Caterina Vezzani: quando la pubblicità ingannevole si nasconde nell’invito dell’articolista a usare un determinato dentifricio.

10. La prima sezione civile della Corte d’Appello di Milano conferma la sanzione della censura a Marisa Deimichei: nei casi di commistione pubblicità-informazione il direttore ha il dovere di rendere pubblico almeno il dissenso dalle scelte dell’Ufficio marketing.

11. Sentenza della seconda sezione civile della Corte d’Appello accoglie le ragioni di Franco Abruzzo e Roberto La Pira. Occhipinti perde in appello: corretto il titolo di Tabloid  "Basta marchette, per favore".

12. Consiglio OgL su giornaliste "attrici pubblicitarie" e su contenitori pubblicitari che mescolano inserzioni e articoli funzionali alle inserzioni.

13. Conclusioni. Corte d’Appello di Milano: “Il giornalista deve essere e deve  apparire corretto”)

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Appendice – 1/ Contratto nazionale di lavoro giornalistico Fnsi-Fieg. Art. 44. Rapporto tra informazione e pubblicità

Appendice – 2/ Carta dei doveri del giornalistica (1993): “Messaggi pubblicitari devono  sempre e comunque distinguibili dai testi giornalistici”.

Appendice - 3/Tribunale civile di Milano: divulgabili le decisioni disciplinari dell’Ordine.

Appendice- 4/ OgL: la pubblicità mascherata uccide l’informazione.

 


1. Premessa. Il diritto vivente in tema di commistione pubblicità/informazione scritto a Milano. Il Consiglio di Milano ha l’orgoglio di avere costruito il diritto vivente in tema di commistione pubblicità/informazione  e di tutela dei minori e dei soggetti deboli.  Ricordo che le nostre decisioni possono essere impugnate  anche dalla Procura generale, che le stesse sono riviste dal Consiglio nazionale e poi dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Milano nonché dalla Cassazione. Il sistema (5 gradi di giudizio!) garantisce i diritti di tutti, soprattutto quelli della difesa. Il Consiglio dell’Ordine della Lombardia, durante la mia presidenza, ha sempre tutelato l’interesse generale, che coincide con lo svolgimento corretto e autonomo della  professione giornalistica.  Si legge nella sentenza n. 11/1968 della Corte costituzionale:

«La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai Consigli (dell’Ordine dei Giornalisti) non siano tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura democratica dei Consigli, che di per sé rappresenta una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla legge precedentemente in vigore (D.L.Lgt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli Albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa venti anni ad un organo di nomina governativa, e la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell'azione giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro concorrono sicuramente ad impedire che l'iscritto sia colpito da provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi scritti, e ammettesse una corrispondente possibilità di sanzione, perché in tal caso la libertà riconosciuta dall'articolo 21 sarebbe messa in pericolo e l’art. 45 (1) - norma di chiusura dell'intero ordinamento giornalistico - risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli illeciti disciplinari, com'è inevitabile, non si articola in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2. Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venire meno ad essa, giammai l'esercitarla, che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare».

La responsabilità del direttore emerge anche dalla legge 633/1941: il direttore è, infatti, <autore dell’opera collettiva dell’ingegno> che è il giornale o il periodico. Il Consiglio osserva che un giornalista, sia redattore o direttore, non può ignorare le norme sancite dal legislatore a tutela dei consumatori (e dei lettori) e soprattutto il principio che <la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta> (articolo 1, comma 2, del  Decreto legislativo 25 gennaio 1992 n. 74). Il direttore è  da considerare responsabile  della correttezza del messaggio pubblicitario in quanto, come ha stabilito il Consiglio, <è tenuto per legge a controllare (anche) i testi pubblicitari> che appaiono sul giornale al fine, come  nei casi condannati dall’Antitrust, di evitare che i lettori siano ingannati dai messaggi pubblicitari spacciati in maniera truffaldine per articoli. Questo comportamento è un tradimento della professione giornalistica. Anche la legge n. 223/1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato dice all’articolo 8 che <la pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere distinta dal resto dei programmi con  mezzi ottici o acustici di evidente percezione>.

Commette illecito disciplinare il direttore che avalli copertine o articoli pubblicitari.  “Costituisce  illecito disciplinare, in quanto contrario al prescritto dovere  di  lealtà  nell'informazione, il comportamento del direttore responsabile  di  un  periodico,  che  avalli la pubblicazione di una copertina  e  di  articoli  dotati  di  contenuto  pubblicitario  non chiaramente differenziato rispetto al dato informativo” (Trib. Milano, 11 febbraio 1999 Parti in causa Monti c. Consiglio reg. ord. giornalisti Lombardia; Riviste: Foro It., 1999, I, 3083 Rif. legislativi: L 3 febbraio 1963 n. 69, art. 2; L 3 febbraio 1963 n. 69, art. 48).

 

2. Diritti e doveri del giornalista – I diritti e i doveri del giornalista sono fissati nell’articolo  2 della legge n. 69/1963: “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”. La Cassazione (Cass. civile, 9  luglio 1991, n. 7543, Mass. 1991) ha riconosciuto agli Ordini  il potere di “fissare norme interne, individuatrici di comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione disciplinare”.

2.1. I cardini deontologici della legge professionale. La legge professionale detta vincoli fondamentali per l'attività giornalistica, impegnando il giornalista a essere e ad apparire corretto. I casi emergenti di inquinamento dell’informazione sono presi in considerazione, in sede disciplinare, sotto il profilo dell'articolo 2 e dell'articolo 48 della legge professionale. L'articolo 2 prescrive il rispetto della persona umana e quello della verità sostanziale dei fatti come limiti all’esercizio del diritto di informazione e di critica, l'osservanza dei doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede e la promozione della fiducia fra la stampa e i lettori. L'articolo 48, invece, tutela il decoro professionale e la dignità dell'Ordine e prevede l'apertura di procedimento disciplinare quando gli iscritti si rendono colpevoli di fatti che compromettono la reputazione e il prestigio dell'Ordine stesso. Questi i principi che si ricavano dagli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963:

1)  la libertà di informazione e di critica (valori che fanno definire il giornalismo informazione critica) come diritto insopprimibile dei giornalisti;

2)  la tutela della persona umana e  il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica;

3) l'esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà;

4)  il dovere di rettificare le notizie inesatte;

5)  il dovere di riparare gli eventuali errori;

6) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse;

7) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori;

8) il mantenimento del decoro e della dignità professionali;

9) il rispetto della propria reputazione;

10)  il rispetto della dignità dell'Ordine professionale;

11)  il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi;

12)  il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori

2.2. Procedimento disciplinare - L’apertura è prevista dall’articolo 48 della legge n. 69/1963: “Gli iscritti nell’Albo, negli elenchi o nel registro che si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’Ordine,  sono sottoposti a procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare è iniziato d’ufficio dal Consiglio regionale o interregionale, o anche su richiesta del procuratore generale competente ai sensi dell’articolo 44”.  Il potere riconosciuto al Pg di “impulso” significa solo che c’è un interesse pubblico affinché la professione giornalistica si svolga in termini corretti.

2.3. Sanzioni disciplinari -  Sono fissate nell’articolo 51 della legge n. 69/1963. Le sanzioni disciplinari sono pronunciate con decisione motivata dal Consiglio, previa audizione dell’incolpato. Esse sono: a) l’avvertimento; b) la censura; c) la sospensione dall’esercizio della professione per un periodo non inferiore a due mesi e non superiore ad un anno; d) la radiazione dall’Albo.

 

3.  Bisogna evitare che un giornale si trasformi in un catalogo commerciale. Tribunale civile di Milano:“La pubblicità deve essere chiara, palese, esplicita e riconoscibile.... il lavoro giornalistico deve  rimanere inconfondibile”.

“(Il Tribunale) osserva, infatti, che il rispetto del principio della necessaria separazione tra informazione e pubblicità é stato più volte sollecitato dal Consiglio regionale della Lombardia, sia per evitare che un giornale si trasformi in un catalogo commerciale, sia per tutelare il cittadino che ha diritto ad una corretta informazione che gli consenta di riconoscere quali notizie, servizi ed altre attività redazionali appartengono alla responsabilità della redazione o del singolo giornalista e quali, invece, siano diretta espressione di altri enti o aziende: la pubblicità deve essere chiara, palese, esplicita e riconoscibile, soprattutto la c.d. pubblicità redazionale: la lealtà verso il lettore impone che il lavoro giornalistico e quello pubblicitario rimangano separati ed inconfondibili: qualsiasi forma di pubblicità occulta diventa un inganno per il lettore ed una forma degenerativa della qualità dell'informazione (delibera di indirizzo del Consiglio Lombardo): la comunicazione pubblicitaria persuasiva o suggestiva è caratterizzata dall'assenza di quella neutralità che rappresenta invece il primo requisito richiesto all'informazione obbiettiva: il messaggio pubblicitario sviluppa una sorta di difesa naturale da parte del lettore che invece non è preparato a contrapporre la propria capacità critica ai segnali ricevuti da una fonte riconosciuta come neutrale quale deve essere l'articolo giornalistico.

Un primo riconoscimento testuale ed esplicito in sede legislativa del divieto di pubblicità occulta si trova nell'art. 8, comma secondo della Legge 6/8/90, n. 223, dove si legge che la pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere distinta dal resto dei programmi con mezzi ottici o acustici di evidente percezione; il D.LGS. 25/1192, n. 74, con le sue definizioni alle quali qui si fa rinvio per brevità, ha lo scopo di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari; l’art. 7 del Codice di autodisciplina pubblicitaria prevede la necessaria identificazione della pubblicità.

Di fronte ad un testo apparentemente informativo ed in assenza di un dimostrato rapporto di committenza tra autore dei testo ed impresa, occorre accertare, in via presuntiva, la presenza di elementi gravi precisi e concordanti che concorrano a stabilirne il contenuto promozionale; in caso positivo occorre verificare la sussistenza dei requisiti di evidente percezione idonei a rivelare immediatamente la natura promozionale del testo medesimo; la mancanza di detti requisiti consente di qualificare il messaggio come ingannevole.

L'indagine relativa ad un articolo collocato in una rubrica dedicata alla salute ed alla bellezza contenente specifici riferimenti, anche fotografici, a determinati prodotti, nonché ad un inserto recante consigli sull'igiene orale accompagnati dall'indicazione dei prodotti da prediligere con relativa documentazione fotografica, é già stata conclusa con la qualifica di messaggio ingannevole nel Provv. n. 3618 dei 15/2/96 dell’Antitrust” (sentenza 23 marzo 2000 della quinta sezione del Tribunale civile di Milano, che conferma una delibera dell’Ordine della Lombardia, condivisa dal Consiglio  nazionale, in tema di commistione pubblicità-informazione).

 

4. Corte d’Appello di Milano: “Il direttore quantomeno deve rendere pubblico il proprio dissenso all'ufficio marketing. La sentenza n. 1827/2003 della prima sezione civile della Corte d’appello di Milano ha confermato la sanzione inflitta il 10 novembre 1996 dall’Ordine di Milano, il 20 marzo 2002 dall’Ordine nazionale e poi il 24 ottobre 2002 dal Tribunale civile di Milano nei riguardi del direttore responsabile di “Starbene” (Mondadori). In sostanza la Corte d’Appello ha affermato la responsabilità soggettiva del direttore per culpa in vigilando in merito a due casi di pubblicità ingannevole (con riferimento a due inserti della Bayer inseriti nei numeri 26 e 27/1996 della rivista Starbene). "Il direttore quantomeno avrebbe potuto evidenziare – scrivono i giudici - il proprio dissenso all'ufficio marketing, già in relazione al numero 26 ed a maggior ragione laddove l'episodio si ripeteva con il n.27 (della rivista Starbene), essendo fatto grave che un direttore responsabile tolleri che nella pubblicazione da lui diretta siano inseriti, non solo dépliants separatamente aggiunti, ma anche pagine che vadano a formare un corpo unico con la rivista stessa, senza esercitare in alcun modo quel controllo che il ruolo svolto rigorosamente impone. Il direttore avrebbe avuto l'onere di intervenire presso l'editore e/o presso l'ufficio marketing e/o presso l'ufficio diffusione periodici., con un ventaglio di possibilità, che andavano dalla richiesta più drastica di bloccare la distribuzione a quella più lieve di semplice segnalazione de1 proprio dissenso. Al contrario non ha ritenuto di intervenire in alcun modo ed in questa inerzia non può che ravvisarsi una sua grave omissione. Né poteva legittimamente temere di esporsi in modo pericoloso nei confronti dell'editore (dato e non concesso che un simile timore rappresenti un'esimente o un’attenuante alla propria responsabilità) posto che nei suoi confronti avrebbe avuto facile gioco limitandosi a rappresentare le già ricevute proteste della redazione e del fiduciario sindacale".

 

5. Antitrust: “La sollecitazione al consumo può nascondere un caso di pubblicità ingannevole”. Costituisce una fattispecie di pubblicità ingannevole non trasparente, un messaggio - divulgato a mezzo stampa - contenente indizi presuntivi sulla sollecitazione al consumo di un determinato prodotto, quando lo stesso messaggio non sia distinguibile, dalle altre forme di comunicazione al pubblico, sulla base di elementi grafici di immediata percezione finalizzati a creare confusione presso i lettori in merito alla reale natura pubblicitaria dello stesso articolo, quali, ad esempio, l'indicazione dei giornalisti che hanno curato il servizio, l'impostazione tipografica del titolo e del sottotitolo, che rende il messaggio non distinguibile dagli altri articoli giornalistici, la suddivisione delle pagine e la loro numerazione (nella fattispecie, si trattava di un servizio giornalistico dedicato al fenomeno dell'incremento del consumo di un determinato tipo di acqua minerale "Acqua San Pellegrino" e all'abbinamento di questa con i diversi cibi). (Autorità Garante  per la concorrenza, 03/05/2000, n.8261; PARTI IN CAUSA Acqua S. Pellegrino; FONTE Giust. Civ., 2001, I, 2862; RIFERIMENTI NORMATIVI DLT 25/01/1992 n.74).

 

6. Gli articoli  pubblicitari giustificano le dimissioni del giornalista, perché ledono la dignità professionale. Inserimento di articoli di natura pubblicitaria in un periodico contro la volontà del condirettore  può giustificare le dimissioni del giornalista, con diritto all'indennità sostitutiva del preavviso per lesione della sua dignità professionale (Cassazione sezione lavoro n. 5790 dell'11 giugno 1999 pres. Lanni, rel. Berni  Canani).

M. A., giornalista professionista, ha lavorato alle dipendenze della S.p.A. Casa Editrice Universo come condirettore responsabile della rivista "Top Video" con mansioni di direzione esecutiva, comprendente la scelta degli argomenti da trattare e degli articoli da pubblicare, essendo il compito del direttore responsabile limitato ad una supervisione di carattere generale svolta dopo il completamento di ogni numero del periodico. Egli è entrato in contrasto con l'ufficio pubblicità della casa editrice in quanto si è opposto alla pubblicazione di articoli commissionati da case produttrici di apparecchiature, aventi sostanzialmente natura pubblicitaria.

Peraltro, in occasione di una sua assenza per ferie, il direttore responsabile ha consentito la pubblicazione di due articoli di questo genere, aderendo a richieste dell'ufficio pubblicità.

A causa di tale episodio M.A. si è dimesso, chiedendo il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso, in base agli articoli 44, 27 e 32 del contratto nazionale di lavoro giornalistico. L'art. 44 stabilisce la netta separazione tra pubblicità e informazione. Gli artt. 27 e 32 riconoscono al giornalista il diritto di percepire l'indennità sostitutiva del preavviso in caso di dimissioni per fatti che abbiano determinato una situazione incompatibile per la sua dignità professionale, dei quali sia responsabile l'editore. Ne è seguita una causa davanti al Pretore di Monza, che ha condannato l'azienda al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Monza, che ha rigettato l'impugnazione proposta dall'azienda in base alle seguenti considerazioni:

- erano risultate provate le ingerenze dell'ufficio pubblicità nella pubblicazione di articoli, ingerenze intensificatesi nei mesi estivi del 1989, e cioè in un periodo in cui M.A. non aveva alcuna possibilità di reazione: secondo un teste vi erano state precise e pressanti indicazioni sui modelli da pubblicare nei mesi di luglio, agosto e settembre; secondo un altro teste in quell'occasione le pressioni erano giunte alla vera e propria imposizione di un modello non condiviso>;

- tali intromissioni, ed in particolare quelle verificatesi durante il periodo estivo, dovevano ritenersi lesive della dignità del lavoratore>;

- doveva escludersi, sulla base della documentazione prodotta e delle testimonianze acquisite, che a fronte della posizione del direttore responsabile, il condirettore M.A. non avesse alcun potere di decidere il contenuto della rivista; egli era invece totalmente autonomo nella scelta degli articoli, ed aveva quindi il diritto di opporsi alle pressioni dell'ufficio pubblicità, avendo il direttore la sola responsabilità legale e amministrativa del giornale>;

- le ingerenze denunziate con la lettera di dimissioni integravano quindi una giusta causa di recesso>.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5790 dell'11 maggio 1999, Pres. Lanni, Rel. Berni Canani), ha rigettato il ricorso della casa editrice in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia adeguatamente motivato la sua decisione accertando in particolare che M.A. aveva ampia autonomia nella scelta degli articoli da pubblicare e che pertanto il comportamento dell'Ufficio Pubblicità aveva costituito un'indebita interferenza, lesiva della sua dignità professionale. (fonte  www.legge-e-giustizia.it).

 

7. Le sentenze del Tar Lazio sulla pubblicità ingannevole

Anche in un articolo giornalistico o in un inserto redazionale possono essere contenute informazioni su prodotti in commercio, informazioni che possono determinare indirettamente un effetto promozionale, senza che per questo muti la natura giornalistico-informativa di tale forma di comunicazione al pubblico. Tuttavia, quando la citazione del prodotto non è espressione disinteressata e indipendente del giornalista, ma è diretta ad influire sul comportamento economico dei consumatori, il messaggio deve conformarsi alla disciplina specifica in materia di pubblicità (d.lg. 25 gennaio 1992 n. 74) e l'invocazione del diritto di cronaca e di libertà di manifestazione del pensiero non valgono a derogare a tale disciplina. (T.A.R. Lazio, Sez.I, 28/03/2002, n.2638; PARTI IN CAUSA Soc. Rcs ed. Soc. RCS ed. C. Autorità garante concorrenza mercato Autorità garante concorrenza e mercato e altri ; FONTE Foro Amm. TAR, 2002, 482, nota di MARRAMA)

 

Costituisce una fattispecie di pubblicità ingannevole non trasparente, un messaggio - divulgato a mezzo stampa - contenente indizi presuntivi sulla sollecitazione al consumo di un determinato prodotto, quando lo stesso messaggio non sia distinguibile, dalle altre forme di comunicazione al pubblico, sulla base di elementi grafici di immediata percezione finalizzati a creare confusione presso i lettori in merito alla reale natura pubblicitaria dello stesso articolo, quali, ad esempio, l'indicazione dei giornalisti che hanno curato il servizio, l'impostazione tipografica del titolo e del sottotitolo, che rende il messaggio non distinguibile dagli altri articoli giornalistici, la suddivisione delle pagine e la loro numerazione (nella fattispecie, si trattava di un servizio giornalistico dedicato al fenomeno dell'incremento del consumo di un determinato tipo di acqua minerale "Acqua San Pellegrino" e all'abbinamento di questa con i diversi cibi). (Autorità Garante per la concorrenza, 03/05/2000, n.8261; PARTI IN CAUSA Acqua S. Pellegrino; FONTE Giust. Civ., 2001, I, 2862; RIFERIMENTI NORMATIVI DLT 25/01/1992 n.74 ; DPR 10/10/1996 n.627 ; DLT 25/02/2000 n.67 Art.2 ; DLT 25/02/2000 n.67 Art.7

 

La presentazione, nell'ambito di un filmato a carattere culturale (" Cultura news "), prodotto dalla Rai, di un'automobile della Fiat ("Barchetta "), senza alcuna informazione obiettiva e senza la comparazione con altre autovetture, presenta, indubbiamente caratteri promozionali, e gli indizi raccolti sono sufficienti ad individuare la natura di pubblicità ingannevole, anche in mancanza della prova del rapporto di committenza. (T.A.R. Lazio, Sez.I, 25/05/2002, n.4564; PARTI IN CAUSA Rai Tv C. Autorità garante concorrenza e mercato; FONTE Foro Amm. TAR, 2002, 1632).

 

Dà luogo a pubblicità ingannevole la presentazione di prodotti di bellezza (nella specie, maschere cosmetiche) inserita in un articolo a carattere giornalistico-informativo, quando manca un'informazione oggettiva, è carente la comparazione con altri prodotti similari e i prodotti sono descritti con toni enfatici e rassicuranti. (T.A.R. Lazio, Sez.I, 22/05/2002, n. 4563; PARTI IN CAUSA Soc. Mondadori ed. Soc. Arnoldo Mondadori ed. C. Autorità concorrenza e mercato Autorità garante concorrenza e mercato; FONTE Foro Amm. TAR, 2002, 1632).

 

A ragione si ravvisa uno scopo di pubblicità occulta in comunicazione diretta inequivocabilmente a influire sul comportamento economico dei consumatori, inserita in un periodico, in posizione idonea a farla apparire come riferibile al contenuto di un articolo firmato da giornalista, giacchè l'invocazione del diritto di informazione e di critica appare mero espediente a detrimento della difesa del consumatore, cui si ispira la disciplina sulla pubblicità. (T.A.R. Lazio, 28/03/2002, n.2638; PARTI IN CAUSA Soc. R.C.S. ed. C. Autorità garante concorrenzea e mercato Autorità garante concorrenza e mercato; FONTE Giur. di Merito, 2002, 1382).

 

Il provvedimento dell'autorità garante della concorrenza e del mercato che qualifica come pubblicità ingannevole un art. giornalistico, vietandone la diffusione, è impugnabile dall'autore del testo, ledendo sia il diritto morale d'autore, sia l'onore e la reputazione dello stesso. (T.A.R. Lazio, Sez.I, 27/06/2001, n.5724; PARTI IN CAUSA Gruppo ed. l'Espresso Gruppo l'Espresso ed. e altri C. Garante concorrenza mercato; FONTE Foro Amm., 2001).

 

La novità del prodotto, se può giustificare, con l'insorgere all'interesse di notiziarne il pubblico, il fatto che dello stesso sia data un'informazione di natura giornalistica e quindi oggettiva e neutrale, non autorizza però la stampa a farne pubblicità; pertanto se ne può informare il pubblico, in modo proporzionato allo spessore dell'interesse giornalistico alla segnalazione del prodotto, facendo buon uso del distacco, dell'atteggiamento critico e della sobrietà espressiva che contraddistinguono la comunicazione giornalistica rispetto alle comunicazioni con finalità propagandistica, con la conseguenza che è legittimo il provvedimento dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato che qualifichi come pubblicità ingannevole un articolo pubblicato sul quotidiano in cui l'effetto promozionale sovrasti quello informativo anche al cospetto di un prodotto munito di caratteristiche di una certa innovatività. (T.A.R. Lazio, Sez.I, 02/07/2001, n.5836; PARTI IN CAUSA Soc. La Repubblica ed. C. Garante concorrenza mercato; FONTE Foro Amm., 2001)

 

Tre inserti di “Oggi” censurati  anche dal Tar. Il Tar Lazio, con sentenza 28 marzo 2002 n. 2638,  ha ritenuto legittimo il provvedimento con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (“Antitrust”) ha ritenuto che i tre inserti - relativi rispettivamente ad una linea da bagno e a una T-shirt ("Linea Grigio Perla"), ad un prodotto dietetico ("Linea Break di Sant’Angelica") e a un trattamento estetico ("Miniformati Clinique") - pubblicati sul n. 26/95 del periodico "Oggi", nel contesto della rubrica fissa "Bellezza" e a fianco dell’articolo "Una guida per scegliere il deodorante più adatto", avevano una finalità promozionale, non riconoscibile da parte dei lettori in ragione dei caratteri e delle modalità grafiche di stampa (che non li distinguevano dall’articolo) e dell’inserimento in una rubrica fissa.

Questa le massime della sentenza elaborate dal sito giuridico www.giust.it diretto dal professor Giovanni Virga: 

1. Anche in un articolo giornalistico o in un inserto redazionale possono essere contenute informazioni su prodotti in commercio, informazioni che possono determinare indirettamente un effetto promozionale, senza che per questo muti la natura giornalistico-informativa di tale forma di comunicazione al pubblico. Tuttavia, quando la citazione del prodotto non è espressione disinteressata e indipendente del giornalista, ma è diretta ad influire sul comportamento economico dei consumatori, il messaggio deve conformarsi alla disciplina specifica in materia di pubblicità (d.lgs 25 gennaio 1992 n. 74) e l’invocazione del diritto di cronaca e di libertà di manifestazione del pensiero non valgono a derogare a tale disciplina.

2. La comunicazione rettificativa prevista dall’art. 7 del  Dlgs 25 gennaio 1992 n. 74 non ha natura sanzionatoria, ma ha lo scopo di ovviare alle conseguenze sui consumatori determinate dal messaggio pubblicizzato; tale esigenza, tuttavia, non viene meno solo perché la pubblicazione del messaggio sia cessata da tempo, sia perché l’effetto promozionale sul prodotto e sull’immagine dell’impresa non si esaurisce nel breve periodo, sia perché il messaggio pubblicitario contenuto in un periodico di capillare diffusione può rimanere per molto tempo nella disponibilità dei lettori/consumatori, sia perché quando si tratta di pubblicità occulta, la dichiarazione rettificativa sensibilizza il consumatore nei confronti dell’insidia costituita da comunicazioni che sotto l’aspetto di una informazione neutrale e disinteressata hanno una reale finalità commerciale.

Confermata la sanzione disciplinare inflitta dall’Ordine della Lombardia a una collaboratrice di "Oggi"

 

8. Tribunale di Milano: “La pubblicità ingannevole è slealtà del giornalista”.

Milano, 17 settembre 2001. Chi pubblica articoli, che nella sostanza sono pubblicità ingannevole, tiene un comportamento che "viola quel principio di lealtà nell'informazione cui (ex artt. 2 e 48 della legge professionale n. 69/1963) devono essere improntati i comportamenti del giornalista". Con questa secca motivazione la quinta sezione del Tribunale civile di Milano ha confermato la decisione del Consiglio nazionale che ha inflitto la sanzione disciplinare dell'avvertimento scritto alla giornalista professionista Caterina Vezzani, collaboratrice di "Oggi". La stessa ha pubblicato sul numero dell’11 ottobre 1995 di "Oggi" l’articolo "E lavarsi i denti è un gioco" nel quale la giornalista "non si limita a dare consigli per una più corretta igiene orale dei bambini, eventualmente segnalando ai lettori le novità presenti sul mercato dando così un corretto carattere divulgativo all'articolo, ma reclamizza in modo indiretto i prodotti della linea Mentadent. L’articolo è stato corredato da un foto che mette in evidenza in primo piano il dentifricio Mentadent e sullo sfondo tre spazzolini da denti a forma di ometti che stanno in piedi ed un ulteriore tubo di dentifricio, il tutto sempre della Mentadent pure in posizione verticale".

La decisione del Consiglio nazionale a sua volta aveva confermato quella del Consiglio dell’Ordine della Lombardia. La sentenza (n. 8010/2001) è stata adottata dal tribunale integrato da due giornalisti come giudici aggregati (Giulio Bianchi presidente; Roberto Portile e maria tetresa Brena, giudici; Renzo Magosso e Stefano Donarini, giornalisti giudici aggregati). Il Pm, Ada Rizzi, ha chiesto la conferma della sanzione. Il Consiglio della Lombardia è stato difeso dall’avvocato Remo Danovi; il Consiglio nazionale dagli avvocati Antonio Pandiscia e Cesare Lombrassa. Questi i passaggi centrali della sentenza:

MOTIVI DELLA DECISIONE. A seguito della sentenza della Corte d'Appello di Milano pronunciata in data 20.10.'00 con la quale veniva dichiarata la nullità della sentenza. n. 4031 resa dal Tribunale di Milano in data 23.3.00 per carenza del contradditorio, in quanto nel giudizio di primo grado non avevano partecipato pur essendo litisconsorti necessari il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti che ha adottato la decisione che qui si impugna ed il Consiglio Regionale per la Lombardia, e veniva contestualmente disposta la rimessione della causa al giudice di primo grado, le parti hanno proceduto alla riassunzione nei termini di cui agli artt. 353 e 354 Cpc e si sono reciprocamente costituite nei due giudizi riassunti e poi riuniti , pertanto di nessun pregio sono le osservazioni proposte dalla difesa della Vezzani in ordine alla carenza di legittimazione del Consiglio Regionale dell'Ordine poiché ex art. 156 Cpc terzo comma non può essere mai pronunciata la nullità se l'atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.

Venendo ora nel merito della decisione e cioè se debba o meno essere confermata la delibera del Consiglio nazionale dell'Ordine che respingendo il ricorso proposto dalla giornalista Caterina Vezzani ha confermato il provvedimento disciplinare dell'avvertimento scritto inflittole dal Consiglio Regionale, questo Collegio ritiene di dover ribadire la decisione già presa in primo grado e annullata per motivi meramente processuali, peraltro confermata invece nei confronti del direttore del giornale Paolo Occhipinti dalla sentenza della Corte d'Appello di Milano emessa in data 20.09.00 n. 24737/00.

Infatti non vi è dubbio che l’articolo redatto dalla Vezzani "E lavarsi i denti è un gioco" integri gli estremi della cosiddetta pubblicità ingannevole ai sensi degli arti. 1, comma 2.2, lettera b), ed in violazione dell'art. 4 comma 1 del Decreto Legislativo 25 gennaio 1992 n. 74 poiché in detto articolo la giornalista non si limita a dare consigli per una più corretta igiene orale dei bambini, eventualmente segnalando ai lettori le novità presenti sul mercato dando così un corretto carattere divulgativo all'articolo, ma reclamizza in modo indiretto i prodotti della linea Mentadent laddove scrive: .." poi un bel giorno, regalategli il SUO spazzolino, e il SUO dentifricio per esempio della linea Mentadent denti in Crescita studiata per i più piccoli..". Detto articolo è stato altresì corredato da un foto che mette in evidenza in primo piano il dentifricio Mentadent e sullo sfondo tre spazzolini da denti a forma di ometti che stanno in piedi ed un ulteriore tubo di dentifricio - il tutto sempre della Mentadent-pure in posizione verticale.

Con l'articolo in questione dunque si reclamizzano i prodotti della linea Mentadent per bambini, con un aspetto informativo, ingannando il lettore sulla reale portata promozionale del testo che è inserito nell'ambito di una pagina dedicata alla "bellezza", e graficamente circoscritto da un bordo a pallini che non può essere considerato idoneo ad attribuire natura pubblicitaria a detto inserto, poiché la suddetta connotazione grafica viene utilizzata nella stessa pagina anche per un altro articolo "C’è anche il dentifricio alla propoli".

Tale comportamento viola quel principio di lealtà nell'informazione cui ex artt. 2 e 48 legge n. 69/1963 devono essere improntati i comportamenti del giornalista, và quindi confermata la decisione del Consiglio Nazionale che inflitto la sanzione disciplinare dell'avvertimento scritto.

P. Q.M.

il Tribunale definitivamente pronunciando rigetta il ricorso proposto dalla giornalista Caterina Vezzani, accoglie viceversa il ricorso proposto dal Consiglio rgionale dei Giornalisti della Lombardia e per l'effetto conferma la decisione del Consiglio nazionale dell'Ordine dei Giornalisti emessa in data 3.11.'99.

 

9.  La prima sezione civile della Corte d’Appello di Milano conferma la sanzione inflitta dal Consiglio dell’Ordine di Milano a Caterina Vezzani: quando la pubblicità ingannevole si nasconde nell’invito dell’articolista a usare un determinato dentifricio.

La Corte d'Appello di Milano, prima Sezione Civile, ha pronunciato il 16 gennaio 2002 la seguente sentenza  vertente tra Caterina Vezzani e CONSIGLIO REGIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA, CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI, e con l'intervento del Sostituto Procuratore Generale dott. Giacomo Caliendo.

RILEVATO IN FATTO. La rivista "OGGI" pubblicava a pag. 116 del numero 41 dell' 11 ottobre 1995, nel contesto della rubrica "SALUTE", e della sotto-rubrica "BELLEZZA", un articolo dal titolo "I quattro segreti della perfetta igiene orale", accompagnato da due inserti collocati in riquadri delimitati da un bordo colorato a pallini, l'uno recante il titolo "C'è anche il dentifricio alla propoli" e l'altro intitolato "E lavarsi i denti diventa un gioco", quest'ultimo del seguente tenore letterale: "Piccoli segreti per «iniziare» i più piccini all'igiene orale. Cominciate con l'abituarli a sciacquarsi la bocca dopo aver mangiato un dolcino o una caramella. E puntate sul loro istinto di imitazione. Incuriositeli facendoli assistere sempre, alla fine di ogni pasto, alla vostra «operazione igiene orale». Poi, un bel giorno, regalategli il SUO spazzolino e il SUO dentifricio, per esempio della linea Mentadent denti in crescita, studiata per i più piccoli".

A lato del testo di quest'ultimo inserto risultava apposta un'immagine fotografica raffigurante tre spazzolini a forma di pupazzetti in piedi e due tubetti di dentifricio, uno in piedi ed uno orizzontale, tutti recanti la scritta "MENTADENT". Sotto l'immagine vi era la didascalia: "Linea orale per bambini".

Il Consiglio Regionale dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, assunte le informazioni del caso, promuoveva procedimento disciplinare nei confronti sia della giornalista autrice dell'articolo e degli inserti, Caterina Vezzani, sia del direttore della rivista, Paolo Occhipinti, per violazione delle norme deontologiche di cui agli artt. 2 e 48 della legge professionale 3 febbraio 1963, n. 69, rispettivamente nella parte in cui l'una impegna i giornalisti a promuovere la fiducia dei lettori nella stampa, e l'altro vieta i comportamenti atti a compromettere reputazione e dignità dell'ordine, o non conformi alla dignità ed al decoro professionale; ciò sul presupposto che nel caso concreto fosse stata posta in essere una fattispecie di pubblicità redazionale ingannevole (ex artt. 1, secondo comma, e 2, lettera b, D.Lgs. n.74/1992) indirizzata a promuovere con tono suadente, non in modo palese e riconoscibile, in un ambito apparentemente informale e didascalico, la vendita di un prodotto commerciale.

All'esito del procedimento disciplinare, esperita la fase istruttoria, veniva inflitta ai due incolpati, con provvedimento emesso in data 9 settembre 1996, la sanzione dell'avvertimento scritto (ex art.52 della legge n.69/1963), che, a seguito di ricorso per impugnativa proposto dalla signora Vezzani e dal sig. Occhipinti, veniva confermato anche dal Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti con delibere rispettivamente assunte in data 3.11.1999 e in data 31.11.1999.

Avverso le stesse i due giornalisti proponevano separati ricorsi avanti al Tribunale di Milano, che li rigettava con sentenza n.4031 in data 23/30 marzo 2000.

Impugnata tale decisione alla Corte d'Appello di Milano questa rigettava l'impugnativa del sig. Occhipinti con sentenza (ormai definitiva) n.2473 del 20.9/13.10.2000, mentre con sentenza n. 2370 del 20.9/3.10.2000 accoglieva in rito l'impugnativa della sig.ra Vezzani, dichiarando la nullità della gravata pronuncia per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del CONSIGLIO REGIONALE e del CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI, ritenuti quali litisconsorti necessari.

Riassunto il procedimento innanzi al Tribunale milanese sia dalla sig.ra Vezzani, che dal CONSIGLIO REGIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA, il Tribunale, con sentenza n.8010 emessa in data 6.7.2001, depositata in data 12.7.2001 e notificata in data 6.9.2001, ha rigettato il ricorso della prima ed accolto il ricorso del secondo, confermando conseguentemente la decisione sanzionatoria assunta dal CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI in data 3.11.1999.

Per la declaratoria di nullità o per la riforma di tale decisione ha interposto gravame avanti a questa Corte la sig.ra Vezzani con ricorso depositato il 13 ottobre 2001; si è costituito i1 CONSIGLIO REGIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA resistendo all'impugnativa e proponendo a sua volta appello incidentale.

È rimasto contumace il CONSIGLIO NAZIONALE. La Procura generale ha concluso per la reiezione del ricorso. La Corte, sentite le parti all'odierna udienza camerale, si è riservata di decidere.

RITENUTO IN DIRITTO. La ricorrente censura l'impugnata decisione perché assertivamente carente di adeguata e logica motivazione:

1) in ordine all'elemento soggettivo del dolo;

2) alla sussunzione della concreta fattispecie nel concetto di pubblicità ingannevole;

3) alla ritenuta sussistenza di una pubblicità redazionale di tale natura;

4) alla ricorrenza di presunzioni gravi, precise e concordanti volte a dimostrare l'effettiva ricorrenza di un messaggio pubblicitario redazionale. Infine, la sentenza sarebbe affetta da nullità perché:

5) pronunciata con la partecipazione di un componente non togato, il giornalista Penzo Magosso, il quale, avendo già fatto parte del collegio giudicante che aveva emesso la sentenza n.4031 del 2000 dichiarata nulla dalla Corte d'Appello, avrebbe avuto l'obbligo di astenersi dal decidere per incompatibilità ex art.51, n.4 CPC, come espressamente contestato dalla ricorrente già in prime cure con eccezione però disattesa dal Tribunale.

Ritiene questa Corte che nessuno dei prospettati motivi di impugnativa sia fondato.

Cominciando dall'ultimo, in ragione del suo carattere pregiudiziale in rito, deve osservarsi che, anche ammesso che la partecipazione del giornalista chiamato ad integrare il collegio giudicante quale membro "laico" ex art.63 legge n.69/1963 consenta o imponga di applicare al medesimo le ipotesi di astensione obbligatoria contemplate per i magistrati ordinari dall'art.51 CPC, e ciò sulla base di un'interpretazione estensiva e logica della suddetta norma non infondatamente ipotizzata dalla ricorrente in ragione della sua ratio (cui parrebbe in effetti ripugnare - alla stregua della comune finalità di garantire l'imparzialità del giudice - qualunque discriminazione basata sulla natura "togata" o "non togata" dei componenti del collegio), tuttavia ciò non sarebbe comunque sufficiente per considerare rilevante in casu la dedotta ricorrenza di un obbligo di astensione, non avendo la ricorrente proposto formale istanza di ricusazione in primo grado.

È infatti opinione giurisprudenziale ormai consolidata quella secondo cui l'inosservanza da parte del giudice dell'obbligo di astensione, nelle ipotesi previste dall'art. 51 C.P.C., determina la nullità del provvedimento adottato solo nell'ipotesi in cui il giudice abbia un "interesse proprio e diretto" nella causa, tale da porlo nella veste di parte del processo in violazione del criterio "nemo iudex in causa sua", mentre in ogni altra ipotesi la violazione dell'art. 51 assume rilievo solo quale motivo di ricusazione, rimanendo esclusa, in difetto della relativa istanza, qualsiasi incidenza sulla regolare costituzione dell'organo giudicante e sulla validità della sentenza, con la conseguenza che la mancata proposizione della istanza di ricusazione in parola, nel rispetto delle modalità e dei termini stabiliti nell'art. 52 C.P.C., preclude la possibilità di far valere tale vizio in sede di impugnazione, quale motivo di nullità del provvedimento ai sensi dell'art. 158 C.P.C. (ex multis, fra le più recenti, Cass. 10 gennaio 2000, n.155; Cass. 16 luglio 1999, n.7504; Cass. 25 maggio 1999, n. 5072; Cass. 7 maggio 1999, n.4584; Cass. 23 aprile 1998, n. 4187; Cass. 10 ottobre 1997, n. 9857).

Quanto agli ulteriori motivi con i quali la gravata decisione viene censurata nel merito, quello riguardante la pretesa carenza di motivazione in ordine all'elemento soggettivo del dolo appare ictu oculi destituito di giuridico fondamento, posto che, com'è noto, per la imputabilità dell'infrazione disciplinare non è in generale necessaria - in mancanza di specifiche norme che la prevedano - la intenzionalità dell'azione (consapevolmente ritenuta illegittima) sub specie di dolo generico o specifico, ma è sufficiente la pura e semplice volontarietà con la quale sia stato compiuto l'atto deontologicamente scorretto: ogni atto volontario e cosciente, obiettivamente contrario ai doveri di condotta gravanti sul professionista, è quindi suscettibile di sanzione disciplinare (per l'affermazione del principio in fattispecie analoghe cfr. Cass. 26 gennaio 1999, n.698; Cass. 3 maggio 1996, n.4091; Cass. S.U. 18 marzo 1992, n.3358; ma v. anche tra le decisioni degli ordini professionali soprattutto Cons. Nazionale Forense, 10 dicembre 1999, n. 257, in Rass. forense 2000, 590; Cons. Nazionale Forense, 9 dicembre 1999, n. 246, in Rass. forense 2000, 588; Cons. Nazionale Forense, 8 novembre 1996, in Rass. forense 1997, 554).

Né risulta che le norme ritenute violate dalla ricorrente contemplino lo speciale requisito del dolo ai fini della sussistenza delle contestate infrazioni.

L'art. 2, terzo comma, della legge professionale recita infatti:

"Giornalisti e editori sono tenuti (...) a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori."

A sua volta 1'art.48, primo comma, stabilisce che:

"Gli iscritti nell'albo, negli elenchi o nel registro, che si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionali, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell'Ordine, sono sottoposti a procedimento disciplinare ".

Come si vede, in tali norme non si fa alcuna menzione limitativa con riferimento all'elemento soggettivo, che pertanto, secondo le regole generali, potrà consistere anche nella semplice colpa, nelle sue ben note forme sintomatiche, o comunque nella mera consapevolezza e volontarietà dell'azione.

Nel caso di specie, peraltro, non sembra davvero discutibile che la giornalista Vezzani fosse, o comunque dovesse essere, ben consapevole del carattere pubblicitario ingannevole del suo articolo oltre che del fatto che di conseguenza, potesse risultarne incrinato il rapporto fiduciario con i lettori e compromessi il decoro e la dignità della professione.

Quanto alla conoscenza (implicita) del carattere pubblicitario dell'articolo, è appena il caso di rimarcare che tale carattere non è seriamente discutibile visto che, invitando i lettori a far uso (ovviamente previamente acquistandoli) di alcuni prodotti della linea "MENTADENT", la giornalista null'altro faceva che reclamizzarli, e sarebbe del tutto incongruo ipotizzare che di tale finalità pubblicitaria fosse inconsapevole proprio la giornalista che intendeva perseguirla.

La ricorrente ha peraltro esplicitamente dichiarato, nel corso dell'istruttoria esperita in fase disciplinare, di aver impostato lei stessa l'intera pagina, e di aver fornito lei stessa la foto posta a lato dell'articolo, ammettendo di ben sapere che sarebbe stata pubblicata; foto il cui carattere pubblicitario non solo è del tutto evidente, visto che in essa erano raffigurati i prodotti "MENTADENT", ma emerge per il fatto stesso che si trattava di una foto evidentemente realizzata o commissionata dalla stessa azienda produttrice.

La ricorrente, peraltro, pur assumendo in tesi che la natura del suo articolo fosse esclusivamente informativa, ha argomentato anche che, qualora si fosse davvero trattato in casu di una promozione pubblicitaria, nulla avrebbe dimostrato che essa non fosse del tutto palese e invece occulta o ingannevole, e questa tesi subordinata ella ha peraltro prospettato anche con riferimento alle altre censure formulate avverso la parte motiva della gravata pronuncia.

Riguardo a questo profilo - che nell'ottica del gravame avrebbe rilievo assorbente - la Corte non può che richiamare, facendolo proprio, quanto è stato già statuito con propria sentenza n.2473 del 2000 con cui è stata respinta l'analoga impugnativa proposta dal sig. Occhipinti, Direttore della rivista "OGGI".

Si è ivi osservato che il testo dell'inserto in questione solo nella prima parte - come gli altri articoli collocati nella stessa pagina, di cui era parimenti autrice la giornalista Caterina Vezzani - aveva carattere divulgativo di nozioni utili per assicurare l'igiene orale, mentre laddove invitava all'uso (e quindi ancor prima all'acquisto) dei prodotti "MENTADENT" menzionati nel testo, e poi anche raffigurati nella fotografia d'accompagnamento, non forniva alcuna informazione sulle qualità e caratteristiche di essi, limitandosi a nominare, con tono suadente, i prodotti medesimi, e quindi a reclamizzarli. Se è vero poi che gli spazzolini raffigurati nella fotografia presentavano la peculiarità di essere inseriti su un piccolo piedistallo, che consentiva il loro appoggio "in piedi", è altrettanto vero che della peculiarità stessa non vi era alcuna menzione nell'articolo e, comunque, i tubetti di dentifricio - prodotto di cui pure si parlava nel testo - nella fotografia non presentavano alcuna peculiarità di cui potesse ipotizzarsi l'utilità di divulgazione tra il pubblico dei lettori-consumatori.

Allo stesso modo l'invito all'uso dei prodotti "MENTADENT" non è stato accompagnato da nessuna motivazione atto a giustificarlo, eventualmente mediante confronto con altri prodotti.

Si è trattato, dunque, come ha giustamente ritenuto il Tribunale, senz'altro di un messaggio pubblicitario, perdippiù ingannevole in quanto, in concreto, percepibile come tale con difficoltà dal pubblico dei lettori, proprio in quanto inserito senza alcuna avvertenza - e quindi surrettiziamente, ingannevolmente - nel contesto di articoli di carattere informativo.

Non è dubbio infatti che la prima parte dell'articolo in discussione, quanto gli altri articoli della stessa pagina, avessero carattere e finalità dichiaratamente informative e non promozionali.

I caratteri grafici dell'inserzione, di cui è stata accertata la natura meramente pubblicitaria, erano gli stessi impiegati per le informazioni fornite nella stessa e nelle altre pagine della rivista ed erano differenti da quelli utilizzati per le inserzioni scopertamente pubblicitarie contenute nella rivista medesima.

Da ultimo, il bordo colorato a pallini dell'inserto di cui si tratta non era percepibile dal lettore come segno distintivo della sua natura pubblicitaria, dato che identica bordatura era utilizzata per altro articolo nella stessa pagina (quello intitolato "C'e anche il dentifricio alla propoli") e in altre pagine della rubrica "OGGI IN FAMIGLIA", di cui faceva parte la sotto-rubrica "Bellezza", nella quale fu pubblicato l'inserto de quo.

Niente poteva dunque suggerire al lettore che l'articolista ad un certo punto dismetteva la sua veste informativa, per assumere quella di agente promozionale.

La conclusione appare peraltro in linea con l'orientamento interpretativo finora espresso anche dall' AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO che perdippiù, con riferimento agli artt.l, 2 e 4 del D.Lgs. 25 gennaio 1992, n.74, non senza ragione ha considerato pubblicità ingannevole proprio quella realizzata con l'articolo "E lavarsi i denti diventa un gioco", di cui giustappunto ora si discute (v. provvedimento n.3618 in data 15 febbraio 1996).

La ricorrente sostiene peraltro che il Tribunale non avrebbe adeguatamente valutato la critica che ella già aveva rivolto al provvedimento disciplinare emesso dal CONSIGLIO NAZIONALE, laddove questo avrebbe illogicamente motivato la sussistenza del carattere dell'ingannevolezza, avendo da una parte ritenuto che la natura pubblicitaria dell'inserto fosse "lampante ", e dall'altra che la reclamizzazione fosse "ingannevole ", quindi in certo senso occulta.

A parte il fatto che l'intenzione trasparente dell'organo disciplinare non era quella di considerare la pubblicità come "manifesta", ma solo di evidenziare come il carattere promozionale dell'inserto fosse innegabile e quindi comprovato (in tal senso dovendo intendersi l'aggettivo "lampante"), è poi decisiva la considerazione che il carattere ingannevole comunque nella specie sussistesse, per le ragioni appena dette, restando per ciò stesso priva di rilievo la censura della ricorrente limitata al solo aspetto formale della motivazione adottata in parte qua dall'organo disciplinare.

L'appellante sostiene poi che il Tribunale, pur accogliendo la tesi accusatoria secondo cui l'articolo in esame realizzava una forma di pubblicità redazionale, non avrebbe in alcun modo motivato sulla base di quali indizi gravi, precisi e concordanti potesse reggersi tale affermazione, prova necessaria in mancanza della dimostrazione di un rapporto di committenza tra l'impresa e la giornalista.

Osserva la Corte che, se è vero che, mancando la prova di un rapporto di committenza, la natura di pubblicità redazionale dell'articolo può (o deve quanto meno) essere desunta sulla base di elementi presuntivi, è innegabile che non solo essi ricorressero nella concreta fattispecie, ma anche che il Tribunale li abbia adeguatamente, anche se succintamente, individuati.

Si tratta d'altronde degli stessi elementi che nel caso concreto concorrevano ad integrare il concetto di pubblicità ingannevole, ossia il fatto che nell'articolo fosse stata menzionata espressamente la marca dei prodotti, fosse stata data pubblicità agli stessi anche tramite una esplicita immagine fotografica evidentemente realizzata o commissionata dalla stessa impresa produttrice, il tutto nel contesto di un articolo in cui vi era una consapevole commistione-confusione tra parte informativa e parte promozionale, senza che potesse in qualche misura diminuire l'effetto ingannatorio la pretesa finalità di "giornalismo di servizio" dell'articolo, finalità che, per potersi considerare sussistente in ragione della supposta utilità del fornire notizie su prodotti commerciali, nel caso di specie avrebbe quanto meno richiesto la doverosa indicazione delle specifiche caratteristiche dei prodotti, con i loro pretesi pregi e difetti, la loro ipotetica novità, eventualmente anche sulla base di un esame comparativo con prodotti affini.

Ma nulla di tutto questo è dato rinvenire nell'articolo di cui si discute.

Non può quindi dubitarsi che, come ha ritenuto il CONSIGLIO NAZIONALE e poi anche il Tribunale, la pubblicità occulta ed ingannevole realizzata con l'inserto incriminato abbia comportato una compromissione della reputazione della giornalista che ne è stata l'autrice e della intera categoria professionale, incrinando al contempo il rapporto fiduciario con i lettori.

Per le ragioni esposte, in conformità con le conclusioni del P.G., l'impugnazione della ricorrente-appellante deve essere respinta.

Quanto all'appello incidentale del resistente CONSIGLIO REGIONALE, esso, invece, appare meritevole di accoglimento.

Infatti il Tribunale, ancorchè il predetto CONSIGLIO REGIONALE avesse esplicitamente richiesto la rifusione delle spese di lite, ha omesso del tutto di provvedere, laddove invece la soccombenza della ricorrente Vezzani ne doveva determinare, così come anche ora ne determina, la condanna in via meramente consequenziale ai sensi dell'art.91 C.P.C.

Ella dovrà pertanto rifondere le spese di lite sostenute dall'appellato CONSIGLIO REGIONALE per entrambi i gradi di giudizio (parzialmente riformandosi sul punto la decisione di primo grado) nella misura che, per brevità, viene direttamente liquidata in dispositivo, tenuto conto del valore della controversia, della qualità e quantità delle questioni trattate e dell'attività complessivamente svolta dai difensori.

Irripetibili devono invece dichiararsi le spese verso il contumace CONSIGLIO NAZIONALE.

P. Q. M.

La Corte d'Appello di Milano, Prima Sezione Civile, definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa domanda ed eccezione, così provvede:

1) respinge l'appello proposto da Caterina Vezzani;

2) accoglie l'appello incidentale proposto dal CONSIGLIO REGIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI DELLA LOMBARDIA e per l'effetto, in parziale riforma della sentenza n.8010 emessa dal Tribunale di Milano in data 6.7.2001 e depositata in data 12.7.2001, condanna la ricorrente-appellante Caterina Vezzani alla rifusione delle spese di lite sostenute in primo grado dal predetto CONSIGLIO REGIONALE, liquidate in complessive £. 5.133.500 pari ad Euro 2.651,23 (di cui £.1.133.500 per esborsi e £. 4.000.000 per diritti ed onorari), oltre ai competenti oneri fiscali e previdenziali;

3) condanna altresì la ricorrente-appellante Caterina Vezzani alla rifusione delle spese di lite sostenute dal predetto CONSIGLIO REGIONALE nel presente grado di giudizio, liquidate per tale fase in complessive £. 5.844.500 pari ad Euro 3.018,43 (di cui £.844.500 per esborsi e £. 5.000.000 per diritti ed onorari), oltre ai competenti oneri fiscali e previdenziali;

4) dichiara irripetibili le spese di lite verso il contumace CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI.

 

10. La prima sezione civile della Corte d’Appello di Milano confermata la sanzione della censura a Marisa Deimichei: nei casi di commistione pubblicità-informazione il direttore ha il dovere di rendere pubblico almeno il dissenso dalle scelte dell’Ufficio marketing.

Sanzione della censura per la giornalista professionista Marisa Deimichei, direttore responsabile della rivista “Starbene” (Mondadori), che dovrà pagare le spese processuali (4mila euro) al Consiglio nazionale (difeso dall’avv. Gianfranco Garancini) e al Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (difeso dall’avv. Remo Danovi). E’  la sentenza  n. 1827/2003 della prima sezione civile della Corte d’appello di Milano, che ha confermato la sanzione inflitta il 10 novembre 1996 dall’Ordine di Milano, il 20 marzo 2002 dall’Ordine nazionale e poi il 24 ottobre 2002 dal Tribunale civile di MIlano. In sostanza la Corte d’Appello  ha affermato la responsabilità soggettiva della Deimichei per culpa in vigilando in merito a due casi di pubblicità ingannevole (con riferimento a due inserti della Bayer inseriti nei numeri 26 e 27/1996 della rivista Starbene). “Marisa Deimichei  quantomeno avrebbe potuto evidenziare – scrivono i giudici -  il proprio dissenso all'ufficio marketing, già in relazione al numero 26 ed a maggior ragione laddove l'episodio si ripeteva con il n.27 (della rivista Starbene), essendo fatto grave che un direttore responsabile tolleri che nella pubblicazione da lui diretta siano inseriti, non solo dépliants separatamente aggiunti, ma anche pagine che vadano a formare un corpo unico con la rivista stessa, senza esercitare in alcun modo quel controllo che il ruolo svolto rigorosamente impone. La sig.ra Deimichei avrebbe avuto l'onere di intervenire presso l'editore e/o presso l'ufficio marketing e/o presso l'ufficio diffusione periodici., con un ventaglio di possibilità, che andavano dalla richiesta più drastica di bloccare la distribuzione a quella più lieve di semplice segnalazione de1 proprio dissenso. Al contrario non ha ritenuto di intervenire in alcun modo ed in questa inerzia non può che ravvisarsi una sua grave omissione. Né poteva legittimamente temere di esporsi in modo pericoloso nei confronti dell'editore (dato e non concesso che un simile timore rappresenti un'esimente o un’attenuante alla propria responsabilità) posto che nei suoi confronti avrebbe avuto facile gioco limitandosi a rappresentare le già ricevute proteste della redazione e del fiduciario sindacale”.

Si legge ancora nella sentenza: “Sembra quindi grave alla Corte che la Direttrice, pur messa sull'avviso già per il numero 26 (quando probabilmente neppure questo era ancora stato distribuito, come lascerebbe supporre quanto riferito dalla teste Alberti), non avesse chiaro neppure se il numero in questione fosse destinato alle sale d'aspetto dei medici, ovvero ai farmacisti. Va rilevato poi a tal proposito che anche in quest'ultimo caso la distribuzione non era cosa di poco conto, posto che si trattava di circa 16/17.000 copie, pari a circa il 10% del totale distribuito per ciascun numero e che in ogni caso è fatto notorio che anche nelle farmacie le riviste vengono messe a disposizione del pubblico, tanto vero che l'iniziativa si inseriva ‑ non certo a caso ‑ nell'operazione denominata waiting room".

Non essendo stato ancora distribuito il n. 27 della rivista – si legge nella sentenza - la direttrice avrebbe potuto intervenire, se non a bloccarne la distribuzione ‑ cosa che, quantomeno a livello di tentativo, avrebbe dovuto dimostrare di aver fatto ‑ almeno a far aggiungere nelle fascette di distribuzione (che pure erano previste, vedi il già citato documento 6), o con un avviso aggiunto in altra forma, che le otto pagine interne erano destinate ad un'iniziativa pubblicitaria”.

 

11. Sentenza della seconda sezione civile della Corte d’Appello accoglie le ragioni di Franco Abruzzo e Roberto La Pira (difesi dall’avvocato Remo Danovi). Occhipinti perde in appello: corretto il titolo di Tabloid  "Basta marchette, per favore".

La Corte di appello di  Mano, sezione seconda civile, riunita in camera di consiglio il 9 gennaio 2002, ha pronunciato la seguente sentenza nella causa civile promossa da  Roberto La Pira e  Franco  Abruzzo contro  Paolo  Occhipinti.

Svolgimento del processo. Il tribunale di Milano così riassume il fatto: «Con atto di citazione notificato il 13 ed il 14 giugno 1997 il dottor Paolo Occhipinti conveniva in giudizio il dottor Franco Abruzzo ed il dottor Roberto la Pira, rispettivamente direttore responsabile del periodico ufficiale dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia "Ordine Tabloid" ed autore dell'articolo intitolato "Basta marchette, per favore" apparso sulla prima pagina del numero di novembre-dicembre 1996 della pubblicazione e chiedeva che fosse accertata e dichiarata la illiceità di un articolo perché diffamatorio e denigratorio nei suoi confronti, con conseguente condanna dei due convenuti al risarcimento dei danni morali e materiali patiti, che quantificava in L. 100 milioni ovvero nella misura ritenuta equa dal giudicante, nonché alla corresponsione della riparazione pecuniaria di cui all'art. 12 legge stampa; chiedeva inoltre la pubblicazione dell'emananda sentenza sul periodico indicato e sul quotidiano Il Sole 24 Ore».

Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 9294/99, depositata il giorno 18/10/1999, dichiarava che l'articolo a firma di Roberto La Pira apparso sull'edizione di "Tabloid" del novembre-dicembre 1996 dal titolo "Basta marchette, per favore" contiene dichiarazioni diffamatorie nei confronti di Paolo Occhipinti; condannava i convenuti al risarcimento dei danni subiti dall'attore, liquidati in Lit. 30 milioni, in moneta attuale, nonché al versamento dell'importo di Lit. 10 milioni a titolo di riparazione pecuniaria, can gli interessi legali dalla domanda al saldo; disponeva la pubblicazione del dispositivo della sentenza su "Tabloid" e sul quotidiano "Il Sole 24. Ore" per una sola volta ed a caratteri di stampa normali; poneva a carico dei convenuti le spese di lite.

Avverso la sentenza proponevano appello Roberto La Pira e Franco Abruzzo chiedendone la riforma per i motivi oggetto di separata disamina.

Instauratosi il contraddittorio, Paolo Occhipinti resisteva al gravame chiedendone il rigetto, con conferma dell'impugnata sentenza.

La causa, precisate le conclusioni come in epigrafe, veniva trattenuta in decisione all’udienza collegiale del 18/9/01.

Motivi della decisione. La parte appellante lamenta che il Tribunale ha erroneamente valutato il contenuto dell'articolo incriminata ed ha ingiustamente accolta la domanda avversaria di risarcimento danni da diffamazione a mezza stampa.

Deduce al riguardo l'appellante che il Tribunale ha erroneamente escluso che l'articolo per cui è causa costituisca legittimo esercizio da parte di Roberto La Pira del diritto di critica nei confronti di articoli definiti "pubbliredazionali" perché "di carattere apparentemente informativo, ma sostanzialmente promozionali" in guanto "realizzano in maniera occulta e ingannevole un servizio di natura pubblicitaria e contengono in effetti ugualmente messaggi pubblicitari fatti passare per informazione"; che tale commistione tra pubblicità e informazione, oltre ad essere in contrasto con la normativa sulla pubblicità ingannevole (Decreto Legislativa n.74/92), "è particolarmente preoccupante per la stessa libertà e indipendenza dell'informazione", tant'è che è vietata dalla normativa deontologica del giornalista e dall'art. 44 del CCNL; che della correttezza del messaggio pubblicitario deve rispondere anche il direttore del giornale nell'esercizio dei suoi compiti professionali; che l'Ordine dei giornalisti della Lombardia, nell'esercizio dei propri compiti istituzionali, si é sempre battuto por "contrastare il dilagante fenomeno in atto di presenza su quotidiani e periodici di un'informazione inquinata da interferenza della pubblicità", anche con esposto alla magistratura; che anche il La Pira, in proprio, quale consumatore, "si è sempre battuto contro la commistione tra pubblicità e informazione", segnalando i "messaggi scorretti o mascherati all'Autorità garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) per l’adozione degli opportuni provvedimenti";che numerosi esposti del La Pira hanno condotto a delibere sanzianatorie emanate dall'Antitrust in relazione ad articoli redazionali, sostanzialmente pubblicitari, camparsi in rubriche del periodico "Oggi" diretto da Paola Occhipinti; che l'appellato por tale fatto è stato sanzionato in sede disciplinare con l'avvertimento scritto dal Consiglio dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia in data 16/6/96 unitamente ad una giornalista autrice degli articoli incriminati, comparsi nel predetto periodico" nella setto-rubrica "Bellezza", a sua volta inserita nella, rubrica "Salute"; che tale provvedimento è stato confermato in data 3/11/99 dal Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti che ha respinto i ricorsi degli incolpati ritenendo gli articoli incriminati una forma lampante di pubblicità non trasparente, lesiva della credibilità del giornale e del rapporto di fiducia con i lettori, di "sicura rilevanza deontologica giacché si viene a ledere quel principio di lealtà dell'informazione cui, ex artt. 2 e 48 l. n. 69/63, devono essere improntati i comportamenti del giornalista e ancor più del direttore"; che in questo contesto deve essere inquadrata la vicenda per cui è causa che trae origine dalla pubblicazione "sul numero di novembre-dicembre 1996 del periodico "Ordine-Tabloid", organo ufficiale del Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti" dell'orticolo incriminato "Basta marchette, per favore", inserito in un più ampio discorso giornalistico teso a contrastare la commistione tra pubblicità e informazione: che tale articolo "era diretto in generale contro alcune forme di malcostume e scadimento della dignità professionale nell'attività giornalistica" e, "nell'ambito dell'argomento pubblicità-informazione, oggetto delle critiche di La Pira erano le pagine salute di "Oggi", un servizio apparso su "Gioia" e l'inserto "Salute" de "La Repubblica"; che il Tribunale ha erroneamente escluso l’esercizio nel caso di specie del "diritto di critica", oltre che "di cronaca", perché il La Pira "non soltanto riferiva ai lettori in ordine alla problematica degli articoli "inquinati" dalla pubblicità di prodotti commerciali e, più in generale, della pubblicità ingannevole e occulta", ma criticava, in un periodico diretto agli "addetti ai lavori", anche "il giornalismo asservito alle esigenze preminenti del mercato e della pubblicità, informando di avere personalmente più volte segnalato all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato casi di messaggi pubblicitari mascherati rinvenuti su vari giornali, tra cui Oggi, Gioia e La Repubblica"; che "mentre la cronaca è una esposizione di fatti e il suo scopo è informare il lettore, per cui deve essere fondata sulla più scrupolosa obiettività, la critica consiste invece in un'attività eminentemente valutativa, in un dissenso o in un consenso, per lo più ragionato, rispetto alle opinioni e/o alle condotte altrui", con "limiti scriminanti più ampi"; che la sentenza del Tribunale ha omesso di considerare che i £atti narrati dal La Pira sono oggettivamente veri, entrando macroscopicamente in contraddizione con quella parte della decisione dove, invece, si da atto della verità delle segnalazioni al Garante a carico del periodico "Oggi" e delle conseguenti sanzioni dell'Antitrust, della condanna disciplinare a carico dell'Occhipinti, nonché della pubblicazione di un comunicato di dissenso della direzione del settimanale circa la valutazione operata dall'Antitrust; che erroneamente il Tribunale "ha negato che possa corrispondere a verità ed esattezza la presentazione di Paolo Occhipinti come responsabile delle scelte censurate", ritenendo provato, alla luce delle acquisizioni probatorie nel procedimento disciplinare, che i direttori sono costretti a subire queste scelte imposte dall'editore attraverso i responsabili della pubblicità; che il "subire" non può certamente costituire una scriminante verso comportamenti "gravemente illeciti e supportati solo da interessi di carattere economico" evitabili dal direttore del settimanale attraverso l'esercizio delle sue funzioni e dei suoi campiti previsti dal CCNL;. che, con sintesi giornalistica appropriata e carretta, il La Pira ha ricordato nel citato articolo che l’Occhipinti, ha nella sostanza respinto le argomentazioni e le decisioni dell'Antitrust, pubblicando il comunicata di dissenso sopra menzionato e proseguendo ulteriormente nell'illegittima attività di commistione tra informazione e pubblicità; che, dalla documentazione versata in atti, si evince che "Roberto La Pira ha presentato svariate segnalazioni anche contro altri giornali per articoli contenenti pubblicità ingannevole" e che il settimanale Oggi è stato colpito da denunce per questi comportamenti non solo da parte di La Pira, ma anche di altri soggetti; che i fatti sopra ricordati sano di interesse pubblico e sono stati esposti con sostanziale continenza anche dal punto di vista formale, attesa la natura della critica esercitata, non solo verso l'Occhipinti, mai peraltro menzionato direttamente, ma anche nei confronti di soggetti diversi dal dirottare di Oggi; che la definizione di "falsi articoli".si riferisce appropriatamente "ai cosiddetti redazionali contenenti pubblicità mascherata", come facilmente comprensibile dal pubblico dei lettori "addetti ai lavori"; che l'espressione "marchette" risulta utilizzata nel titolo, senza alcuna volontà diffamatoria nei confronti specificamente dell'Occhipinti; che tale espressione "fare marchette" "è ormai entrata nel linguaggio corrente e non riveste alcun carattere specifico di offensività"; che si deve pertanto ritenere insussistente la lesione dell'onore e della reputazione dell'appellato, ritenuta invece ingiustamente nella sentenza in oggetto; che, quindi, nulla può legittimamente essere addebitato anche al direttore di Tabloid, Franco Abruzzo, tenuto conto della natura dell'orticolo incriminato e del contesto nel quale è stato pubblicato; che, infine, erroneamente il Tribunale ha accolta in misura eccessiva la domanda avversaria di risarcimento del danno, peraltro inammissibile per la sua indeterminatezza.

Osserva la Corte che la complessa doglianza che precede è fondata e deve essere accolta, con conseguente integrale riforma della sentenza impugnata.

Osserva la corte che il Tribunale ha erroneamente ritenuto che l'articolo a firma di Roberto La Pira, apparso sull'edizione di "Tabloid" del novembre-dicembre 1996 dal titolo "Basta marchette, per favore" contiene dichiarazioni diffamatorie nei confronti di Paolo Occhipinti, con conseguente responsabilità dell'autore e del direttore responsabile della rivista Franco Abruzzo.

Invero l'articolo in oggetto, pubblicato su di una rivista diretta esclusivamente agli "addetti ai lavori", com'è pacifico agli atti, non contiene alcuna frase diffamatoria nei confronti dell'Occhipinti perché il La Pira si è limitato a riferire ai lettori, in modo veritiero, in merito alla sua battaglia contro la pubblicità mascherata, esprimendo nel contempo la sua critica rispetto agli articoli in questione, di apparente contenuto informativo, ma in sostanza di carattere pubblicitario.

Osserva la Corte che la motivazione della sentenza di primo grado è contraddittoria laddove, dopo avere ritenuto sussistente uno specifico interesse per i lettori di Tabloid di conoscere i fatti per cui è causa e dopo avere affermato che "i singoli fatti riferiti (le otto pronunzie dell'Autorità garante a carico di Oggi e la pubblicazione di un comunicato di dissenso della direzione del giornale) sono oggettivamente veri" (vedi pagg. 6/7 della sentenza appellata), ha poi ritenuto non carretta e veritiera "la presentazione dell'attore crome responsabile delle scelte censurate" e inesistente il contestato "rigetto" da parte dell'Occhipinti delle decisioni dell'antitrust. Invero non vi è alcun dubbio sul fatto che gli articoli incriminati siano stati pubblicati sul settimanale Oggi con il sostanziale accordo del suo direttore Occhipinti, al quale la legge e il CCNL attribuisce appunto il compito di decidere in merito agli articoli da inserire nel giornale. D'altra parte l'Occhipinti si é espressamente assunto la responsabilità della decisione in oggetto quando ha pubblicato sul numero del 29/1/97 del settimanale in questione il "Comunicato della Direzione di Oggi" (vedi fascicolo dell'attore) can il quale ha contestato la decisione dell'Autorità Garante della Concorrenza in relazione al box relativo al prodotto "Fard Facile Deborah", pubblicato nel precedente numero del 20/3/96, "definito dal Garante messaggiopubblicitario" infatti in questo comunicato la Direzione di Oggi afferma, in contrasto con il provvedimento del Garante che "quanto pubblicato era un vero articolo giornalistico" e che "i testi della rubrica sulla bellezza, così come di tutte le altre rubriche e articoli del nostro settimanale, sono frutto di libera scelta giornalistica non condizionata.da alcun intervento da parte dell'Editore a degli inserzionisti pubblicitari".

Appare evidente quindi che, contrariamente a quanto erroneamente affermato dal Tribunale, risponde a verità "la presentazione dell'attore come responsabile delle scelte censurate" e che non è corretto il riferimento del giudice di primo grado a "scelte imposte dall'editore attraverso i responsabili della pubblicità", riferimento peraltro fondato su dichiarazioni rese da altri direttori di giornali sentiti nel corso del procedimento disciplinare a carico dell'Occhipinti. Osserva sul punto la Carte che, comunque, anche se si ritenesse provata l'esistenza delle pressioni in oggetto, non potrebbe comunque non ritenersi veritiera "la presentazione dell’attore come responsabile nelle scelte censurate" perché la responsabilità degli articoli pubblicati sul settimanale in questione non può non ricadere sul suo direttore responsabile che, per la carica assunta, risponde per legge e per contratto di quanto pubblicato; che erroneamente il Tribunale ha ritenuto inesistente il contestato "rigetto" da parte dell'Occhipinti delle decisioni dall'Antitrust in quanto il contenuto del "Comunicato della Direzione di Oggi" sopra citato rappresenta con ogni evidenza un sostanziale "rigetto" della decisione dell'Antitrust, non condivisa dall'Occhipinti che l'ha ritenuta ingiusta; che del tutto irrilevante al riguarda è la considerazione, esposta dalla difesa dell'appellato, relativa al fatto che nel procedimento davanti all'Antitrust è parte solo l'Editore e non il Direttore del settimanale che, comunque, è il responsabile legale della pubblicazione incriminata.

Osserva ancora la Corte che erroneamente il Tribunale ha ritenuto che "già a partire dal titolo il La Pira abbia superato il limite della stretta funzionalità delle espressioni usate ad esprimere il suo pensiero, con il chiaro intento di offendere i colleghi che, al contrario di lui, si prestano al gioco della pubblicità mascherata; invero il riferimento alle "marchette", contenuto nel titolo dell'articolo incriminato, costituisce una felice sintesi giornalistica, già. altrove utilizzata (vedi doc. n. 33 parte appellante, relativa al convegno internazionale del 1993 – organizzato dall’Ordine dei giornalisti di Roma - su "Notizie Pulite - Giornalisti tra "marchette" e "manette"), per individuare e criticare comportamenti ritenuti deontologicamente non corretti dal La Pira, tra cui quelli relativi alla pubblicazione dei "pubbliredazianali" in oggetto, apparentemente di carattere informativo, ma in sostanza di contenuto pubblicitario, come affermato anche dal Garante; che l'espressione incriminata non significa, come affermato dalla difesa dell'Occhipinti, che il predetto abbia "ricevuto soldi dalle aziende" i cui prodotti sano stati pubblicizzati, ma solo che, a giudizio del La Pira, confortata sul punto dalle richiamate decisioni del Garante, questi articoli contengano pubblicità mascherata da informazione e, quindi, sono contaminati da esigenze diverse da quelle puramente informative.

Osserva, infine, la Corte che erroneamente il Tribunale afferma che il Direttore di Oggi è l'unico ad essere "individuato" quale responsabile di questa pubblicità occulta, in quanto, nell'articolo incriminato vengono esposte critiche al riguardo anche nei confronti di altre testate e di altri direttori, come giustamente evidenziata dalla difesa degli appellanti che, con il riferimento ai "falsi articoli" e alla stucchevole ostinazione di alcuni direttori, il La Pira ha semplicemente affermato che, nonostante le sue denunce, la pubblicazione di articoli - "falsi" perché contenenti in sostanza pubblicità e non informazione - è continuata, come si evince anche dalla presenza di altri esposti contro il settimanale in oggetto e di altre decisioni dell'Antitrust al riguardo, documentata dalla parte appellante; che, peraltro, l'appellato non ha contestato specificamente che questa attività, lecita a suo giudizio, come si evince dal richiamato "Comunicato", sia continuata anche dopo gli esposti del La Pira; che, quindi, anche le espressioni ora richiamate non integrano alcuna diffamazione, come invece erroneamente ritenuto dal Tribunale.

La sentenza impugnata deve pertanto essere riformata in toto, con conseguente rigetto della domanda dell'attore, erroneamente accolta dal Tribunale.

Non può, invece, essere accolta la domanda degli appellanti di condanna dell'Occhipinti alla restituzione della somma di Lit. 47.471.360, complessivamente corrisposta per la provvisoria esecuzione della decisione di primo grado, perché questo importo, come da documentazione in atti (vedi doc. n. 31, con gli allegati, fascicolo parte appellante), risulta essere stata pagata dal Consiglio Regionale della Lombardia dell'Ordine dei Giornalisti (Lit. 40 milioni in favore dell'Occhipinti e Lit.7.471.360 in favore del suo legale avv. Carlo Bovio) e non dagli odierni appellanti che, quindi, non sono legittimati al riguardo.

L'appellato, rimasto sostanzialmente soccombente, deve essere condannato alla rifusione, in favore della controparte, di tutte le spese di lite del giudizio, liquidate, tenuto conto della natura e del valore della causa e dell'entità delle questioni trattate, nella misura precisata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello avanzato da Roberto La Pira e Franco Abruzzo contro la sentenza del Tribunale di Milano n. 9294/99, nei confronti di Paolo Occhipinti, ogni diversa istanza eccezione e deduzione disattesa, così provvede:1) accoglie l'appello e, per l'effetto, in totale riforma dell'impugnata sentenza, rigetta la domanda dell'attore, erroneamente accolta dal Tribunale:

2) condanna l'attore-appellato Paolo Occhipinti a rimborsare alla parte convenuta-appellante tutte le spese del giudizio, spese che, per il primo grado, si liquidano in complessive Lit. 6.140.000 (euro 3171,05), di cui Lit.440.000 per spese, Lit. 2.200.000 per diritti e Lit. 3.500.000 per onorario e, per il giudizio di appello, si liquidano in complessive Lit. 8.132.000 (euro 4199,83), di cui Lit. 1.944.000 per spese, Lit. 2.188.000 per diritti e Lit. 4.000.000 per onorario.

 

12. Consiglio OgL su giornaliste "attrici pubblicitarie" e  su contenitori pubblicitari che mescolano inserzioni e articoli funzionali alle inserzioni.

12.1. Il Consiglio ha sanzionato due giornaliste, che si sono prestate a trasformarsi in “attrici” pubblicitarie. Gli strateghi del marketing aziendale ritengono oggi che il messaggio pubblicitario sia più incisivo e penetrante se è presentato da un giornalista all’interno di una trasmissione televisiva di cui lo stesso giornalista è un protagonista di prestigio. Il Consiglio ha costantemente affermato che esiste una strategia precisa secondo la quale la pubblicità deve presentarsi come informazione, cioè con il volto e la firma dei giornalisti. Si punta a collocare il messaggio pubblicitario in maniera sempre più diretta all'interno dell'informazione. Non c'è niente di meglio che far recitare lo spot pubblicitario a una giornalista, che lavora con il suo volto e il suo nome all'interno della trasmissione stessa. Questa strategia finisce per inquinare la figura del giornalista professionista.

La nuova frontiera della pubblicità, che sta invadendo l'informazione, mette in discussione l'autonomia professionale del giornalista con ricadute lesive sull’immagine del giornalista, dell’Ordine e della professione. La confusione dei ruoli crea quel clima negativo che limita l’autonomia professionale, perché elimina il confine morale tra informazione e pubblicità. Confine morale che (in passato e in molti casi) è saltato quando telecronista e teleoperatore di concerto decidono di inquadrare i messaggi pubblicitari cartellonistici posti all’interno di un campo di calcio, lungo il percorso di una corsa ciclistica o di una gara automobilistica.

Le giornaliste sanzionate hanno violato l’obbligo di esercitare "in modo esclusivo e continuativo" la professione (articolo 1, comma 3, della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica). Questo assunto può ammettere eccezioni nel senso di svolgere attività gratuite volte alla promozione dei diritti umani, della solidarietà e dell’ambiente, che sono "principi fondamentali" della nostra Carta costituzionale. Prestare il nome, la voce, l’immagine per iniziative pubblicitarie realizza di per sé una attività incompatibile con la tutela dell’autonomia professionale, perché determina una violazione dell’obbligo di esercitare "in modo esclusivo e continuativo" la professione. I principi della Carta dei doveri vanno letti dentro l’articolo 1 della legge professionale. Chi si trova in questa situazione pone in essere comportamenti che recano una ferita alla propria dignità, alla dignità della professione giornalistica e dell’Ordine al quale appartiene. Nell’ordinamento giornalistico lo spartiacque pubblicità-informazione è un principio morale ineludibile da parte degli iscritti gelosi della loro autonomia e della loro credibilità "esterna". Il giornalista non solo deve essere, ma deve anche apparire corretto. L’articolo 2 della legge n. 69/1963 protegge il comportamento "interno" ("l’essere") della professione, mentre l’articolo 48 tutela la proiezione "esterna" ("l’apparire") della professione: il come gli altri percepiscono l’immagine del giornalista attraverso i suoi comportamenti pubblici.

12.2. I contenitori pubblicitari che mescolano inserzioni e articoli funzionali alle inserzioni. La commistione pubblicità/informazione appare una risposta miope e sbagliata da parte degli editori, che non si pongono il problema di difendere anche l’immagine delle testate, della professione giornalistica e dei loro redattori. Nessuno avversa la pubblicità, ma la si vuole soltanto corretta. Il Consiglio non può (sentenza n. 11/1968 della Corte costituzionale) e non intende giudicare gli articoli, che accompagnano spesso le inserzioni pubblicitarie. Gli articoli sono estranei al giudizio disciplinare, ma sono e appaiono funzionali alla pubblicità ospitata nel "contenitore" (il caso specifica riguarda il “Corriere della Sera”).

Il Consiglio ha ritenuto che l’editore del "Corriere della Sera" abbia tenuto una condotta illecita tale da generare una responsabilità civile poiché "la violazione delle norme interne della categoria professionale è sufficiente per qualificare il fatto compiuto come ingiusto" (in tal senso sentenza del Tribunale di Udine del 23 febbraio 1998 in Resp. civ. prev., 1998, 1500). L’esistenza di un fatto ingiusto obbliga al risarcimento del danno ex art. 2043 del Codice Civile. Conseguentemente il Consiglio ha deliberato di agire in sede giudiziaria civile  contro l’editore del "Corriere della Sera" per le responsabilità emerse a suo carico nel corso dell’istruttoria nonché di sottoporre in futuro all’esame del Tribunale civile di Milano eventuali analoghi comportamenti di altri gruppi editoriali lombardi. Il Consiglio ha deliberato di agire contro altri editori che mescolano inserzioni ed articoli, arrecando danni incalcolabili all’immagine della professione giornalistica.

 

13. Conclusioni. Corte d’Appello di Milano: “Il giornalista deve essere e deve apparire corretto” - Dall’ordinamento emerge che il giornalista è tenuto ad essere e ad apparire corretto così come il giudice deve essere e deve apparire indipendente. Una massima giurisprudenziale racchiude la norma comportamentale appena enunciata: "Oltre all'obbligo del rispetto della verità sostanziale dei fatti con l'osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, il giornalista, nel suo comportamento oltre ad essere, deve anche apparire conforme a tale regola, perché su di essa si fonda il rapporto di fiducia tra i lettori e la stampa" (App. Milano, 18 luglio 1996; Riviste: Foro Padano, 1996, I, 330, n. Brovelli; Foro It., 1997, I, 938).                                                            

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Appendice - 1

Contratto nazionale di lavoro giornalistico Fnsi-Fieg

Art. 44. Rapporto tra informazione e pubblicità

Allo scopo di tutelare il diritto del pubblico a ricevere una corretta informazione, distinta e distinguibile dal messaggio pubblicitario e non lesiva degli interessi dei singoli, i messaggi pubblicitari devono essere chiaramente individuabili come tali e quindi distinti, anche attraverso apposita indicazione, dai testi giornalistici.

Gli articoli elaborati dal giornalista nell'ambito della sua normale attività redazionale non possono essere utilizzati come materiale pubblicitario.

I testi elaborati dai giornalisti collaboratori dipendenti da uffici stampa o di pubbliche relazioni devono essere pubblicati facendo seguire alla firma l'indicazione dell'organizzazione cui l'autore del testo è addetto quando trattino argomenti riferiti all'attività principale dell'interessato.

I direttori nell'esercizio dei poteri previsti dall'art. 6, e considerate le peculiarità delle singole testate, sono garanti della correttezza e della qualità dell'informa-zione anche per quanto attiene il rapporto tra testo e pubblicità. A tal fine i direttori ricevono periodicamente i pareri dei comitati di redazione.

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Appendice - 2

Carta dei doveri del giornalistica (1993):

Messaggi pubblicitari devono  sempre

e comunque distinguibili dai testi giornalistici”

“I cittadini hanno il diritto di ricevere un'informazione corretta, sempre distinta dal messaggio pubblicitario e non lesiva degli interessi dei singoli. I messaggi pubblicitari devono essere sempre e comunque distinguibili dai testi giornalistici attraverso chiare indicazioni. Il giornalista è tenuto all'osservanza dei principi fissati dal Protocollo d'intesa sulla trasparenza dell'informazione e dal Contratto nazionale di lavoro giornalistico; deve sempre rendere riconoscibile l'informazione pubblicitaria e deve comunque porre il pubblico in grado di riconoscere il lavoro giornalistico dal messaggio promozionale”.

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Appendice - 3

Tribunale civile di Milano: divulgabili

le decisioni disciplinari dell’Ordine

 

 REPUBBLICA ITALIANA, IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI MILANO, SEZIONE 1° CIVILE

La dott. MARIA ROSARIA GROSSI, in funzione di giudice unico, ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al numero di ruolo generale sopra riportato, promossa con atto di citazione notificato in data 12 settembre 1996 a ministero dell'aiutante ufficiale giudiziario addetto alla Corte d'Appello di Milano

da ANDREA MONTI, rappresentato e difeso dall'avv. Corso Bovio, presso lo studio del quale in Milano, via Podgora, n° 13, é elettivamente domiciliato per delega in calce all'atto di citazione - attore

contro

FRANCO ABRUZZO, BRUNELLO TANZI, GABRIELE MORONI, ANNIBALE CARENZO, FLAVIO DOLCETTI, GIAN LUIGI FALABRINO, tutti rappresentati e difesi dall'avv. Remo Danovi e dall'avv. Umberto Gragnani, presso il cui studio in Milano, viale Lazio, n. 8, sono elettivamente domiciliati per delega in calce alla comparsa di risposta

convenuti

 

OGGETTO: Risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa.

 

All'udienza fissata per la precisazione delle conclusioni i procuratori delle parti così

CONCLUDEVANO;

Per l’attore: come da atto di citazione

Per i convenuti: come da foglio allegato

CONCLUSIONI PER I CONVENUTI

Piaccia al Tribunale Ill.mo,

ogni contraria istanza, eccezione e deduzione respinta,

previe le più opportune declaratorie,

respingere tutte le domande avversarie in quanto inammissibili ed infondate in fatto e in diritto, per i motivi esposti in narrativa.

Con il favore delle spese ed onorari del giudizio.

In via istruttoria subordinata, e senza inversione dell'onere della prova, si chiede l'ammissione dei seguenti capitoli per interrogatorio formale e per testi:

1) Vero che il giorno 19 giugno 1996 è stata consegnata al difensore del Dott. MONTI copia del provvedimento del Consiglio depositato nella stessa data e nella stessa mattinata è stata data allo stesso difensore notizia informale della decisione;

2) Vero che fin dalla costituzione dell'ordine, nel 1965, le decisioni del Consiglio sono affisse alla bacheca e disponibili presso la segreteria, e pubblicate sulla Rivista Tabloid e lo stesso Consiglio emette un comunicato-stampa al riguardo.

Si indicano a testi:

- ELISABETTA GRAZIANI, Milano;

- EMILIO POZZI, Milano.,

Con riserva di altri indicarne.

Salvo ogni altro diritto.

Svolgimento del processo. Con atto di citazione notificato il 12 settembre 1996 Andrea Monti conveniva in giudizio Franco Abruzzo, Brunello Tanzi, Gabriele Moroni, Annibale Carenzo, Flavio Dolcetti e Gian Luigi Falabrino ed esponeva:

- di essere direttore responsabile del settimanale 'Panorama';

- di essere stato sottoposto a procedimento disciplinare - per pubblicità redazionale - dal Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia per aver pubblicato sulla copertina della rivista una fotografia della modella Carla Bruni, nuda in sauna con una scarpa, e, all'interno, un servizio sulla modella stessa, in cui si faceva riferimento a Cesare Paciotti, stilista e produttore della calzatura;

- di essere stato riconosciuto colpevole 'di un fatto tale da compromettere la sua reputazione' e colpito con la sanzione dell'avvertimento scritto;

aggiungeva che, ancor prima della notifica presso lo studio del difensore, il provvedimento era stato trasmesso dall'Ordine dei giornalisti ai principali organi di informazione ed alle agenzie di stampa. Chiariva poi che il provvedimento recava l'ordine di pubblicazione su 'Tabloid', organo dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia; diffidato dal difensore dell'attore ad attendere la pronunzia dell'organo di seconda istanza, il Consiglio decideva di procedere ugualmente alla pubblicazione; lamentando il grave danno derivatogli dalla intempestiva pubblicazione del provvedimento disciplinare inflittogli, chiedeva che fosse accertata e dichiarata la illiceità 'della divulgazione del comunicato stampa 20.6.1996, della delibera 16.7.1996 e della pubblicazione della delibera 19.6.1996 su Tabloid luglio-agosto 1996', con conseguente condanna di tutti i convenuti al risarcimento del danno, patrimoniale e non, nella misura di L. 50.000.001, o in quella diversa misura determinata equitativamente, oltre la rivalutazione monetaria e gli interessi legali.

I convenuti si costituivano ritualmente in giudizio e chiedevano la reiezione delle avverse domande, sostenendo che il Consiglio dell'Ordine aveva respinto con ampia motivazione la diffida dell'avv. Bovio, richiamando i principi del diritto-dovere dei giornalisti di procedere ad una corretta informazione sul comportamento dei propri iscritti nonché quello della trasparenza, al quale doveva essere uniformata la sua attività di ente pubblico. Chiarivano poi che le decisioni del Consiglio, una volta depositate in segreteria ed affisse; sono pubbliche e possono essere divulgate nell'interesse di tutti gli iscritti. Eccepivano poi la propria carenza di legittimazione passiva, essendo il comportamento contestato riferibile direttamente al Consiglio dell'Ordine. Nel merito rivendicavano la legittimità del comportamento del Consiglio stesso e rilevavano la indeterminatezza della domanda di risarcimento, non avendo l'attore indicato elementi utili ad individuare l'an ed il quantum debeatur.

Precisate le conclusioni dalle parti così come riportate in epigrafe, la causa veniva rimessa in decisione.

Motivi della decisione. I difensori delle parti hanno, con dotte motivazioni, esteso a dismisura il thema decidendum, che appare invece al giudicante possa essere agevolmente circoscritto alla liceità (o illiceità) della pubblicazione di un provvedimento effettivamente assunto dal Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti - Consiglio regionale della Lombardia.

Non v'é spazio per ipotizzare una risposta negativa: il Consiglio dell'Ordine è organo preposto alla sorveglianza ed alla disciplina dei suoi iscritti ed i suoi provvedimenti sono, e devono essere, per loro natura e per la natura dell'ente che li emana, accessibili a tutti. Aver comunicato alla stampa nazionale il provvedimento completo ed averlo pubblicato su 'Tabloid' non costituisce certo comportamento illecito, lesivo dei diritti del Monti.

Meraviglia che le censure muovano da chi ha fatto dell'informazione il proprio impegno quotidiano e dovrebbe quindi ben sapere che l'interesse del pubblico alla corretta e completa informazione su tutto ciò che riguarda la vita 'pubblica' in genere, ivi comprese le vicende relative ai giornalisti, che della vita 'pubblica' sono gli interpreti ed i veicoli primi, deve sempre e comunque prevalere sul diritto del singolo, chiunque esso sia, alla riservatezza.

Corre poi obbligo di rilevare come la comunicazione della decisione (peraltro confermata in secondo grado) sia stata particolarmente completa, esauriente e corretta. La notizia é stata data senza il minimo commento, ma tutti gli elementi, di accusa e di difesa, sono stati puntigliosamente riportati, sia nel comunicato alla stampa che nell'articolo apparso su Tabloid.

Complesse e numerose sono le altre questioni sottoposte a questo giudice. Come, ad esempio, la legittimazione passiva dei convenuti, i quali sono le persone fisiche (consiglieri) che hanno assunto non già la delibera che irrogava la sanzione e disponeva la pubblicazione del proprio provvedimento su Tabloid, ma quella successiva che respingeva la diffida alla pubblicazione dell'avvocato Bovio. Se può concordarsi sulla responsabilità personale dei componenti dell'organo collegiale autore dell'illecito, non può non sorgere qualche dubbio in ordine alla ricollegabilità dei danni lamentati dal Monti alla seconda e non alla prima delibera.

Ancora, circa la natura e l'entità dei danni riportati dal Monti, che in assenza di un fatto-reato non possono che essere danni patrimoniali, non può non osservarsi come egli non abbia, effettivamente, fornito alcun elemento che consenta di determinarne la natura e l'entità. Strana, poi, la doglianza dell'attore circa la lesione al suo (preteso) diritto alla presunzione di innocenza e a non vedersi irrogata una sanzione (derivante dal discredito ricollegabile alla pubblicazione) prima dell'accertamento definitivo dell'illecito contestatogli. Forse varrebbe la pena che riflettesse se non sia anche suo costume comportarsi così, quando, come tutti i giornali, quello da lui diretto pubblica notizie di condanne non definitive, nella convinzione - peraltro fondata - di adempiere ad un dovere e di esercitare un diritto costituzionalmente garantito.

Gli stessi rilievi valgono per i consiglieri convenuti: essi si sono limitati, nel massimo rispetto dei diritti del Monti e con la massima correttezza, a riferire al pubblico, che certamente ne aveva tutto l'interesse, una notizia vera.

Pertanto, alla luce delle considerazioni esposte, deve concludersi per la piena liceità del comportamento dei convenuti.

Ne consegue il rigetto di tutte le domande proposte dall’attore e la condanna di questi alla rifusione delle spese di lite, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

il Tribunale, definitivamente decidendo, così provvede:

respinge le domande tutte proposte dall'attore

condanna

lo stesso alla rifusione delle spese di lite che si liquidano in L. 159.700 per spese, L. 3.650.000 per diritti e L. 4.500.000 per onorari, oltre I.V.A. e 2% CP.

 

Milano, 10 luglio 1998

 

Il Giudice unico

Maria Rosaria Grossi

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Appendice – 4

Pressante appello dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ai direttori responsabili di quotidiani, periodici, Tg e radiotg

 

La pubblicità mascherata uccide l’informazione

 

Milano, 19 novembre 1997 - Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha deliberato (nella seduta del 10 novembre 1997) di richiamare, con una lettera, l’attenzione dei direttori responsabili, dei vicedirettori, dei capiredattori centrali e dei capicronisti dei giornali (scritti, parlati e televisivi) editi nella regione sul problema della commistione pubblicità-informazione. Questo il testo dell’appello:

E’ dilagante su quotidiani e periodici la presenza di un'informazione inquinata da interferenze della pubblicità. <Ordine Tabloid> (n. 4/1997) ha ospitato una sintesi dei 29 provvedimenti emessi dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con i quali ha giudicato ingannevoli alcuni messaggi pubblicitari apparsi su noti periodici delle maggiori case editrici. In realtà, ha stabilito l’Antitrust, <i messaggi pubblicitari vantano caratteristiche del prodotto inesistenti, inducendo i consumatori in errore sui risultati che con l’uso degli stessi si possono ottenere>. Il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha pertanto deciso, nella seduta del 27 ottobre 1997, di rivolgere un pressante appello ai direttori responsabili, ai vicedirettori, ai capiredattori, aia capicronisti di quotidiani e periodici nonché ai Cdr perché sia rispettato l'articolo 44 del vigente Contratto nazionale di lavoro (che ha forza di legge con il Dpr n. 153/1961), articolo che impone la separazione tra informazione e pubblicità. L'articolo 44, introdotto nel 1988, traduce una "delibera di indirizzo" (del 20 novembre 1986) di questo Consiglio che, richiamandosi ai principi etici della professione (articoli 2 e 48 della legge 3.2.1963 n. 69), invita i giornalisti a rafforzare soprattutto il rapporto di "fiducia tra la stampa e i lettori" e a osservare sempre "i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede".

Considerato che il malessere è avvertito nei quotidiani ma soprattutto in molti periodici dove ha raggiunto, in talune testate definite "di servizio", aspetti che eliminano di fatto qualsiasi margine di demarcazione fra notizia e messaggio pubblicitario, l'Ordine della Lombardia richiama tutti i giornalisti, direttori soprattutto, al dovere di esercitare la professione al di fuori di possibili condizionamenti, in piena libertà di giudizio e di scelta, nel solo intento di informare onestamente il lettore, secondo coscienza.

Di fronte all'affiorare di un asserito nuovo sistema in base al quale si vorrebbe contrabbandare per informazione giornalistica il messaggio pubblicitario, giustificandolo con un'esigenza della società dei consumi e del sistema economico, l'Ordine dei Giornalisti della Lombardia respinge i tentativi di snaturare il giornalismo con cortine fumogene entro le quali si annidano propaganda di prodotti e interessi aziendali. Il potere soverchiante della pubblicità ha raggiunto in taluni casi livelli aberranti influenzando la politica editoriale fino a rendere le testate deteriori veicoli di propaganda commerciale oppure veri e propri cataloghi.

La pubblicità deve essere chiara, palese, esplicita e riconoscibile: deve esserlo soprattutto la pubblicità chiamata, con espressione impropria, "redazionale". Il giornalista incaricato di redigere i servizi cosiddetti redazionali può legittimamente opporre il suo rifiuto: qualora aderisca a tale incarico deve esigere che il testo risulti presentato con caratteristiche grafiche che lo distinguano dai normali servizi e notiziari, salvaguardando così la dignità dell'intero corpo redazionale. Da parte sua il direttore deve astenersi dall'esigere che il giornalista rediga testi destinati a finalità pubblicitarie o, peggio ancora, mascheranti l'intento mercantile perché si verrebbe in tal modo ad istituzionalizzare un rapporto inquinato fra messaggio e notizia. Deve essere osteggiato e vanificato ogni degenerato uso dei canali informativi. Il giornalista ha diritto di difendere la propria identità professionale esposta a insidie equivoche e ad ambigue e talvolta grossolane forme di pressione.

E' interesse di tutti che questi limiti non vengano superati e che eventuali cedimenti siano comprovati e denunciati. La lealtà verso il lettore impone che il lavoro giornalistico e quello pubblicitario rimangano separati e inconfondibili. I tentativi di travestimenti, di mistificazioni, di mescolanze diventano un inganno per il lettore come pure ingannevole deve considerarsi qualsiasi forma di pubblicità occulta che più di tutto va combattuta e respinta perché è degenerativa della qualità dell'informazione. L'Ordine regionale dei giornalisti respinge tuttavia fermamente le infiltrazioni, anche consapevoli, dell'industria dei consumi nella stampa e sollecita l'Ordine nazionale, la Federazione della Stampa Italiana e la stessa Federazione Editori ad affrontare il problema in modo che i criteri qualitativi del lavoro giornalistico non possano essere sopraffatti dalla logica commerciale, per il prestigio della funzione della stampa e per evitare il collasso dei consumatori-lettori frastornati dall'euforia trionfalistica del messaggio pubblicitario selvaggio.

L'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, nel rilanciare e nel ribadire l'attualità dei contenuti delle "delibere di indirizzo" del 20 novembre 1986 e del 1° aprile 1996, si ripromette di operare perché la categoria giornalistica rovesci l'attuale condizione mortificante e consideri il presente documento un appello a tutti gli appartenenti all'Albo. I casi emergenti di inquinamento continueranno ad essere presi in considerazione, in sede disciplinare, sotto il profilo dell'articolo 2 e dell'articolo 48 della legge professionale. L'articolo 2 prescrive il rispetto della persona umana e quello della verità sostanziale dei fatti, l'osservanza dei doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede e la promozione della fiducia fra la stampa e i lettori. L'articolo 48, invece, tutela il decoro professionale e la dignità dell'Ordine e prevede l'apertura di procedimento disciplinare quando gli iscritti si rendono colpevoli di fatti che compromettono la reputazione e il prestigio dell'Ordine stesso.

La distinzione tra messaggi pubblicitari e testi giornalistici è una regola che figura adesso anche nella <Carta dei doveri del giornalista> firmata l’8 luglio 1993 dall’Ordine nazionale e dalla Fnsi con la precisazione che <il pubblico deve essere comunque posto in grado di riconoscere il lavoro giornalistico dal messaggio promozionale>. Anche la legge n. 223/1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato dice all’articolo 8 che <la pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere distinta dal resto dei programmi con mezzi ottici o acustici di evidente percezione>.

La responsabilità del direttore emerge anche dalla legge 633/1941: il direttore è, infatti, <autore dell’opera collettiva dell’ingegno> che è il giornale o il periodico. Il Consiglio osserva che un giornalista, sia redattore o direttore, non può ignorare le norme sancite dal legislatore a tutela dei consumatori (e dei lettori) e soprattutto il principio che <la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta> (articolo 1, comma 2, del Decreto legislativo 25 gennaio 1992 n. 74). Il direttore è da considerare responsabile della correttezza del messaggio pubblicitario in quanto, come ha stabilito questo Consiglio, <è tenuto per legge a controllare (anche) i testi pubblicitari> che appaiono sul giornale al fine, come nei casi condannati dall’Antitrust, di evitare che i lettori siano ingannati dai messaggi pubblicitari spacciati in maniera truffaldine per articoli. Questo comportamento è un tradimento della professione giornalistica. Il Consiglio agirà con la massima fermezza per fare rispettare le leggi della Repubblica.