inserito in Diritto&Diritti nel novembre 2001

La  legge sammarinese sull’arbitrato (18 marzo 1999 n. 34 “Dell’arbitrato”): alcuni profili negoziali

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di Simone Arcangeli

"Avvocato e Notaio in San Marino"
indirizzo email:
avv.arcangeli@omniway.sm

 

I    L’arbitrato nell’ordinamento sammarinese;

II   Profili negoziali dell’arbitrato: il compromesso e la clausola compromissoria:

A.   L’autonomia contrattuale del compromesso e il suo oggetto;

B.   Gli istituti affini:

La transazione;

Il mandato;

L’arbitraggio,

La perizia contrattuale;

La conciliazione;

C.    La clausola compromissoria;

I

L’ARBITRATO NELL’ORDINAMENTO SAMMARINESE

            ”L’arbitrato costituisce uno strumento, alternativo alla giurisdizione ordinaria, di definizione delle controversie insorte tra due o più parti, che rientrano nella competenza dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria in base alla legge e che riguardano diritti disponibili”[1].

Non è dato rinvenire, nell’ambito dello ius proprium sammarinese[2], altra definizione generale dell’arbitrato[3], oltre a quella prevista dall’art. 1 della Legge 18 marzo 1999 n. 34 .

Questi si caratterizza, quindi, per essere uno strumento volto ad una giustizia alternativa a quella somministrata dal giudice statale ordinario, nelle materie che l’ordinamento giuridico sammarinese riserva alla competenza di quest’ultimo.

I diritti su cui si controverte debbono rientrare nella disponibilità delle parti.

Si noti che il legislatore sammarinese, al momento di cristallizzare l’istituto in una definizione necessariamente angusta, ha opportunamente evitato qualsiasi accenno ai termini contratto o procedimento (ed ai loro sinonimi), lasciando agli articoli 2 e 3 riguardanti il compromesso e la clausola compromissoria, il compito di evidenziarne l’originaria natura pattizia, mentre la “fase procedimentale” ha inizio, in pratica, con l’art. 4: “Sede dell’arbitrato”.

Nella dialettica dei profili negoziali e processuali di cui è permeato l’istituto[4], deve rinvenirsi il tratto più saliente e caratterizzante l’arbitrato.

Tale peculiarità permette inoltre, come vedremo, di differenziare piuttosto nettamente l’arbitrato da figure giuridiche considerate “affini”, prima fra tutte la transazione.

Una breve ricognizione delle definizioni legislative e dottrinali dell’istituto (che riflettono evidentemente le inclinazioni e le formazioni personali dei compilatori o degli studiosi che si sono “affaticati” sul tema) permetterà di illuminare appieno la sua natura “ibrida”.

L’art. 1103 del Codice di Procedura Civile per gli Stati di S. M. il Re di Sardegna del 20 novembre 1859 descrive il compromesso come “ il contratto col quale due o più persone rimettono la decisione di una loro controversia a giudici (nel senso di privati) da esse eletti, che chiamansi arbitri”[5].

Il giudizio arbitrale, ossia la giurisdizione eccezionale degli arbitri, trova il suo giuridico fondamento nella volontà delle parti.

Sottolinea le “antiche origini convenzionali dell’istituto” (in riferimento tuttavia alla Rubrica LX del libro II delle Leges Statutae Reipublicae Sancti Marini “De compromissis”), la decisione per presa d’atto del Consiglio Grande e Generale del 21 ottobre 1996 nel parere emesso dalla professoressa Adriana Campitelli, sul ricorso per querela nullitatis nella causa civile n. 259 dell’anno 1994.[6]

Al contrario, pone la sua attenzione al momento rituale, un eminente processualista come Elio Fazzalari, il quale, nella monografia dedicata all’arbitrato,[7] lo definisce come “processo di natura privatistica”.

Una felice sintesi storica dei profili negoziali e processuali connessi alla dinamica dell’arbitrato può essere rinvenuta nel citato Parere per “querela nullitatis” emesso dalla professoressa Adriana Campitelli, la quale, confermandone l’origine pattizia rileva tuttavia “il carattere processuale che il provvedimento per arbitri assume con la sua speditezza di giudizio, con le sue regole di tempi e di modi di svolgimento e con la precisa configurazione anche alla pronuncia definitiva sulla controversia e sui modi di impugnazione”[8].

La cosiddetta “processualizzazione” dell’arbitrato è infatti un fenomeno piuttosto risalente[9]. I primi segni si ebbero, appunto, con le figure di arbitrato necessario (l’ arbitrage forcè delle Ordinnances Reali francesi)[10]  contemplate negli Statuti comunali del XVI secolo e con la giurisprudenza consulente del periodo, che prese ad oggetto del suo interesse il compromesso necessario: ma questa linea interpretativa soltanto dopo la Rivoluzione francese conquistò spazio prevalente[11].              

Fu Roberspierre nel Discors sur l’institution dell’arbitrage tenuto alla Convenzione nel 1793, uno di primi interpreti che si opposero alla citata tendenza: il suo voto contro l’istituzione dell’arbitrage forcè (non decisivo: il codice di commercio francese del 1807 avrebbe poi previsto per le controversie tra società commerciali, il ricorso obbligatorio all’arbitrato) rappresentò il tentativo di lasciare “alla libertà individuale tutto ciò che non appartiene per sua natura all’autorità pubblica”[12].      

E l’origine dell’arbitrato è in effetti da ricercare nel diritto naturale[13]. Autori come il Fazzalari[14], ne evidenziano l’autonomia dal collegamento con i singoli ordinamenti giuridici statali, autonomia “intesa non come margine di libertà concessa e regolata dallo Stato, ma come capacità di determinarsi e organizzarsi a prescindere dalle sue leggi”[15].

Il riferimento alla derivazione di diritto naturale dell’istituto non è di ostacolo per la ricerca della sua ratio, pure nei casi nei quali, “la giustizia arbitrale emerge nell’ordinamento dello Stato”.[16]

La tendenza all’aggancio con gli ordinamenti statali, muove dall’esigenza delle parti anche nel caso in cui queste siano “coaudiuvate” ed operino all’interno di una qualche struttura organizzativa, spesso tuttavia non fornite di potestà coattive di premunirsi per l’ipotesi che sia necessario ricorrere alla forza di ordinamenti sovrani, al momento dell’esecuzione della voluntas arbitrale.

Come si può desumere dalla Relazione Pisanelli al disegno del Codice di Procedura Civile italiano del 1865, il legislatore pare in qualche modo riconoscere il fondamento naturale dell’arbitrato: “La facoltà di preferire alla giurisdizione ordinaria dei tribunali stabiliti dalla legge, quella privata degli arbitri, deriva dai principi di ragion comune, è una conseguenza naturale del diritto di obbligarsi e di disporre delle cose proprie. Se ognuno può rinunziare gratuitamente ad un diritto, può tantopiù subordinarne la conservazione, ove gli sia consentito, all’esame e al giudizio di privati cittadini meritevoli della sua fiducia. Negare alle parti questo mezzo di troncare le liti importa una violazione del diritto che esse hanno di comporre in quel modo e con quei mezzi che ravvisano più adatti, le questioni fra loro insorte, e questa violazione parrà amarissima quando si consideri che esse siano forzatamente sottoposte alle spese, ai ritardi, inseparabili dei procedimenti contenziosi e talvolta agli inconvenienti che possono nascere dalla pubblicità di un dibattimento giudiziario”.

Tutto il fondamento dell’arbitrato risiede nella libera volontà delle parti, nel loro consenso[17].

Contratto come vedremo, autonomo, che nell’unitaria considerazione del fenomeno arbitrale ben può definirsi “contratto processuale tipico”.[18]              

La Giurisprudenza sammarinese nel vigore della nuova normativa sull’arbitrato volontario[19], ha confermato l‘autonomia contrattuale del negozio compromissorio, affermando “che gli arbitri operano come giudici privati, in quanto la loro decisione svolge la stessa funzione dell’attività giurisdizionale (risolve una controversia) ma il loro potere deriva direttamente dalle parti attraverso un negozio giuridico ad hoc”.

Dalla natura di contratto che riveste il compromesso derivano alcune generalissime conseguenze, che meglio saranno illustrate nel prosieguo del lavoro, ma di alcune delle quali si ritiene utile accennare subito:

per la validità del compromesso occorrono in generale le condizioni richieste dall’ordinamento privatistico per la validità di ogni contratto;

il compromesso costituisce legge per le parti compromittenti ( si ricordi in materia negoziale, il I° comma dell’art. 1372 del cod. civ. italiano “Il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge”;

il compromesso, appartenendo al genus contratto, può appunto essere sciolto col mutuo consenso delle parti;

il giudizio arbitrale, ossia la giurisdizione eccezionale degli arbitri, fissata col patto compromissorio, non è di ordine pubblico, ma ha per unico criterio determinante il privato interesse e l’esclusivo suo giuridico fondamento nella volontà delle parti.   

Accanto al momento contrattuale, occorre tuttavia considerare l’imprescindibile momento rituale. A riguardo, la Giurisprudenza Sammarinese (precedentemente all’entrata in vigore della nuova normativa), in numerose Sentenze, ha evidenziato la profonda differenza tra arbitrato rituale ed irrituale[20].

Basti citare la Sentenza 25 gennaio 1972, nella Causa Civile N. 392/64 dell’Anno 1967[21] (in Giuris. Samm., 1963, p. 256), nella quale si evidenzia che “ il lodo rituale è un istituto che si colloca nel campo del processo ed è quindi disciplinato da norme di rito anche perché il procedimento arbitrale, pur avendo origine e svolgimento su un terreno privato culmina nell’atto giurisdizionale conclusivo da parte del Commissario per il quale il lodo e con esso l’intero operato degli arbitri resta assorbito formando un tutt’unico con la Sentenza che è identica a quella ottenuta attraverso una causa ordinaria. Cioè entrambi gli arbitrati presuppongono una  o più controversie da dirimere. Ma mentre nel lodo rituale le parti incaricano una o più persone di risolverle, con poteri e obblighi propri della funzione giurisdizionale che acquisterà valore definitivo attraverso la sentenza del giudice, nell’arbitrato irrituale, invece, le parti con la nomina dell’arbitro o degli arbitri, conferiscono l’incarico di risolvere i loro contrasti attuando praticamente una soluzione transattiva, che acquisterà valore di obbligatorietà in forza della preventiva accettazione fatta in sede di accordo, dell’operato degli arbitri all’uopo eletti”[22].

            La citata sentenza continua: “A differenza, poi, del lodo rituale, quello irrituale ha l’efficacia di un contratto, con la conseguenza che qualora non venga eseguito spontaneamente, la parte interessata deve rivolgersi al giudice ordinario promovendo un regolare giudizio di cognizione per ottenere una sentenza di condanna dell’altra parte all’adempimento dell’impegno assunto […] Nel lodo rituale ogni forma, ogni esigenza o termine procedurale, devono essere rispettati a garanzia e salvaguardia del contraddittorio perché gli arbitri sono chiamati a risolvere un contrasto nel ruolo di giudici. Invece nel lodo irrituale gli arbitri debbono solo determinare quali arbitratori il contenuto ed il limite di una transazione”.

            Un’altra differenza individuata dalla sentenza in oggetto, tra arbitrato rituale e irrituale, è che quest’ultimo non avrà bisogno di essere motivato, “data la discrezionalità cui si informa l’attività decisoria degli arbitri”.

Con l’entrata in vigore della Legge 18 marzo 1999 n. 34, la differenziazione tra arbitrato rituale ed irrituale appare assai più sfumata e comunque si pone in termini affatto diversi[23].  

L’esigenza di sistematizzare l’intera materia all’interno del diritto statale, con l’obbiettivo di creare una maggiore certezza giuridica riguardo l’istituto dell’arbitrato volontario, ha portato alla estrema “processualizzazione” di questo genus arbitrale.  

            Il testo di legge, composto di 25 articoli, riguarda tutte le fasi del procedimento arbitrale, dalla definizione di compromesso e di clausola compromissoria, alla sede dell’arbitrato, alla nomina, accettazione, ricusazione degli arbitri, alle regole procedurali, deliberazione, requisiti e deposito del lodo, fino all’impugnazione per nullità e alla disciplina dei lodi stranieri.

            Una disciplina che in alcuni tratti può apparire eccessiva, inidonea a salvaguardare appieno gli interessi dei privati e che deve essere inquadrata in quel fenomeno di “giurisdizionalizzazione” dell’arbitrato contrastato già da Roberspierre alla fine del Settecento.

Una tendenza peraltro fortemente in contrasto con la tradizione del diritto comune che a San Marino è diritto vigente, e che vede nell’arbitrato volontario o irrituale non un grado della giustizia pubblica, né tantomeno un momento della sua formazione.

II

PROFILI NEGOZIALI DELL’ARBITRATO:

 IL COMPROMESSO E LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA

A. L’autonomia contrattuale del compromesso ed il suo oggetto

 

            “Con il compromesso, le parti si accordano, per far decidere da arbitri, la controversia tra esse insorta. L’accordo deve, a pena di nullità, rivestire la forma scritta ed indicare l’oggetto della controversia”.

            Lo si è già osservato: il legislatore, in sede di definizione del’arbitrato, ha opportunamente evitato qualsiasi accenno ai termini contratto o procedimento (ed ai loro sinonimi), lasciando appunto agli art.li 2 e 3 riguardanti il compromesso e la clausola compromissoria, il compito di evidenziarne l’originaria natura pattizia.

L’istituto del compromesso volontario non ha trovato nelle Leges Statutae, alcuna regolamentazione giuridica, tuttavia è stato esplicitamente riconosciuto dalla giurisprudenza sammarinese[24], ricalcando principi già affermati nel diritto comune.

La parola compromesso deriva dal latino compromittere, promettere insieme e vicendevolmente, perché le parti promettono insieme e l’una verso l’altra di sottomettersi alla decisione degli arbitri scelti da essi in comune: “Compromittere est simul promittere stare sentenziae arbitri” (Dig. I, 23, § 2, De receptis qui arbitrium ).

Occorre porre una particolare attenzione al fatto che l’accordo compromissorio instaurandosi in un ordinario procedimento civile ne determina l’estinzione.[25]

Il giudice investito della controversia non può far altro che prendere atto della volontà espressa delle parti (Cfr. sentenza 16 gennaio 1991 nella Causa Civile n. 274 dell’anno 1985, inedita).

I diritti sostanziali alla cui tutela è finalizzato il procedimento giurisdizionale, “ritornano” nella disponibilità piena delle parti.

Ed in effetti, oggetto del compromesso sono le controversie su diritti disponibili. Ora, nella legislazione sammarinese non è dato rinvenire una norma generale analoga all’art 806 c.p.c. italiano la quale esclude la compromettibilità delle questioni di stato, di separazione personale dei coniugi e “delle altre che non possono formare oggetto di transazione”. In quell’ordinamento l’area della incompromettibilità suole allargarsi a rapporti disciplinati da norme inderogabili[26] ed a materie con componente pubblicistiche (come funzioni pubbliche, reati, marchi d’impresa, antitrust, nonché a controversie devolute alla funzione del giudice amministrativo, di quello fallimentare).

L’argomento non risulta sia stato trattato ex professo né dalla dottrina né dalla giurisprudenza sammarinese; metodologicamente  occorrerà verificare, in primis, se nella legislazione speciale sussistano delle norme particolari che vietano l’incompromettibilità per determinate materie, fermo restando che questa è pacifica nella materie di stretta rilevanza pubblicistica.

Dal punto di vista degli effetti processuali, la situazione risulta analoga a quella che si verifica nel caso di accordo transattivo dei litiganti. Secondo il codice civile italiano “la transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro” (art. 1965 I° comma c.c.).

Nel corso del lavoro si noteranno le affinità dell’istituto arbitrale con altre figure giuridiche di diritto sostanziale e processuale quali appunto la transazione, la conciliazione, l’arbitraggio, la perizia contrattuale e simili.

La questione ha una immediata valenza pratica: si pensi alla devoluzione al terzo (o ai terzi) scelti per la loro competenza tecnica, non già la risoluzione di una controversia giuridica, ma la formulazione di un apprezzamento tecnico che preventivamente si impegnano ad accettare, come diretta espressione della loro volontà.

Per concorde volontà delle parti, ai periti viene affidato un accertamento, una constatazione o un progetto, per i quali non si richiede un giudizio discrezionale, ma semplicemente l’utilizzazione di cognizioni tecniche alle quali l’indagine dei terzi per mandato delle parti è vincolata. E’ il caso della perizia tecnica o contrattuale.

Con tale perizia le parti non intendono derogare alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria; dovrà pertanto essere rigettata dal Giudicante un eventuale eccezione di difetto di giurisdizione del Tribunale Commissariale sollevata tempestivamente in limine litis dal convenuto[27], così come risulterebbe inammissibile una eventuale impugnazione dell’accertamento tecnico.                

L’autonomia contrattuale del compromesso rispetto ad istituti limitrofi è nel vigore della nuova normativa ancor più accentuata di quanto già lo fosse: la professoressa Campitelli ha opportunamente parlato di contratto processuale tipico da “intendersi come atto di disposizione del diritto delle parti di impedire, o di proseguire un rapporto ordinario processuale tra loro”[28].

La tipicità contrattuale del compromesso e della clausola compromissoria risulta ora (al di là di altre plausibili ragioni), dalla loro esplicita previsione normativa agli art. 2 e 3 della Legge 18 marzo 1999 n. 34.

Se alla origine dell’arbitrato vi è l’incontro della (concorde) volontà delle parti, ossia un compromissum[29], non risulta improprio soffermarsi sulla causa del compromesso nel senso che tale termine assume per la dottrina contrattualistica e cioè di funzione economico-sociale dell’atto di volontà.

L’art. 1235 n. 2 del codice civile italiano eleva questo requisito, a requisito essenziale dei contratti, e per il richiamo di cui all’art. 1324 degli atti unilaterali. La Relazione al Re che accompagnò il Codice del 1942 la definì come “la giustificazione della tutela della autonomia privata” (Relazione al Re, nn. 8,79), un vincolo al potere della volontà individuale (Relazione del Guardasigilli, nn. 193-94)[30].

Ora, per i contratti tipici, ossia quei contratti esplicitamente previsti (e regolati) dalla legge, il problema di individuarne la loro giustificazione economico sociale, la loro causa è già stato risolto positivamente dal legislatore: la ratio di questi negozi già positivamente accertata potrà al limite produrre problemi in sede di concreta realizzabilità del modello astratto[31].

Ad analoghe considerazioni si dovrà pervenire in riferimento alla disciplina del compromesso nell’ordinamento sammarinese: la causa del compromesso (e della clausola compromissoria) dovrà essere identificata nella possibilità in capo alle parti di disporre della “res litigiosa” e quindi, in definitiva, dei diritti sostanziali sottesi, demandando l’esame al giudizio di privati cittadini. 

 

 

B. Gli istituti affini:

 

E’ opportuna una preliminare avvertenza: le sistemazioni che seguiranno mirano a “delimitare” (in altre parole a circoscrivere), alcuni istituti che gravitano nell’area dell’arbitrato, condividendo con esso numerosi tratti.

L’operazione, per evidenti motivi, dovrà necessariamente prescindere dal dato storico, e riferirsi alla configurazione astratta degli stessi, delineandone una sorta di “modello ideale”.

Sono chiari i limiti di una tale impostazione: nell’ordinamento sammarinese, l’analisi storica degli istituti, la loro ricognizione nel tempo, non rappresenta solamente un efficace strumento scientifico per la migliore conoscenza degli stessi, ma sovente è analisi del diritto vigente.

Il tentativo si giustifica con l’esigenza, vivamente avvertita in sede dottrinale, ma pure dai “pratici”, di tracciare dei confini tra un istituto e l’altro, sia (appunto) per esigenze didattiche che per  più pressanti esigenze di applicazione del diritto.      

 

 1. La transazione

 

Lo si è già più volte notato: nella sua fase genetica l’arbitrato ha molte analogie con la transazione. La Giurisprudenza Sammarinese ha posto in evidenza tale concetto in numerose decisioni, in riferimento all’arbitrato irrituale ad alla attività dell’arbitrator[32].     

Storicamente, l’affermazione dell’equivalenza tra arbitramentum e transazione si consolidò verso la fine del XIV secolo, allorquando la scienza giuridica cominciò ad abbandonare le classificazioni dei testi giustinianei e gli strumenti tecnici creati dai giuristi bolognesi, in una prospettiva di ammodernamento.[33]

Agli autori del periodo del tardo diritto comune si richiama sovente la giurisprudenza sammarinese, nello sforzo di risalire ai tratti originari degli attuali istituti giuridici.

E certamente ha tratto ispirazione dal citato quadro storico e teorico la citata Sentenza 25 gennaio 1972 nella Causa Civile n. 392/64 dell’anno 1967, allorquando si afferma che “nell’arbitrato irrituale invece le parti, con la nomina dell’arbitro o degli arbitri, conferiscono l’incarico di risolvere i loro contrasti attuando praticamente una soluzione transattiva, che acquisterà valore di obbligatorietà in forza della preventiva accettazione fatta in sede di accordo, dell’operato degli arbitri all’uopo eletti”.

Il Triani, in uno studio di fine ottocento,[34] evidenziava come nel caso in cui gli arbitri siano stati autorizzati a decidere come amichevoli compositori “non solo rinunciano alla giurisdizione ordinaria, ma si impongono quel sacrificio nelle loro pretese che sarà giudicato equo dagli arbitri eletti; onde questi, nell’atto in cui pronunciano sentenza, non dicunt jus, ma determinano quale sia il ragionevole sacrificio del sommo diritto che l’una e l’altra parte dovrà fare per amore di concordia. Quasi direbbesi che le parti transigono rimettendo agli arbitri di stabilire il prezzo di transazione”.    

 Nonostante le grandi affinità tra i due istituti, deve riconoscersi al compromesso una assoluta autonomia contrattuale.

Rispetto alla transazione sono evidenziabili le seguenti differenze:

il compromesso produce l’apertura di un giudizio e quindi di una controversia su determinati diritti sostanziali “mentre la transazione lo previene e lo tronca, troncando le questioni”[35]; 

col compromesso le parti deferiscono a terzi la decisione delle controversie, mentre nella transazione sono le stesse parti che le definiscono;

nella transazione per definizione le parti rinunciano parzialmente ai diritti vantati, mentre con il compromesso arbitrale (discorso diverso deve essere fatto per l’arbitratore che risolve le liti secondo “bona fide, et bono motu, nulla iuris solemnitate servata absque iudiciorium strepitu”[36]) ciascuna di esse mostra il proposito di conseguire tutto quanto crede le sia dovuto e si espone “a tutto perdere o a tutto guadagnare”, accollandosi il rischio di una soccombenza totale.

Dovrebbe apparire ora più chiara, la differenza tra i due istituti soprattutto in riferimento alla considerazione che con il compromesso si produce, nel vigore della nuova legge, l’apertura di un analitico procedimento.      

  

2. Il mandato

 

Se si pone l’attenzione allo stretto rapporto negoziale che intercorre tra le parti e gli arbitri non si potrà fare a meno di rilevare una certa analogia con il contratto di mandato. Questo, nell’accezione fornita dal Codice Civile italiano è il contratto “ con il quale una  parte, il mandatario, si obbliga nei confronti dell’altra, il mandante, a compiere uno o più atti giuridici per conto di quest’ultima” (art. 1703).

Come nota il Fazzalari[37] “il rapporto fra le parti ed il terzo, quale arbitro, è generato da una convenzione mediante la quale i compromittenti, o chi per loro, conferiscono al terzo, che accetta, l’investitura del potere di disporre del e nel loro patrimonio, con una propria volizione, previo contraddittorio e giudizio”.

Del resto, se si risale all’origine dell’arbitrato, la dottrina classica individuava nel “compromissum” un mandato generalizzato conferito all’arbiter per decidere la controversia ed per regolare in ogni suo aspetto la res litigiosa. Nel vigore del precedente codice civile italiano alcuni autori come il Ricci, affermarono che il “compromesso non è che un mandato speciale”.[38] 

La considerazione si fondava sulla “presunta” applicabilità, nei rapporti tra parti ed arbitri, delle norme sul mandato poste dal codice civile negli articoli 1737 e seguenti: la possibilità di revocare la nomina degli arbitri come il mandante revoca il mandato, il dovere degli arbitri in caso di accettazione dell’incarico di pronunciarsi (derogabile solo  per giusta causa), la nullità della pronunzia degli arbitri se nullo fu per qualsiasi causa il compromesso, e se in qualunque modo hanno ecceduto i limiti della commissione, o non si sono uniformati alla prescrizione della medesima, rappresentavano per taluni autori evidenti segni della qualificazione del rapporto alla stregua della relazione mandante-mandatario.

 In effetti, tuttavia già allora alcuni attenti commentatori, avevano ben individuato le differenze sostanziali (ancora attuali) tra i due istituti. Il Cuzzeri affermò che “Il compromesso non è parificabile al mandato, perché l’arbitro non può essere il rappresentante delle parti se deve farsi giudice delle loro contese, e una volta nominato cessa dall’ufficio, non già per le cause per le quali può venir meno il mandato, ma per le altre speciali stabilite dall’art. 34 del codice di procedura civile”[39].

La considerazione conserva intatta, ancora oggi, anche in riferimento all’ordinamento vigente in San Marino, la sua validità. L’officium degli arbitri non consiste nell’eseguire un mandato: il mandatario opera in luogo e vece del mandante ed in ottemperanza alle istruzioni da questi impartite. L’arbitro invece “non opera in luogo e vece delle parti, ma tiene anzi speciali poteri sovra esse, relativamente a ciò che è stato dedotto in compromesso, ed è ben lungi ch’ei debba subirne le istruzioni”.[40]

Benché nella amichevole composizione, la figura dell’arbitrator può comportare un attenuazione di quei profili di terzietà caratteristici delle funzione giudicante, è certo che quest’ultima funzione sia riferibile anche all’opera degli arbitratori e quindi dovrà svolgersi nel rispetto di questo fondamentale principio giuridico.

Nell’ordinamento sammarinese, l’esigenza che l’operato degli arbitri sia svolto rispettando i principi di imparzialità ed indipendenza, peculiari dell’attività giurisdizionale è ora sanzionata dalla Legge sull’arbitrato all’art. 10, dove trova disciplina un istituto tipicamente processuale quale la ricusazione.[41]

“Le parti possono ricusare gli arbitri quando sussistono fatti tali da lasciar ragionevolmente dubitare circa la loro imparzialità ed indipendenza” (art 10 I° comma).[42] 

Giudice competente per la ricusazione è il Commissario della Legge, a cui l’istanza va proposta entro 15 giorni dalla comunicazione della nomina, ovvero dalla sopravvenuta conoscenza della causa recusationis. L’istanza di ricusazione è decisa inoppugnabilmente entro il termine di 30 giorni dal Commissario, dopo aver sentito l’arbitro o gli arbitri[43].

 E’ fin troppo chiaro dunque che l’arbitro non agisce per conto delle parti, ma assume nel procedimento arbitrale quella funzione di terzietà di cui è evidente segno  l’istituto della ricusazione.

Un autore come l’Amar,[44] a proposito rileva che nel compromesso “è definito l’oggetto del giudizio, ma non è certamente designato il modo di risolverlo, come dovrebbe accadere in un mandato. Gli arbitri non possono farsi sostituire e non cessano dal loro ufficio per la morte o per qualche incapacità dei compromittenti”.

Si noti peraltro, in riferimento alla legge sammarinese[45] che mentre secondo l’art. 5 “possono essere nominati arbitri sia cittadini sia stranieri, dotati della capacità di agire secondo la legge sammarinese”, i mandatari per principio di diritto, possono essere anche minori[46].     

 

3. L’arbitraggio

 

           Dal compromesso deve essere tenuto distinto l’arbitraggio (o arbitramento) che è un istituto di puro diritto sostanziale. Esso emerge quando si affidi ad un terzo (l’arbitratore) il perfezionamento o il completamento di uno o più elementi di un contratto stipulato tra le parti che ne hanno sollecitato l’intervento[47].

            La volontà dei contraenti, in questo caso, è diretta nel senso di far completare la fattispecie contrattuale, per opportunità o per necessità, da un altro soggetto (l’arbitratore appunto): ciò può verificarsi quando l’elemento mancante del contratto presenti delle caratteristiche tecniche per le quali nessuna delle parti possiede le indispensabili specifiche nozioni (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alle caratteristiche di un impianto industriale o di un macchinario, al prezzo di un bene particolare e così via) ovvero quando non si trovi, ab initio, un accordo e le parti preferiscano rimettersi alla determinazione imparziale di un terzo al fine di eliminare sul nascere ogni possibile contestazione.

             La determinazione del terzo è vincolante per le parti, ma non costituisce una decisione, un lodo suscettibile di acquisire (se rituale) valore di sentenza. Nell’arbitraggio infatti non esiste (ancora) una contrapposizione giudiziale fra i soggetti interessati.

             “E’ altresì vero” nota il Fazzalari[48] “che all’origine del riferimento all’arbitratore può esservi il contrasto dei paciscenti circa il contenuto del contratto, ma anche questa non è una caratteristica del tipo, ben potendo la relatio, risalire ad altra ragione: per esempio, alla impossibilità o incompetenza dei contraenti.

 Comunque, l’eventuale contrasto circa i rapporti in fieri (“controversia economica” secondo il suggerimento di Carnelutti) non ha ancora niente a che vedere con la (ancora carnelluttiana) controversia giuridica, relativa , appunto, a preesistenti posizioni giuridiche: alla cui ricognizione – come si è detto- l’arbitro deve procedere prima (ed al fine) di disporre, col lodo, l’assetto sostanziale cui le parti debbono attenersi”.       

Le parti debbono ovviamente fornire all’arbitratore nozione del contratto per il cui completamento gli si rivolgono, ed anche circa l’addendo che gli chiedono di determinare; ma ciò non equivale alla loro articolata partecipazione, in contraddittorio, all’iter di formazione del dictum richiesto; non significa cioè processo[49].

E’ tuttavia possibile che i contraenti, nel riferirsi al terzo, dispongano che il suo dictum sia emesso previo contraddittorio (di solito ciò si verifica quando la rilevanza dell’eventuale contrasto economico e/o importanza dell’elemento da determinarsi ad opera del terzo suggeriscano ai contraenti di partecipare a quell’iter, per ivi dire e contraddire).

Si tratterà, comunque, quanto all’arbitrato, di una processualità[50] eventuale, non ascrivibile all’istituto come suo connotato[51].

 

 

4. La perizia contrattuale

 

 

 

Cambiato ciò che si deve, le osservazioni svolte in tema di arbitraggio vanno ripetute in ordine alla “perizia contrattuale”. La giurisprudenza sammarinese si è occupata diffusamente dell’istituto, con Sentenza emessa il 25 aprile 1994, nella Causa civile ordinaria n. 140 dell’anno 1990[52].

 Il Commissario della Legge ivi precisava: “con la perizia contrattuale le parti devolvono al terzo (o ai terzi) scelti per la loro competenza tecnica, non già la risoluzione di una controversia giuridica (come accade nell’arbitrato libero), ma la formulazione di un apprezzamento tecnico che preventivamente si impegnano ad accettare, come diretta espressione della loro volontà.

Per concorde volontà delle parti, ai periti viene affidato un accertamento, una constatazione o un progetto, per i quali non si richiede un giudizio discrezionale, ma semplicemente l’utilizzazione di cognizioni tecniche alle quali l’indagine dei terzi, per mandato delle parti, è strettamente vincolata.

I contraenti, in altre parole, si limitano a chiedere al perito un giudizio su cose o questioni che essi ignorano e sulle quali egli invece ha una specifica competenza[53]”.

La citata sentenza prosegue precisando che la determinazione dell’elemento contrattuale, sul quale le parti contraenti non sono in grado di statuire, avviene attraverso una dichiarazione di scienza.

Tale dichiarazione di scienza effettuata dal perito, in quanto fatta propria dalle parti come espressione della loro volontà contrattuale, diviene elemento integrante il regolamento negoziale posto in essere dai contraenti.

Il Commissario della Legge, rilevando come nel caso de quo “al collegio di periti medici le parti abbiano affidato la determinazione di questioni tecniche (determinazione del grado di invalidità permanente o temporanea, l’applicazione dei criteri per la determinazione dell’importo dell’indennizzo) che vanno ad incidere, per la preventiva accettazione delle parti, sul rapporto contrattuale ”conclude affermando che “con la clausola menzionata, le parti, non hanno inteso derogare alla giurisdizione di questa Autorità Giudiziaria, ma solo affidare ad un collegio medico la determinazione e l’accertamento di elementi tecnici, che peraltro nemmeno assumono rilevanza ai fini della presente controversia nella quale si discute principalmente sull’esistenza del diritto all’indennizzo”[54].

In effetti, la perizia contrattuale consiste propriamente nella relatio da parte di contraenti ad un terzo (o a terzi) per la determinazione, in misura più o meno ampia, del contenuto di un contratto, e nel conseguente dictum del terzo.

Tale dictum, ripetiamo qui quanto esattamente detto a proposito dell’arbitraggio, non è una manifestazione di volontà che concorra con quella dei contraenti, bensì un atto intellettivo che si inserisce nell’altrui contratto per relationem, unica fonte dell’efficacia negoziale.

In tali ipotesi il perito non dovrà intromettersi sugli aspetti giuridici del rapporto, peraltro non ancora controverso[55]. Tuttavia anche in questo caso, è possibile che le parti richiedano al terzo il previo contraddittorio, che cioè si svolga un processo (il quale prendendo il nome dall’epilogo, può dirsi “processo per perizia”)[56]

 

5. La conciliazione

 

La conciliazione si sostanzia nel tentativo del terzo di trovare un accordo in via amichevole tra due o più soggetti, in contrasto tra loro[57]. Con l’intervento del terzo, formalmente incaricato dalle parti, si intende prevenire ed evitare un successivo giudizio in contraddittorio (sia esso arbitrale od ordinario).

Sono evidenti i punti di contatto con l’istituto arbitrale, soprattutto con la figura dell’amicabilis compositor dell’arbitrato irrituale: anche quest’ultimo, in effetti, cerca sovente una preventiva conciliazione amichevole tra i litiganti, ed in ogni caso nella sua decisione deve mirare ad avvicinare il più possibile le diverse, contrapposte posizioni.

La conciliazione tuttavia, da sola, non riesce a produrre effetti giuridicamente obbligatori, senza un preventivo ed ulteriore accordo negoziale, mentre l’arbitrato giunge comunque ad un risultato vincolante per le parti.

Il Fazzalari[58], in proposito, è categorico; “la conciliazione stragiudiziale non ha nulla a che vedere con l’arbitrato. In essa il terzo che, scelto dalle parti, si adopera per conciliarle svolge funzione toto coelo diversa da quella dell’arbitro, non essendo investito di alcun potere d’imporre un certo assetto sostanziale (esso è stabilito dalle parti nell’accordo di conciliazione)”.     

 

C. La clausola compromissoria

 

E’ probabilmente da attribuirsi al dubbio riconoscimento del pactum de compromittendo nel diritto romano, la più o meno velata diffidenza che accompagna il riconoscimento della clausola compromissoria nelle legislazioni moderne[59].

La giurisprudenza sammarinese, in numerose sentenze, né ha ammesso la validità, sulla base di indubitabili considerazioni relative a principi generali di diritto: anche le cose future possono essere oggetto di una obbligazione ed è quindi nella disponibilità delle parti il deferimento ad arbitri, non solo delle questioni già sorte, ma anche di quelle che possono sorgere a seguito ed in relazione ad un determinato contratto o convenzione riguardante rapporti di diritto patrimoniale.[60]

Peraltro le obbligazioni future, riguardano diritti ed obbligazioni già esistenti in forza del contratto principale; l’eventualità non concerne il diritto o l’obbligazione considerati in sé stessi, ma soltanto le controversie che possono sorgere dall’esercizio dell’uno o nell’adempimento dell’altro.

Il principio della derivazione della clausola compromissoria dal contratto principale comporta evidentemente che le sorti del secondo (nullità, annullabilità, inefficacia) non possano non riverberarsi sulla prima.

Viceversa, l’eventuale invalidità della clausola compromissoria non si ripercuote sulle vicende del contratto principale.

I principi generali appena enunciati potranno essere apprezzati in riferimento all’istituto della clausola compromissoria, disciplinato ora dall’art. 3 della Legge sull’arbitrato.

Il citato articolo prevede che: “Le parti possono inserire nel contratto che stipulano o in un atto separato una clausola compromissoria, con la quale si impegnano a far decidere da arbitri tutte le controversie future nascenti dal contratto medesimo.

La clausola compromissoria deve risultare da atto avente la forma richiesta per il compromesso ai sensi del precedente articolo 2 (cioè la forma scritta, a pena di nullità).

Salvo diversa volontà delle parti, il potere di stipulare il contratto comprende quello di stipulare la clausola compromissoria.

La validità della clausola compromissoria deve essere valutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce”.

Da una interpretazione letterale del primo comma dell’articolo citato, deriverebbe la invalidità di clausole compromissorie parziali, cioè di clausole in cui le parti convengano di deferire ad arbitri non appunto, “tutte le controversie future nascenti dal contratto medesimo”, ma solamente quelle riferite a particolari rapporti del contratto stipulato inter partes.

Tale interpretazione sarebbe certamente in contrasto con la disciplina consuetudinaria dell’istituto, la quale ammette la validità delle clausole compromissorie parziali, nonché con i principi generali dell’istituto, che pongono il pactum de compromittendo  nella sfera costituita dal mutuo consenso delle parti, e lo mettono in relazione al contratto principale, solo per evidenziarne la stretta correlazione con le sorti di questo[61].

Si noti che l’atto scritto richiesto dalla Legge per il compromesso come garanzia di ordine pubblico in un giudizio eccezionale, quale è quello degli arbitri, è logicamente richiesto nella clausola compromissoria, che altro non è che un compromesso condizionato all’eventuale sorgere della controversia.

La Giurisprudenza sammarinese ha evidenziato come il “pactum de compromittendo”, avendo natura negoziale, è di stretta interpretazione e deve essere inteso come libero o irrituale[62].             

E’ da rilevare (analoga considerazione va effettuata per il compromesso), che l’incompetenza dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria non ha carattere assoluto, nel senso che l’eventuale accettazione del giudizio introdotto avanti il magistrato ordinario, senza l’opposizione, in limine litis,[63] dell’eccezione di incompetenza, integrando un tacita accettazione della giurisdizione di quest’ultimo, comporta la validità del giudizio.

 Il Giannini, applicando per analogia la disciplina giuridica dell’arbitrato ex necessitate statuti alla clausola compromissoria, con una operazione invero discutibile, esprime dapprima perplessità sulla validità della clausola relativa alla inappellabilità del giudicato del collegio arbitrale "in quanto le Leges Statutae stabiliscono bensì che il lodo sia, ad eccezione di casi speciali, messo in provvisoria esecuzione […] ma concedono sempre il giudizio di appello […] e, ove del caso, quello di terzo grado […]”[64].

Tuttavia, infine, l’Autore esprime sull’argomento parere positivo argomentando dal riconoscimento consuetudinario della possibilità della rinuncia ai rimedi ordinari in caso di arbitrato necessario, fatti salvi per altro, i rimedi straordinari di nullità e di restitutio in integrum.

 Sempre in tema di clausola compromissoria è interessante rilevare come l’elaborazione giurisprudenziale dell’istituto avesse consentito la nazionalità straniera degli arbitri e pure la possibilità che il lodo arbitrale (anche se relativo a contratto stipulato a San Marino ed ivi avente esecuzione) potesse avvenire all’estero [65](si veda ad es. Sent. 11 maggio 1951 nella Causa civile n. 264/1949).

Tutto ciò sulla base delle norme statutarie sull’arbitrato volontario e facoltativo, che non vietano che gli arbitri possano essere cittadini esteri e che il lodo arbitrale possa avvenire all’estero[66].

Secondo l’art. 4 della nuova legge, invece, la sede dell’arbitrato deve essere necessariamente posta nel territorio della Repubblica: l’individuazione della sede dovrà avvenire ad opera delle parti nel compromesso o nella clausola compromissoria, altrimenti provvederanno gli arbitri nella loro prima riunione.

L’art. 5 della legge cit. consente invece che “possano essere nominati arbitri sia cittadini sia stranieri, dotati della capacità di agire secondo la legge sammarinese”.

 

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[1] Il professor Piergiorgio PERUZZI, Giudice della Appellazioni Civili, negli “Appunti per le lezioni del corso di diritto sammarinese”, Quattroventi Editore, Urbino, 1998, p. 24, pone l’attenzione su una “questione di metodo” invero molto importante nell’opera di accostamento al diritto sammarinese. Secondo l’Autore: “Nel diritto sammarinese prima di procedere agli esami dei singoli istituti, si rende così sempre più necessario esaminare la genesi storica e il sistema delle fonti, procedendo, senza sollevare questioni, da quanto sul tema è già stato affermato in sede ufficiale o in occasioni meno solenni, ma scientificamente non trascurabili”.        

[2] La categoria dello ius proprium si contrappone specularmente al sistema del diritto comune. E’ noto come nel sistema del jus commune, poggiando questi sulla logica dei casi omessi (secondo la massima “casus omissus remanet in dispositione iuris communis”; cfr. p.e., A. TARTAGNI, Consiliorum seu responsorum, liber quartus, cons. 53 [= Invocatio divino suffragio] Ed. Venetiis 1610, f. 43 rb) non siano praticamente possibili lacune o carenze di alcun genere, poiché la vastità del diritto comune soccorre a quanto non espressamente previsto da Statuti e leggi particolari. Nota il VIROLI (GIANNINI, Sommario di procedura civile giudiziaria sammarinese, IIa ed., G.P.E., Repubblica di San Marino, 1967, p. 129): “ La teoria seguita ed accolta dagli autori e dalla giurisprudenza di diritto comune era quella che le leggi particolari (dette in genere municipali in quanto comprendevano sia gli Statuti che le reformationes allo Statuto) o lo ius singulare erano di strettissima applicazione in quanto dovevano allontanarsi il meno possibile dal diritto comune nel quale la legge speciale doveva restare inquadrata ed al quale doveva farsi ricorso per completare, integrare ed interpretare ogni disposizione, anche dubbia del diritto speciale o particolare o municipale o eccezionale”. Il Viroli nel luogo citato, riporta le opinioni di alcuni autori del tardo diritto comune, tra i quali il De Luca ed il Richeri, che confermano le esposte posizioni teoriche. In particolare il De Luca insegna che la legge municipale “strictam et rigorosam recepit interpretationem, ut, quominus fieri potest, corrigat jus commune vel ab eo deviet ac propterea  ad illud in caso omisso vel dubio est recurrendum” (DE LUCA, Theatrum veritatis et Justitiae, Ed. Venetiis, 1726, Libro XV, Pars I, De Judiciis, Disc. XXXV).                        

[3] Sull’istituto dell’arbitrato in generale si vedano le ormai classiche opere di SATTA, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, (rist. della prima ed. con pres. di C. Furno), Milano, 1969, il quale riconosce all’arbitrato un rilievo solo privatistico. Sulla stessa linea di pensiero anche il “padre” della dottrina processualistica italiana CHIOVENDA, che ha introdotto in Italia le dottrine processualistiche mutuate dalla pandettistica tedesca: si veda CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1940, pp. 69 e ss., dove il Maestro afferma: “L’opinione sostenuta da alcuni scrittori e dominante nella giurisprudenza, che attribuisce all’arbitrato carattere giurisdizionale mi sembra profondamente errata”; inoltre si vedano T A. SCIALOJA, Gli arbitri liberi, in “Rivista del diritto commerciale”, XX, parte I, (1922), p. 516; SCADUTO, Gli arbitratori nel diritto privato, in “Annali del Seminario giuridico della Università di Palermo”, XI, (1923), p. 128; ASCARELLI, Arbitri e arbitratori: gli arbitri liberi, in “Rivista di diritto processuale civile”, IV, parte I (1929), p. 308 ss. Per quanto riguarda la dottrina più recente, che attribuisce all’arbitrato natura giurisdizionale v. VECCHIONE, L’arbitrato nel sistema del processo civile, Napoli, 1953, SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1958; MINOLI, Il problema della natura giuridica dell’arbitrato, in “Rassegna dell’arbitrato” (1962), pp. 100 ss.. ed ancora RICCI, Sull’efficacia del lodo arbitrale dopo la Legge 9 febbraio 1983, n. 28, in, Riv. dir. proc., 1983, pp. 635 ss. e TARZIA, Efficacia del lodo e impugnazioni nell’arbitrato rituale ed irrituale, in, Riv. dir. proc., 1987. pp. 14 ss. Per le opere di carattere storico v. RIVALTA, I giudizi di arbitri. Saggio di legislazione e di giurisprudenza antica e moderna, Bologna, 1885; PERTILE, Storia del diritto italiano, VI, parte I, pp. 169-180, P.S. LEICHT, Mediatores ed arbitri nell’antico diritto veneziano in AA.VV., Scritti storici in memoria di G. Monticolo, Padova, 1922, pp. 39-42. Altre opere anche di carattere generale verranno indicate nel corso del lavoro.   

[4] La commistione di elementi di diritto processuale e di diritto sostanziale, caratterizza peraltro il sistema dello jus commune ed alcuni dei suoi tipici istituti. Secondo PERUZZI, Avvertenza alla Raccolta di leggi sulla procedura civile sammarinese, San Marino, 1991 “la partizione cui siamo avvezzi tra norme sostanziali e norme processuali è del tutto estranea al diritto comune storico, determinato nel suo manifestarsi e nelle sue minutissime articolazioni da condizionamenti molteplici”. Ciò consegue da presupposti teorici ben precisi, appartenenti al diritto comune nella sua strettissima derivazione dal diritto romano classico e soprattutto giustinianeo, che non consentono una distinzione netta tra diritto processuale e diritto sostanziale, ed anzi, come nel caso dell’arbitrato, costringono l’uno e l’altro tipo di norme alla commistione e al condizionamento reciproco. Ed in effetti il diritto processuale deve in gran parte all’età moderna il riconoscimento della sua piena autonomia. Si pensi alla teoria del “rapporto giuridico processuale”, quale figura elaborata dai giuristi tedeschi nella seconda metà del secolo scorso (a cominciare dal BÜLOW, Die lehre von den Prozesseinreden und die Prozessvonraussetzungen, Giessen, 1868; poi KOHLER, Der Prozess als Rechttsverhätnis, Mannheim, 1898) nel loro fecondo sforzo, di trapiantare nella teoria del processo che stavano costruendo, quei concetti giuridici generali che altri giuristi tedeschi di qualche decennio prima avevano elaborato nel costruire la teoria generale del negozio giuridico. Dottrine “importate” in Italia dal Chiovenda nelle sue opere di inizio Novecento (solo per citarne alcune, CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, in, Saggi, I, Bologna 1904; Istituzioni di diritto processuale civile, I, Roma, 1935).  

[5] Sulla differenza tra arbitri ed arbitratori nella dottrina del diritto comune si vedano le osservazioni svolte nel prosieguo della ricerca.            

[6] Pp. 4 e 5; sul parere emesso dalla Prof.ssa Adriana Campitelli si vedano le considerazioni svolte in nota 8.

[7] E. FAZZALARI, L’arbitrato, UTET, Torino, 1991, p. 3. L’Autore, superando le impostazioni pubblicistiche care alla dottrina degli anni 50-70, lo definisce come “processo privato, volto ad una giustizia alternativa rispetto a quella di cognizione somministrata del giudice statale. Ha per oggetto controversie su posizioni o pretese giuridiche, si svolge innanzi ad un privato, l’arbitro, e con la partecipazione di litiganti in contraddittorio, mette capo ad una disposizione vincolante fra le parti”.

[8] Le considerazioni della Professoressa Adriana Campitelli sono, a rigore, riferite alla rubrica LX del Libro II delle Leges Statutae “De compromissis”, tuttavia ne è dalla stessa riconosciuta la applicabilità all’istituto dell’arbitrato in generale. Il compromesso necessario o meglio l’arbitrato “ex necessitate statuti” di cui alla citata Rubrica statutaria, rappresenta una  forma di istituto diretto a garantire alla cognizione degli arbitri, le controversie che sorgono all’interno di alcune comunità economico-familiari (cfr. Sentenza di I° grado 8 maggio 1987, nella Causa Civile n. 19/1987, in Giuris. Samm. dal 1981 al 1990, Maggioli editore, Rimini, 1993, p. 1238 ss.). Ciò vale:

-          per tutte le cause di qualunque specie e per qualunque titolo, eccettuate le cause testamentarie, fra parenti ed affini, fino al quarto grado inclusive,

-          per le cause fra mercanti ed artefici sull’opera loro e conseguenze

-          per le cause fra comunisti o soci  e tutte quelle in qualsiasi modo collegate con le società e comunioni.

L’ampia Rubrica LX al par. 127 dispone: “Et in dicto termine, ut praedicitur, compellandum partes ad eligendum arbitros et arbitratores “ (“e nel detto termine [di otto giorni] come si dice di sopra, si costringano le parti ad eleggere gli arbitri e gli arbitratori, […]”. Dalla prevalente giurisprudenza sammarinese ci perviene l’insegnamento tradizionale secondo il quale l’arbiter decide secondo diritto e coll’osservanza delle regole procedurali (“Arbiter est qui inter partes assumit officium, non qui amicabiliter componit” ed ancora “qui judicis partes substinet, et qui conoscit ordinario judicio sicut judex” [ BARTOLO DA SASSOFERRATO, Comm., De receptis arbitris, Ed. Venetiis, 1581) mentre l’arbitrator è, quale amicabilis compositor, chiamato a giudicare senza l’osservanza delle norme di diritto e delle norme processuali (cfr. SCADUTO, Gli arbitratori nel diritto privato, in “Annali del Seminario giuridico della università di Palermo” XI –1923, pp. 28-29). Tale impostazione è approfonditamenter esposta nella Sentenza del Commissario della Legge resa in data 25 gennaio 1972 nella causa Civile N. 392/64, in Giur. Samm dal 1964 al 1969, p. 346 ss., di cui ampiamente nel prosieguo.    

In codesta contrapposizione è carente l’analisi storica. Rileva MARTONE, Arbiter-arbitrator, Forme di giustizia privata nell’età del diritto comune, Jovene editore, Napoli, 1984, pp. 10 e 11: “Nella sua genesi il rapporto funzionale arbiter-arbitrator, non si pose nei termini dialettici giudizio di diritto-giudizio di equità. L’arbitrator in origine non decideva la controversia, bensì pronunciava nell’accordo delle parti, alla cui volontà la determinazione così effettuata si ricollegava direttamente: - arbitrator vero est amicabilis compositor sed nec sumitur super re litigiosa vel ut cognoscat: sed ut pacificet et quod certum est dividat: ut in societate quam certum est fuisse contractam -”; cfr. GUGLELMO DURANTE, Speculum iuris, Venetiis 1566 lib. I, partic. I. La figura dell’arbitrator  per Durante differiva profondamente da quella dell’arbiter, e non tanto perché il primo poteva fruire soltanto di criteri equitativi anziché di norme di diritto, ma soprattutto perché questi non assimilava le facoltà decisorie dell’arbiter sul merito delle controversie compromesse. Vedremo poi che nel corso del XIII e XIV secolo la figura e le funzioni dell’arbitrator subirono rilevanti cambiamenti.

[9] Lo ricorda MARTONE, op. cit. pp. 3 e 4.

[10] Sulla diffusione dell’arbitrato necessario in Francia, nel periodo delle Ordinnances, prima ed in quello Rivoluzionario poi, V. MARANI, Aspetti negoziali ed aspetti processuali dell’arbitrato, Torino, 1966, 80 ss. In particolare, per quanto riguarda la posizione assunta da Robespierre contro l’istituzione dell’arbitrage forcé si veda MARTONE, cit, p. 5.

[11] L’affermazione definitiva anche per l’arbitrato volontario delle necessità di controlli formali e di merito da parte dell’ordinamento giudiziario, si consolidò nel quadro teorico caratterizzato dal positivismo e dalla Scuola dell’Esegesi. Così MARTONE, op. cit., p. 4

[12] M. ROBERSPIERRE, Oeuvres, a cura di M. Bouloiseau, G. Lefebre, A. Saboul, t. IX (4e partie), Paris 1958, p. 137. 

[13] Per una succinta analisi storica dell’arbitrato, si veda DIGESTO ITALIANO, Vol. VII, parte 3a, voce “Compromesso”, Torino, 1889-1900, pp. 545-547.    

[14] E. FAZZALARI, L’arbitrato, UTET, 1991, p. 3.      

[15] Fra gli arbitrati che possono prescindere e spesso prescindono dal diritto dello Stato, spicca ancora oggi, l’arbitrato commerciale internazionale, estemporaneo e preorganizzato, al quale fa ricorso il nuovo ceto mercantile. Tale diritto, composto da varie leges mercatorie, si sperimenta nell’adesione di questa o di quella categoria di operatori economici ai valori del loro ambiente: le loro condotte si uniformano a quei valori in virtù della opinio necessitatis che coloro nutrono rispetto ai medesimi; cioè della convinzione prevalente fra di loro che essi siano vincolanti, con le conseguenze sanzionatorie che possono (non necessariamente) derivare. Il prof. Francesco Galgano, in un acuto intervento reso in occasione del “Premio Internazionale Qualità San Marino 1997” (in, Atti del Convegno, 1998, Edizioni del Titano,  1998, p.49) a proposito ha osservato: “Ciò che domina la scena giuridica del nostro tempo non sono le convenzioni internazionali di diritto uniforme né sono, in ambito europeo, le direttive comunitarie di armonizzazione del diritto entro la CEE (che, ci  pare, stiano assumendo una importanza sempre maggiore). L’elemento dominante, è piuttosto, la circolazione dei modelli contrattuali uniformi, il più delle volte contratti atipici, a crearli non sono i legislatori nazionali, ma sono gli uffici legali delle grandi multinazionali, sono i consulenti delle associazioni internazionali delle diverse categorie imprenditoriali ( gli stessi consulenti, aggiungiamo, che in sede di interpretazione di questi modelli contrattuali in occasione degli arbitrati commerciali internazionali, creano dei precedenti cui gli altri arbitri successivamente aditi sono soliti uniformarsi) […]. Si forma così, un corpo di regolae iuris, che gli operatori economici sono indotti ad osservare sulla previsione che, in caso di controversia, verranno applicati ai loro rapporti commerciali”.         

[16] E. FAZZALARI, op. cit., p. 5  

[17] Naturalmente la considerazione non può valere per l’arbitrato necessario (termine improprio quest’ultimo, come si constaterà dal prosieguo della nota). A proposito il MARTONE, op. cit., p. 17, rileva che la diffusione dell’arbitrato necessario originariamente circoscritto alle liti tra parenti, coincide con il consolidamento degli Stati regionali ed è legata “ai mutati equilibri politici tra clans familiari nell’ambito delle signorie [..]” e sempre nel luogo citato “Dietro l’astratta categoria di quest’istituto vi era la realtà dei clans familiari emarginati dal potere che miravano a salvaguardare le proprie posizioni di privilegio ed a difendere il patrimonio comune. In questa prospettiva si inseriscono le norme statutarie dirette ad accordare ai familiari la facoltà di deferire ad arbitri la risoluzione di liti che potevano formare oggetto di compromesso. La norma statutaria non imponeva un arbitrato di tipo giurisdizionale: tutti gli Statuti prevedevano la requisitio, ossia la richiesta del parente per rendere obbligatorio l’arbitrato”. In questo senso, anche la procedura di arbitrato necessario previsto dalla rubrica LX del Libro II delle “Leges Statutae”, dove si prevede, quale condizione necessaria, che almeno una delle parti ne faccia domanda al giudice prima dell’apertura dei termini probatori ( “Dum tamen ipsa requisitio, et petitio fiat ante terminum datum ad probandum in causa, post quem terminum nulla pars possit ulterius in dicta causa ad compromissum cogi” (“ Purché però essa richiesta si faccia entro il termine dato a provare in causa, dopo il quale nessuna parte possa essere ulteriormente costretta al compromesso in quella causa”);  cfr. GIANNINI, op. cit. p. 115.        

[18] Cfr. citato parere per “querela nullitatis” del 4 agosto 1996, p. 5, dove peraltro viene fornita una definizione di compromesso in linea con quelle dianzi citate: “il contratto con il quale le parti convengono di sottrarre la definizione dei loro interessi in contrasto alla cognizione del giudice, sollecitando l’intervento stragiudiziale di arbitri tra loro scelti. Può presentarsi come un vero contratto autonomo  oppure come clausola aggiuntiva di altro contratto. La natura del compromesso deve intendersi come atto di disposizione del diritto delle parti  di impedire o di proseguire un rapporto processuale ordinario tra loro, quindi contratto processuale tipico”.      

[19] Cfr. Sentenza n. 182 dell’anno 1999 nella causa civile n. 286/1997, resa in data 23 dicembre 1999, inedita, p. 8. A proposito della tradizionale differenza tra arbitrato rituale ed irrituale il Commissario della Legge nella citata Sentenza afferma che, pur nel vigore della nuova legge sull’arbitrato (18 marzo 1999 n. 34) viene mantenuta la figura dell’arbitrato libero o irrituale accanto a quello rituale. La considerazione muove dall’art. 16 della legge citata: “gli arbitri decidono la controversia secondo le norme di diritto salvo che le parti li abbiano autorizzati a decidere secondo equità”. Tuttavia il giudizio secondo equità previsto dalla nuova legge sull’arbitrato volontario è pur sempre vincolato al rispetto delle formalità procedurali ivi dettagliatamente disciplinate (il riferimento all’equità, è ovvio, riguarda la facoltà del giudice di decidere la controversia senza utilizzare le norme di diritto sostanziale vigenti), ragion per cui questo nuovo genus di procedimento arbitrale non avviene “all’infuori di ogni norma procedurale” e a nostro parere si allontana decisamente dall’arbitrato irrituale, nell’accezione che di questo istituto fornisce la giurisprudenza Sammarinese. Si tornerà nel prosieguo del lavoro su questo punto (già dalla prossima nota).         

[20] In materia di arbitrato la principale contrapposizione terminologica è quella fra arbitrato rituale e irrituale. L’aggettivo “rituale”, rimanda immediatamente al sostantivo “rito”; cominciando da una spiegazione di tipo letterale,  dunque, rituale è l’arbitrato che segue determinate norme positive di legge, che si svolge, cioè, secondo regole che ne definiscono la struttura e lo svolgimento. Tali regole prevedono e disciplinano necessariamente la possibilità che le parti omologhino il lodo (ossia la decisione) arbitrale, cioè il riconoscimento del lodo da parte dello Stato, alla stregua della sentenza civile.

A contrariis, l’arbitrato irrituale o libero, così definito perché escogitato dalla prassi a cavallo del secolo scorso, al posto dell’arbitrato rituale, si discosta ora secondo l’opinione del Fazzalari (op. cit. p. 11 e 12), “non perché di natura diversa o come spesso accade di leggere, si svolge liberamente senza regole che ne definiscono la struttura o lo svolgimento, ma semplicemente perché le parti si vincolano a ciò che l’arbitro disporrà con il lodo, senza la possibilità di omologazione del medesimo da parte di un ordinamento giuridico statale” (per usare un’espressione figurata, questo tipo di arbitrato non plana nell’ordinamento dello Stato). Come vedremo, la Giurisprudenza Sammarinese non aderisce a questa impostazione e pone la differenza tra i due tipi di arbitrato in relazione all’osservanza o meno delle formalità procedurali. Nel diritto sammarinese si considerano forme di arbitrato rituale i due tipi di compromesso previsti dalle Leges Statutae Reipublicae Sancti Marini, l’uno definito volontario al quale in alcuni casi (cause possessorie, questioni di confine, servitù ecc.), il giudice ha facoltà di indurre le parti (Statuti, II, 52 §§ 382-384); l’altro che gli Statuti definiscono necessario e il Giannini coatto, al quale le parti devono essere costrette dal giudice in altri casi sempre, per altro, che almeno una delle parti ne faccia richiesta prima dell’apertura dei termini probatori (Statuti, II, 6, § 124, 60, §§ 415-421; cfr. Sentenza del Giudice delle Appellazioni 21 giugno 1977, in Giur. Samm., 1970 -1980 p. 19”; Sentenza n. 182 dell’anno 1999, nella Causa civile n. 288 dell’anno 1997, inedita. L’arbitrato irrituale è una categoria che nel diritto sammarinese (almeno fino all’entrata in vigore della nuova normativa), si desumeva a contrariis dalla categoria dell’arbitrato rituale, in pratica tutte le forme arbitrali diverse dalla due tipizzazioni statutarie erano considerate irrituali o libere: tuttavia, appunto, con l’entrata in vigore della nuova normativa che “procedimentalizza” in misura notevole l’arbitrato volontario o libero, la contrapposizione non si può più porre nei precedenti termini, dato che il fenomeno arbitrale è venuto ad essere totalmente ricompreso nella maglie dell’ordinamento giuridico.                   

[21]In Giur. Samm. dal 1964 al 1969, p. 346 ss, citata.

[22] Un attento esame storico della figura dell’arbitrator, mostra come fino al XIII secolo, questi fosse soprattutto un estimatore, un’amicabilis compositor e come tale non decideva alcuna lite ma solo concorreva a determinare uno o più elementi giuridici controversi. In effetti fino a quel momento l’arbitrator si inseriva  spesso per determinare solo la misura di una prestazione (determinandone il “giusto prezzo”), in un rapporto negoziale già strutturato, al fine di un completo perfezionamento dello stesso (cfr. MARTONE, op. cit., pp. 98 ss.). GUGLIELMO DURANTE, Speculum iuris, op. cit., p 155, scrive che l’arbitrator interveniva “ad costituenda pretium venditionum” , e con ciò egli intendeva esprimere il nesso logico e pratico che univa l’elaborazione teorica sul giusto prezzo, vivamente avvertita nella seconda metà del XIII secolo, all’attività dell’arbitrator, ossia allo sviluppo della funzione concreta da questi assolta nella formulazione di norme di esperienza che risolvevano l’incertezza sul valore delle merci scambiate o da scambiare. (Interessante rilevare che il Savigny, accennando allo Speculum di Durante, notava che quest’opera “acquista poi un pregio speciale per questo, che essa non è solo frutto di attenti studi sui libri, ma racchiude l’esperienza di una vita attivissima “, F.C. SAVIGNY, Storia del diritto, Torino, 1857, II, p. 536). E’ solo a partire dal XIV secolo, che la figura dell’arbitrator assume quelle funzioni compiutamente transattive, alle quali è solita far riferimento la Giurisprudenza Sammarinese (per tutte si veda la citata Sentenza del Commissario della Legge 14 gennaio 1967 nella Causa Civile n. 392 dell’anno 1964, p. 256). Le sistemazioni di Bartolo e di Lanfranco, vedevano nel compito dell’arbitrator qualcosa di diverso dal completamento di una determinazione lasciata appositamente incompleta. La prassi era ormai abituata ad un arbitrator che non interveniva soltanto per interpretare un negozio imperfetto, ma per decidere una controversia. Su questa linea cfr. PIERRE JACOBI D’AURILLAC, Tractatus de arbitris et arbitratoribus, § Arbitrator quis dicatur, n. 6 , in “Tractatus Illustrium”, t. III, pars I, fol. 309v,: “Sententia arbitratorum est quaedam transactio”; l’arbitrator  non era più visto come un semplice mandatario con il compito di completare un contratto. In quel caso si trattava di una specifica attività legata alla formazione di una volontà contrattuale. In tal modo la dottrina si “apriva” ad un nuovo tipo di arbitrato, già peraltro riconosciuto ed operante all’interno e da parte delle Corporazioni di mestiere che ricorrevano all’arbitratore per la integrale risoluzione del rapporto giuridico incerto. Se Pierre Jacobi (per un profilo biografico di questo giurista del XIV secolo si veda CORTESE, Scienza di giudici e scienza di professori tra XII e XIII secolo, in, “Legge, giudici, giuristi”, Atti del Convegno tenuto a Cagliari, 18-21 maggio 1981, Milano 1982,. p.126 e la bibliografia ivi richiamata) non giunse a risultati definitivi, una compiuta sistemazione delle funzioni e della figura dell’arbitrator, avvenne ad opera di BARTOLO DI SASSOFERRATO: nel Tractatus de arbitris, cit., § Arbiter dicitur, n. 2, fol.146r, il giurista afferma che “arbitrator est qui consilio suo tamquam fide, et bon motu, nulla iuris solemnitate servata et absque iudiciorum strepitu litem decidet” ed ancora nel delinaare le differenze con l’arbiter giunse ad affermare che “arbiter tenetur cognoscere secundum formam iuris civilis, arbitrator vero ex equitate” (Ivi, § arbiter et arbitratore in quibus differat, n. 18, fol. 146v.). L’illustre giureconsulto anche dal punto di vista terminologico allarga gli orizzonti sistematici dell’istituto arbitrale. Egli “utilizza il vocabolo lis per definire anche la competenza dell’arbitrator e non solo quella dell’arbiter. Ormai sia l’arbiter che l’arbitrator decidevano le liti: il primo in base alle norme previste dall’Ordo iudiciarius, il secondo indipendentemante da essa” (così MARTONE, op. cit., p.111). Lanfranco da Oriano, ribadisce e approfondisce il solco dalla figura dominante fino al XIII secolo dell’arbitrator mandatario, ossia di terzo che svolge una attività tecnica e professionale per il completamento di un contratto in fieri, ma bensì di un soggetto al quale le parti affidavano in via transattiva la decisione sulla controversia tra esse insorta, decidendo attraverso la logica equitativa sempre tuttavia all’interno di un procedimento: “arbitrator non tenetur servare iuris ordinem in procedendo”(LANFRANCO DA ORIANO, Tractatus de arbitris, cit., pars I, § Arbitrator in causa propria, n. 8 fol. 207r).  .                                  

[23] Sul punto si vedano le considerazioni svolte in nota 20.

[24] Cfr. Sent. 13 agosto 1957, in Giur. Samm. 1964 fasc. 1, pg. 60; ed anche citata Sent. 14 gennaio 1967 nella Causa Civile n. 392/1964, in, Giuris. Samm. 1963 p. 256.

[25] Sull’estinzione del processo in generale, si veda CALVOSA, Estinzione del processo civile, in Novissimo Dig. It., VI, Torino, 1960 p. 976 ss.; BIANCHI D’ESPINOSA BALDI, Estinzione del processo, (dir. proc. civ ), in, Enciclopedia del diritto, XV, Milano, 1966, p.916 e ss.; VACCARELLA, Inattività delle parti ed estinzione del processo di cognizione, Napoli, 1975, p. 17 e ss., dove l’Autore esamina il percorso evolutivo dall’istituto della perenzione (istituto che nel codice italiano previgente era disciplinato in luogo dell’estinzione) a quello appunto dell’estinzione. L’istituto della perenzione è invece tuttora vigente nel diritto sammarinese ma, come osserva il GIANNINI, op. cit., p. 91 ss., “ha poco più che il nome in comune con la perenzione stabilita nella maggior parte dei codici di procedura (allora) vigenti”. Secondo l’Autore “la causa è perenta  ove non sia spedita cioè non pronunziata la sentenza, dentro i termini Statutari, i quali decorrono dalla istantia, ossia dalla contenzione della lite [..] Il termine fissato dallo Statuto della Repubblica è di ottanta giorni utili, ai quali si aggiungono altri dieci giorni di tolleranza, e così di novanta giorni in complesso, vale a dire di novanta udienze (Lib. II, Rub. LXIX, lib. II, parag. 469)”. Sull’istituto della perenzione in giurisprudenza si veda la Sentenza resa il 22 gennaio 1987 nella Causa Civile n. 355 dell’anno 1981, in Giurip. Samm. dal 1981 al 1990 , p. 1173 ss.                

[26] Con riferimento alle controversie societarie, la giurisprudenza italiana suole ritenere che non siano compromettibili le controversie che involgono interessi della società o riguardano la violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci o dei terzi (per es. controversie concernenti la revoca degli amministratori o relative alla esclusione del socio, se da essa derivi lo scioglimento della società). In argomento si veda DE FERRA, Clausole arbitrali nel diritto delle società, in, Riv. arb., 1993, pp. 297 ss.

[27] E’ il caso deciso dal Commissario della Legge con Sentenza n. 95 dell’anno 1994, nella Causa Civile ordinaria n. 140 dell’anno 1990, inedita, su cui diffusamente nel prosieguo del lavoro. Vorremmo tuttavia sottolineare che nella pratica contrattuale, le stesse clausole pattizie – sebbene si definiscano o siano intitolate compromissorie – spesso contengono di fatto elementi dell’arbitraggio, della perizia ovvero della semplice conciliazione preventiva. Talvolta addirittura dette clausole contengono elementi dell’uno e dell’altro istituto, con evidenti problemi per il futuro svolgersi dei rapporti. In altri casi gli arbitri stessi, nel quadro della funzione loro affidata, finiscono con lo sconfinare in determinazioni più tecniche che giudiziali, oppure, assumono l’iniziativa di tentare la conciliazione fra le parti. (cfr. dispensa del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, Arbitrato: lo strumento e la sua diffusione, a cura della Commissione di Studio sull’Arbitrato del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, 9 ottobre 1998, pp. 13 e 14). Ritornando al caso dianzi citato di cui si è occupata la giurisprudenza sammarinese, si pensi al caso che la clausola o perizia tecnica prevedesse sì il deferimento ad arbitri di cognizioni e valutazioni tecniche particolari ma tuttavia nell’ambito di un iter procedurale in cui fossero previsti tempi, modalità di nomina degli “arbitri”, eventuali norme sulla astensione e norme relative alla istruzione e al procedimento dinanzi a questi. E’ indubbio che la “diagnosi” del Giudicante, in tale ipotesi, sarebbe stata assai meno pacifica.              

[28]  Citato parere per querela nullitatis nella causa civile n. 259/1994, reso in data 4 agosto 1996, p.5.   

[29] Per la dottrina classica l’arbitrato era il risultato di due negozi convergenti, il compromissum appunto, cioè la convenzione mediante la quale le parti deferivano la decisione sulla lite all’arbiter ed il receptum arbitri, cioè l’atto con il quale l’arbiter accettava la propria funzione (cfr. MARTONE, op. cit. p. 26 ss.).Con il compromissum le parti si impegnavano soltanto ad accettare un nuovo assetto dei rapporti giuridici tra lori intercorrenti ed in conflitto, questa importantissima attività di definizione veniva affidata all’arbiter senza altri limiti che quelli fissati nel compromissum. In altre parole all’arbiter veniva data ampia disponibilità nella individuazione del petitum. Così mentre il potere dell’arbitro di decidere si fondava sulla nomina delle parti, dalla accettazione di essa nasceva il correlativo dovere di pronunciare il lodo. Al di là di questo limite il compromesso era “sostanzialmente privo di contenuto concreto”(MARANI, op. cit., p. 19), perché ancora imprecisato era il comportamento cui le parti si vincolavano. 

L’attività dell’arbiter stava appunto per la giurisprudenza del Principato, nel regolare il rapporto litigioso e nel precisare il contenuto del compromissum, quindi era sostanzialmente conferito all’arbiter un mandato generalizzato a decidere la controversia. Di conseguenza era ”per espressa volontà degli interessati che il risultato dell’attività del terzo (sententia), privo di un proprio valore autonomo, perché mancava all’arbitro qualsiasi strumento di coazione per imporsi ai contraenti, era riferito al rapporto controverso e assunto come elemento costitutivo (oggetto) del patto compromissorio., come se fosse diretta emanazione delle parti” (ancora MARANI, op. cit. p. 20). In tal modo risultava quanto mai evidente che la decisione dell’arbiter, determinata dalla nomina delle parti, non poteva formare giudicato. Pertanto, la decisione dell’arbitro era obbligatoria per le parti, ma non era esecutiva per se stessa. Perché acquistasse questa qualità, le parti aggiungevano al compromesso una reciproca stipulatio poenae per il caso di mancata accettazione del lodo arbitrale (all’inadempimento che risultava da questa stipulatio era concesso in diritto romano classico un actio ex stipulatu la cui funzione non era identica a quella che nel processo era adempiuta dall’actio iudicati conseguente alla condanna). La compilazione giustinianea modificò questo sistema: nel Corpus Juris la convenzione di compromesso e la relativa accettazione dell’incarico fatta dalla persona in essa designata come arbitro  - in altri termini compromissum e receptum arbitri – costituivano un tutt’uno, impegnativo sia per le parti che per l’arbiter.

Ad opera di Giustiniano si passò, dunque, dalla considerazione del compromissum quale risultato di una doppia stipulazione alla sua valutazione nei termini di pactum legitimum (cfr . GRIFO, Arbitrato, diritto romano, in “Enc. del Diritto”, II, Milano, 1958 p. 894; in tal senso si veda anche TALAMANCA, Ricerche in tema di “compromissum”, Milano 1958, pp. 52 ss. ). Sia ad opera dei glossatori della Scuola di Bologna che successivamente da parte degli autori tardomedioevali di diritto comune, era costante il riferimento alla mancanza di iurisdictio negli arbitri. A tal scopo molti autori si soffermarono su quella indicazione contenuta nel Codex circa gli atti dai quali rispettivamente iudex  ed arbiter derivavano la propria potestas: “Privatorum consensus judicem non facit enim qui nulli praeest judicio: nec, quod is statui rei iudicatam continet auctoritatem”(C. III, 13, 3).

 

[30] Per una trattazione generale della “causa” contrattuale nella manualistica italiana si veda GALGANO, Diritto civile e commerciale, Vol. II° Tomo I°, IIa ed., Cedam, 1993, p. 179 ss.. Interessanti considerazioni in G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, passim ed anche in NUZZO, Utilità sociale ed autonomia privata, Milano 1975, p. 97 ss. In un ottica comparativistica si vedano le considerazioni svolte in GALGANO (a cura di), Atlante di diritto privato comparato, Zanichelli Ed., Bologna, 1992 , Tavola 8 (Causalità e astrattezza del contratto), pp. 89 ss, dove si contrappongono i sistemi francese e tedesco. Il primo ( al quale si conforma l’ordinamento italiano) è caratterizzato dalla necessità che il consenso delle parti sia fondato su una causa  per divenire giuridicamente efficace, nel sistema tedesco invece la causa non è un  elemento necessario di tutti i contratti. Ovvero il contratto può ridursi al solo accordo puro astratto delle parti; il semplice accordo può produrre effetti giuridici. Per la Cassazione italiana “la causa del contratto si identifica con la funzione economico sociale che il negozio obbiettivamente persegue e che il diritto riconosce rilevante ai fini della tutela apprestata” Cass., 18 febbraio 1983, n. 1244, in, Mass. Foro it., 1983. Sulla questione dei contratti atipici e della loro meritevolezza per l’ordinamento giuridico ai sensi del II° comma dell’art. 1322 c.c. italiano si veda COSTANZA, Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, 1987, p. 422 ss.    

[31] Come accennato alla nota precedente, per i contratti atipici, il giudice italiano dovrà accertare ai sensi dell’art. 1322 II° comma c.c., se questi siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico”, dovrà in altre parole, accertare se nel modello di operazione economica, che la legge non aveva previsto, al quale le parti hanno conformato il regolamento dei propri interessi ricorra il requisito della causa atipica.  Viene in tal modo riconosciuto un controllo giudiziario sull’uso che i privati fanno della propria autonomia contrattuale.     

[32] Si veda tra le tante la Sentenza 14 gennaio 1967 nella Causa Civile n. 392/1964, in, Giur. Samm dal 1963 al 1969, p. 346. Anche la Cassazione italiana in numerose decisioni ne ha ribadito il concetto (cfr. Cassazione 9.03.1982 n. 1519; Cassazione, Sez. III, 04.10.1984 n. 8075): il supremo consesso in particolare ha affermato che mentre l’arbitrato rituale ha natura procedimentale e sfocia in un provvedimento che ha efficacia di sentenza, l’arbitrato irrituale ha natura negoziale e comporta un accertamento sostitutivo della volontà delle parti. In questo senso si veda la Cassazione, Sez. III,  04.10.1994 n. 8075 dove l’arbitrato irrituale viene presentato come nulla più e nulla meno che la determinazione affidata ad un terzo del contenuto di una transazione, impegnandosi le parti ad accettare il risultato dell’opera del terzo come se lo avessero voluto esse stesse direttamente. Nell’ordinamento giuridico italiano, in seguito all’entrata in vigore della Legge n. 25 del 1994 – che rende vincolante per le parti il lodo irrituale che non abbia ancora acquisito efficacia esecutiva in virtù dell’exequatur pretorile – la Cassazione ha ritenuto sbiadita la distinzione tra i due tipi di arbitrato (cfr. Cass. Sez. I, sez. I, 04.10.1994 n. 8046). Ad analoghe considerazioni eravamo addivenuti, al termine del I° paragrafo, in relazione alle differenze tra i due tipi di arbitrato nell’ordinamento sammarinese a seguito della Legge n. 34 dell’anno 1999.        

[33] La considerazione è di MARTONE, op. cit., p. 121. Un segno evidente dei nuovi tempi fu l’affermarsi della nuova formula: “Arbitramentum est quaedam transactio” (formula adottata da UBALDO DEGLI UBALDI, in Primam Digesti Veteris Partem Commentaria, 1, Diem proferre, § Arbitramentum est quaedem transactio, n. 2, Venetiis 1577, fol. 265r e ripetuta da MARANTA, Speculum Aureum, cit., pars IV, XIV distinctio, § Arbitramentum est quaedam transactio, n.3, fol. 106v che ricalcava in maniera fedele il commento di Baldo. Fuori da questa dominante logica dottrinale evolutiva e su considerazioni più rigide e tradizionali, si erano attestati alcuni autori quali DINO DA MUGELLO, secondo cui “arbitramentum est improprie transactio, et coram arbitratore non est lis” (citato da FRANCESCO DEGLI ACCOLTI, In primam et secundam Digesti Novi partem Commentaria, Venetiis 1589, § Differentia an sit arbitratorem electum super lite, et procuratorem constitutum ad contractus, n. 7, fol. 115r). Francesco degli Accolti in altri passi espresse forti perplessità nei confronti di quelle formulazioni che stabilivano stretti nessi tra arbitramentum e transazione. Nei Commentaria  egli tenne innanzitutto a precisare che “arbitramentum est transactio largo modo, et prout transactio est nomen generis, non prout est nomen specifici, ut declaret Bartolus” (Ibidem, n. 7, fol. 113r).                   

[34] TRIANI, Studi ed appunti di diritto giudiziario civile, Del compromesso, Bologna, 1883, p. 277-278.

[35] Così, DIGESTO ITALIANO, op. cit., p. 548  

[36] BARTOLO DA SASSOFERRATO, Tractatus de arbitris, §, arbiter quis sit, n. 2 , in Omnia quae extant Opera, Venetiis 1602, t. X, fol. 146v.

[37] FAZZALARI, op. cit., p. 45

[38] RICCI, Commento al Codice di Procedura Civile, vol. 1, n. 3 e n. 14. L’impostazione ha avuto una certa fortuna anche nella Giurisprudenza: la sentenza 17 febbraio 1873 della Corte di Appello di Firenze (Ann. VII, 2, 553) ha confermato che “il compromesso è un contratto parificato di fronte agli arbitri ad un mandato speciale”. Il Procuratore generale Mourre sentenziava all’udienza della Corte d’Appello di Parigi il 16 settembre 1809 ”Il compromesso è il mandato, la sentenza non ne è che l’esecuzione”.     

[39] CUZZERI, Annuario, vol. IV, p.75

[40] TRIANI, op. cit., p. 295 

[41] La dottrina processualistica non esita ad indicare nella tutela dell’imparzialità del giudice (in questo caso dell’arbitro), comunemente intesa come terzietà del giudicante, rispetto agli interessi concretamente fatti valere nel processo (o nel procedimento), l’esigenza da salvaguaradare attraverso le norme sulla recusazione ed astensione; cfr. fra gli altri RICCI, op. cit,. p. 195 ss. ; SATTA, Astensione e ricusazione del giudice (dir. proc. civ.), in Enc. del Dir., Milano, 1958, p. 947; CHIAVARIO, Processo e garanzie della persona, II, Milano, 1982, p. 42; DITTRICH, Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice civile, Milano, 1990, (e.d.f.c.) pp. 51 ss. Una felice sintesi della storia della ricusazione, dalle sue origini all’età delle codificazioni, è contenuta nel parere prestato dal DE DOMINICIS il 1° gennaio 1872 (parzialmente trascritto da PERUZZI, op. cit., p. 99, nota 264) quale consulente “sul incidente di recusa del Commissario della Legge”, nella causa civile tra Arnaldo Casini e Benedetta Caffarelli ved. Filippi, parere conservato nell’Archivio di Stato della Repubblica di San Marino.         

[42] La legge disciplina piuttosto dettagliatamente le modalità di nomina ed il numero degli arbitri (“ il compromesso o la clausola compromissoria devono contenere la nomina degli arbitri oppure stabilire il numero di essi ed il modo di nominarli”, tra l’altro, “possono essere nominati arbitri sia cittadini sia stranieri, dotati della capacità di agire secondo la legge sammarinese” art. II° e I°). Sono previste specifiche procedure anche per la sostituzione degli arbitri (art. 7) e per la loro accettazione che deve essere comunicata per iscritto alle parti “entro il termine di 10 giorni, o nel più breve termine stabilito dalle parti nel compromesso o nella clausola compromissoria”. Sulla linea di quanto accade invece per il mandato ”Gli arbitri una volta accettato l’incarico, non possono rinunciarvi se non per gravi motivi sopravvenuti” (art. 8, I° e II° comma).       

[43] Per quanto concerne i giudici ordinari, l’art. 17, ultimo comma della Legge 28 ottobre 1992 n. 83 (“Ordinamento giudiziario”), dispone che sulle richieste di astensione e ricusazione giudichi il Consiglio dei XII.    

[44] AMAR, Dei giudizi arbitrali, II Ed. Capitolo VI, art.1 , n.30 Torino, 1879, p. 89.

[45] La locuzione verrà utilizzata, anche altrove, per indicare la Legge 18 marzo 1999 n. 84 sull’arbitrato.

[46] Sempre l’AMAR nell’opera citata, rileva che “opportunamente la Corte di appello di Torino, con sentenza 29 dicembre 1866 (Geisser c. Tesio e Gatti, in, Giur. Ital., XVIII, 2, 709; Giurisp., Torino, IV, 184; Ann., I, 2,211), dichiarando che il contratto di compromesso, sia per la natura sua, sia per le conseguenze, non vuolsi confondere con il mandato, decideva che pel fallimento del compromettente non cessa l’ufficio degli arbitri, mentre pel disposto dell’articolo 1757 del codice civile, il mandato si estingue per il fallimento del mandante”. Ciò naturalmente consegue alla constatazione che il mandatario è un “rappresentante” del mandante ed il suo rapporto giuridico è strettamente collegato alle “sorti” patrimoniali del mandante, viceversa l’arbitro, una volta investito della carica dalle parti, viene ad assumere una propria posizione, indipendente e appunto di terzietà rispetto a queste.          

[47] Sull’istituto dell’arbitraggio si veda FAZZALARI, Arbitrato e arbitraggio, in, Riv. arb., 1993, 583 ss.  Nel diritto intermedio nel quale emersero il nome e la figura generale, l’arbitrator fu profilato e si affermò come terzo interposto per il completamento del contratto e per la composizione del dissenso dei paciscenti; tuttavia per opera degli scolastici, Bartolo alla testa, la figura dell’arbitrator subì importanti modificazioni - si noti che l’illustre giureconsulto usava il vocabolo lis,  non solo per definire la competenza dell’arbiter ma anche quella dell’arbitrator- : vi era quindi secondo Bartolo, materia per decidere non già mera valutazione in ordine ad una parte del rapporto che non è ancora perfetto ( sul punto si veda MARTONE, op. cit,. pp. 109,111 e le osservazioni svolte alla nota 356). Ciò ricorda i primordi dell’arbitrato nell’esperienza romana, quando la funzione del terzo – che nel periodo etrusco della Roma regia comincerà a chiamarsi arbiter – era quello di cooperare innanzitutto sul piano commerciale: un “sensale” è stato detto di recente (cfr. MARTINO, Arbiter, Roma 1986). Sulla figura dell’arbitratore nel XII e XIII secolo, anche in relazione alla teoria del giusto prezzo, si vedano le considerazioni svolte in nota 22.    

[48] FAZZALARI, L’arbitrato, op. cit., p. 28

[49] In arg. FAZZALARI, Valori permanenti nel processo, in, Iustitia, 1989, p. 236 ss. 

[50] Occorre liberare il campo da un possibile equivoco: quando ci si riferisce ad una struttura processuale, si utilizza il termine quale sinonimo di procedimento e non di “processo”. Alla categoria dei procedimenti appartiene pure il processo che si qualifica quale procedimento cui partecipano, (rectius, sono abilitati a partecipare), coloro nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a svolgere affetti: in contraddittorio ed in modo che l’autore dell’atto non possa obliterare le loro attività. Per distinguere il processo dal procedimento, non basta il rilievo che nel processo vi è la partecipazione di più soggetti, che cioè gli atti che lo costituiscono sono posti in essere non solo dall’autore dell’atto finale, ma anche da altri soggetti. La struttura dialettica consiste nella partecipazione dei destinatari degli effetti dell’atto finale alla fase preparatoria del medesimo: nella simmetrica parità delle loro posizioni; nella mutua implicazione delle loro attività. In ordine alla distinzione della categoria processo dal genus procedimento, occorrerà ricordare che oltre ai processi nei quali si svolge la iuris dictio, cioè lo Stato adempie, per ministero dei suoi giudici, il compito fondamentale di rendere giustizia (in materia civile, penale ecc.), vi sono i processi di giurisdizione volontaria, che realizzano la soddisfazione di alcuni interessi, affidati alla tutela ed alla sorveglianza dei giudici dello Stato (nell’ambito di tale categoria peraltro, i processi sono l’eccezione, i procedimenti la regola); i processi in cui si svolge l’attività degli organi statali costituenti la “pubblica amministrazione” (anche queste attività si realizzano, di regola, attraverso procedimenti meri). Nell’area del diritto privato, oltre l’arbitrato non può escludersi altro impiego della struttura processuale, nell’ambito ed ai fini dell’esercizio dell’autonomia privata: si pensi, ad es., all’iter che mette capo alla delibera di un’assemblea di società ed al contraddittorio che ivi può svolgersi.

[51] Le sistemazioni dottrinali finalizzate a porre un argine netto tra arbitrato e arbitraggio, tuttavia, scontano sovente il vaglio della pratica. La Corte di Cassazione italiana, con la Sentenza n. 2949 del 29.04.1983 ha affermato che l’arbitratore può assumere previo accordo delle parti, anche la veste di arbitro rituale. La distinzione in esame emerge tuttavia, ai fini dell’impugnazione (in riferimento all’ordinamento italiano), in quanto solo in caso di arbitraggio sarà ammissibile l’impugnazione del lodo per manifesta iniquità (Cass. 25.06.1983, n. 4364).   

[52] Sentenza inedita.

[53] Mentre nell’arbitraggio le parti possono demandare al terzo (per svariati motivi), anche la determinazione di un elemento contrattuale  per il quale comunque possiedono le necessarie competenze tecniche, nella perizia contrattuale il terzo integra la fattispecie contrattuale mediante un addendo relativo a cognizioni tecniche che queste ignorano.  

[54] Il decidente rigettava con la suesposta  motivazione l’eccezione del convenuto relativa al difetto di giurisdizione del tribunale ordinario nella vertenza de qua, per la presenza nel contratto di assicurazione su cui  verteva il giudizio, di una vera e propria clausola compromissoria, che avrebbe dovuto escludere il ricorso alla citata autorità.

[55] I più diffusi esempi di ricorso all’istituto in esame si evidenziano in materia di risarcimento danni a seguito di incidente (è il caso peraltro trattato dalla citata Sentenza): le parti, di solito, non prendono in considerazione l’an, cioè l’avvenuto incidente, le responsabilità e l’obbligo di risarcimento, ma intendono demandare la determinazione del quantum, ossia dell’ammontare del risarcimento dovuto, ad un perito tecnico.  

[56] Cfr. FAZZALARI, op. cit., p. 29; sull’argomento si vedano pure le osservazioni di VASETTI, Arbitrato irrituale, in, Nov. Dig. It., I, 2, Torino, 1957, p. 863 ss.

[57] In arg. BRIGUGLIO, Conciliazione giudiziale, in, Dig. Disc. priv., Sez. civ., III, Torino, 1998, p. 207 ss.  

[58] FAZZALARI, ult.op.cit., p. 29.

[59] Un passo di Ulpiano inserito nel Digesto sembrerebbe favorevole: “plenum compromissum appellatur quod de rebus omnibus controversie compositum est, nam ad omnias controversias pertinet” (Parag. 6, Leg. 21, Dig., Lib. IV, tit. De receptis). Tuttavia alcuni autori di diritto comune dell’autorità del VOET (Ad pandectas, IV, 7, n. 18) e del POTHIER (Pand., Lib, IV, tit. VIII, sez. I, parag. 8), spiegano che il passo di Ulpiano si riferisce alle controversie presenti e non alle future ed invocano a sostegno il seguente passo di Paolo “de his rebus et rationibus et controversiis, judicare arbiter potest, quae ab initio fuissent inter eos qui compromiserunt , non quae postea supervenerunt” .            

[60] In questi termini la Sentenza resa dal Commissario della Legge l’11 maggio 1951 nella Causa Civile n. 264 dell’anno 1949, poi ripresa nel GIANNINI-VIROLI, op. cit., p. 117.    

[61]In questo senso può risultare interessante analizzare la sentenza del 4 marzo 1987 nella Causa Civile n. 19/1987 (in Giur. Samm. dal 1981 al 1990, op. cit., pg. 1202). La materia del contendere riguardava “gli effetti prodotti dalla clausola compromissoria contenuta nell’art. 7 dello statuto sociale di una società anonima di diritto sammarinese”, della quale una parte chiedeva l’applicazione. Detto art. 7 dello statuto sociale, espressamente recita: “in caso di vertenza nascente fra i soci sul trapasso o possesso delle azioni, i soci stessi si impegnano di deferire la controversia ad un Collegio Arbitrale, composto di tre persone nominate una per parte dai due contendenti e la terza di comune accordo, oppure, in caso di disaccordo, trascorso il termine di 60 giorni su istanza della parte più diligente, dal Commissario della Legge di San Marino”. Parte convenuta pretendeva di applicare la suddetta clausola, all’esercizio del diritto di opzione sulle nuove azioni emesse dalla Società Anonima. Tuttavia il disposto letterale della clausola appariva chiaro e riguardava appunto “ogni vertenza tra i soci, che fosse scaturita per il trapasso ed il possesso delle azioni”. Nulla quaestio riguardo l’interpretazione del termine possesso, che è nozione giuridica precisa con la quale si indica l’effettivo potere “di fatto” su un bene mobile o immobile. Il termine trapasso è improprio, (termine atecnico secondo il Commissario della Legge), ma appare chiaro che nel contesto del sesto comma dell’art. 7 dello statuto sociale, poteva essere inteso soltanto come trasferimento delle azioni, cioè come atto o negozio con il quale si trasferiscono quei documenti o certificati (titoli di credito causali) che rappresentano le quote di partecipazione dei soci al capitale sociale e tutti i diritti derivanti dal contratto di società (agli utili netti, al patrimonio netto, al diritto di voto nelle assemblee, ecc.).

Il Commissario della Legge, concludeva affermando che: “stante il testo riportato della clausola compromissoria di cui all’art. 7, sesto comma, dello statuto sociale, non sembra proprio che nell’oggetto dell’arbitrato al quale i soci hanno promesso e si sono obbligati di aderire, possa ricomprendersi il diritto di opzione o l’esercizio del diritto di opzione sulle nuove azioni. Perché una lite avente tale oggetto fosse stata compromettibile in arbitri avrebbe dovuto essere espressamente prevista dalla riferita clausola compromissoria, che per essere pattuita tra le parti, come la ritiene la giurisprudenza sammarinese, è di stretta interpretazione” .Ora, un’interpretazione letterale dell’art. 3, I° comma, della Legge n. 34/1999, in cui appunto si sancisce che nella clausola compromissoria “le parti si impegnano a far decidere da arbitri tutte le controversie future nascenti dal contratto medesimo”, porterebbe a far ritenere invalida la riferita clausola dell’art. 7 dello statuto sociale, poiché questa  non prevede il deferimento ad arbitri di ogni controversia che potesse insorgere tra i soci in riferimento al contratto di società. E’ certamente il caso di non avvallare una interpretazione di tal genere dell’art. 3 legge cit., in quanto in disaccordo con una consolidata tradizione consuetudinaria, anche se a rigore, l’art. 24 della Legge sull’arbitrato, prevede espressamente l’abrogazione di tutte le norme, anche consuetudinarie in contrasto con la citata legge

[62] Già citata Sentenza 4 marzo 1987 nella causa civile n. 19 dell’anno 1987, in, Giuris. Samm. dal 1981 al 1990, p. 1202    

[63] Il concetto di limine litis dipende specularmente dalla nozione di litis contestatio identificandosi il primo nella fase processuale che precede la contestazione della lite. D’altronde anche la definizione di litis contestatio è relativa, in quanto come rileva il GIANNINI, op. cit., p. 92 “l’apertura dei termini probatori, può segnare il momento in cui  si deve, sotto ogni rispetto e per ogni fine, riguardare come contestata la lite, questo essendo detto in parecchi altri Statuti.  Ma se l’apertura dei termini probatori equivale a contestazione della lite, in quanto si debbono per necessità a qul momento determinare i punti della controversia, non è detto che anche prima non possa verificarsi contestazione di lite. Questa infatti si riscontra ogni volta che il convenuto, invece di richiedere un termine per disporre, oppure trascorso questo termine se lo ha domandato, oppone eccezioni generiche conosciute nella pratica come generalia contra, o specifiche o perentorie, o quando opponga una riconvenzionale e finalmente in tutti i casi simiglianti, nei quali si determina l’oggetto del dibattito ed il giudice causam adire incipit.” Secondo il VOET, Commento alle Pandette, Vol. I, Lib. V. Tit. I, § CXLIV, p. 1209, la litis contestatioAltro non è se non il domandare (intentio) che fa l’attore e il contraddire o respingere la domanda che fa il reo; laonde sorge dall’azione e dall’opposta eccezione perentoria , e comprende ciò che in sta l’intera controversia”. Parimenti secondo il DE LUCA, Instituta civile, Lib. V, Tit. IV, § 23, la contestazione della lite si realizza ”con la prima protesta, opposizione altro impugnativo fatto dopo la prima citazione al libello o petizione”.    

[64] In realtà la considerazione è da attribuirsi al Viroli, GIANNINI-VIROLI, op. cit., p. 118, il quale conclude le annotazioni sull’istituto de quo, affermando che: “Non appare invece lecito nell’ipotesi di clausola compromissoria contenuta in contratto che venga stipulato in San Marino e tra cittadini sammarinesi o tra questi e cittadini esteri, rimettere la nomina degli arbitri o del terzo arbitro ad autorità giudiziaria estera, in quanto le Leges Statutae dispongono che “si partes ipsae in eligendum tertium non fuerit concordes, per Capitaneos tertius unus, partibus non suspectus eligatur” . L’istituto è ora disciplinato dalla Legge 18 marzo 1999 n. 34, tuttavia, come si dirà nel prosieguo della ricerca, sussiste un area “residuale” di applicazione del diritto comune, dovuta al tenore letterale della clausola abrogativa espressa prevista dall’art. 24 della Legge citata. 

[65] Cfr. Sentenza 11 maggio 1951 nella causa civile n. 264/1949.   

[66] Cfr: Sentenza citata alla nota precedente