inserito in Diritto&Diritti nel ottobre 2001

Il nome a dominio: qualificazione giuridica e risoluzione alternativa delle controversie

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Di Luca Giacopuzzi

Il sistema di assegnazione dei "domain names" si regge su due principi fondamentali:

a) p. dell’"unicità" del nome a dominio, nel senso che non possono esistere due indirizzi Internet identici, ossia due indirizzi col medesimo SLD;

b) p. del "first come, first served": il nome a dominio viene assegnato al primo richiedente, senza che sia necessaria un’indagine di merito volta ad appurare se il registrante abbia o no un effettivo titolo a vedersi assegnato il dominio da lui prescelto. Un criterio, insomma, di mera priorità cronologica, con il risultato – di grande rilievo pratico – che chiunque può registrare come proprio nome di dominio un marchio altrui, escludendo così qualunque altra persona (incluso il legittimo titolare) dall’uso del medesimo sulla rete.

 

Il sopradescritto sistema di assegnazione, così come congegnato, ha permesso la nascita e la diffusione del "domain grabbing", vero e proprio fenomeno di massa che consiste nell’indebito accaparramento di domini corrispondenti a marchi celebri altrui: l’assegnatario del dominio, infatti, si rivolge a chi abbia un effettivo interesse al dominio stesso e ne propone a caro prezzo il trasferimento. E, com’è facile intuire, dal domain grabbing alle dispute in Tribunale il passo è stato breve, sicchè anche da noi si sta tuttora assistendo ad una vera e propria "guerra giudiziaria" che ha per oggetto il DN.

 

Di fronte ad un conflitto, di fronte a due soggetti che vantino una pretesa nei confronti del nome a dominio, dobbiamo innanzitutto "qualificare" il DN. Dobbiamo cioè rispondere alla domanda "che cos’è?" il DN.

 

E la risposta è facile da un punto di vista tecnico: il dominio è un indirizzo alfanumerico che identifica singoli siti web e ne permette l’accesso. Possiamo precisare ulteriormente: è una stringa di caratteri alfanumerici (a…z, A…Z, 0…9,-) che identifica mnemonicamente una risorsa della rete che ha un indirizzo numerico (il c.d. numero IP). (La definizione tecnica completa è RFC 1035 ed è localizzata in rete come segue: ftp://ftp.nic.it/rfc/rfc1035.txt).

 

Da un punto di vista giuridico, invece, la risposta è un punto di domanda.

Eppure "dobbiamo" trovare una risposta, abbiamo necessità di farlo, perché stabilire la natura del DN significa decidere il tipo di tutela che deve essergli accordata.

 

In base al modo in cui viene qualificato, esso può essere idoneo a generare confusione con i segni distintivi altrui (e quindi il suo titolare può divenire soggetto passivo di cause di contraffazione) oppure restarne immune.

Se il nome a dominio, invece, fosse solo un indirizzo (come un recapito postale o un numero di telefono) le possibilità di aggredirlo e di difenderlo sarebbero limitate.

 

E, nello stabilirne la natura, le opzioni sono essenzialmente due: "segno distintivo" o "mero indirizzo telematico".

 

Stando alla realtà delle aule di giustizia italiane, va segnalato che prevalentemente il DN è stato qualificato come "segno distintivo atipico" dell’imprenditore che opera nella rete, la quale costituisce un immenso mercato virtuale (in questi termini: Tribunale Cagliari, 25.12.00, "caso Andala").

 

Partendo da questa premessa – e considerato che non esiste una disciplina legale tipica per questa nuova fattispecie – i Giudici, per condannare le ipotesi di abuso di domini, hanno applicato la normativa esistente nel nostro ordinamento in materia di segni distintivi.

In particolare alcuni Tribunali, investiti della questione prevalentemente con ricorsi ex art. 700 c.p.c., hanno assimilato (più o meno esplicitamente) il nome a dominio al marchio, applicando di conseguenza le norme del R.D. 929/1942.

(Tribunale di Roma, 02.08.97, caso "Porta Portese"; Tribunale di Verona, 25.05.99, caso "Technovideo").

 

Altre decisioni, invece, identificano il DN all’insegna, sostenendo che il primo svolge l’identica funzione della seconda di contraddistinguere il luogo virtuale in cui l’imprenditore offre i propri prodotti o servizi al pubblico.

(Tribunale di Milano, 10.06.97, caso "Amadeus"; Tribunale di Modena, 01.08.00, caso "Modena on line").

 

Le pronunce italiane, in ogni caso, sembravano riproporre, più o meno pedissequamente, l’orientamento già delineato dalle Corti d’oltre Oceano e parevano comunque "marciare in un’unica direzione", perché – come abbiamo visto – il DN è stato parificato al marchio o quanto meno all’insegna e sono state ritenute applicabili la normativa di cui al R.D. 11 giugno 1942 n. 929 e le disposizioni codicistiche in tema di concorrenza sleale.

 

Tutto ciò fino all’estate del 2000, quando un’ordinanza del Tribunale di Firenze (seguita a breve distanza da un’altra pronuncia del medesimo Tribunale) ha rotto il fragile equilibrio che si era venuto a creare.

 

E’necessario, a questo punto, analizzarle brevemente, cominciando dalla prima delle due.

La decisione definisce una lite, riguardante il nome a dominio "sabena.it", insorta tra la nota Compagnia aerea e la società A&A (società che tutto faceva tranne che far volar aerei), la quale era l’assegnataria del dominio "sabena.it".

La Compagnia di bandiera belga, nonostante fosse titolare del marchio internazionale "sabena", alla fine ha avuto torto e le è stata negata la tutela cautelare.

Un vero paradosso, che tuttavia si è verificato. Perché?

 

Perché, riprendendo nei contenuti una decisione del Tribunale di Bari del lontano 1996, il Tribunale di Firenze, con ordinanza 29 giugno 2000, ha assimilato il nome a dominio a un mero indirizzo più che ad un segno identificativo di un soggetto.

 

Questo assunto ha come conseguenza, di grande rilievo pratico, che non potrebbe porsi per esso un problema di violazione del marchio d’impresa.

 

Qualche mese più tardi altra pronuncia, sempre del medesimo Tribunale (Trib. Firenze, Sez. Distaccata di Empoli, ord. 13 novembre 2000: Blaupunkt // Nessos Italia S.r.l.), ha sostanzialmente riproposto l’abnorme principio poc’anzi ricordato.

 

In particolare, quest’ultima decisione ribadisce l’assenza di un carattere distintivo del dominio Internet sancito da una norma di legge, ritenendo che esso debba essere valutato unicamente sulla base delle regole di Naming.

 

La conclusione, a mio parere, non è persuasiva. Non tanto perché si pone in contrasto con la giurisprudenza assolutamente prevalente, ma perché non tiene conto del complesso e armonico sistema dei segni distintivi, preferendo invece trincerarsi sull’assenza di norme disciplinanti il fenomeno nuovo.

E’un po’l’equivoco in cui si cadeva negli anni Ottanta a proposito della pirateria informatica: ci si fermava sull’assenza di norme specifiche e si negava la tutela del software (non solo in sede penale, ma anche in quella civile), senza avvedersi che il nostro sistema normativo è tanto elastico e completo da consentire la regolamentazione di qualunque fenomeno nuovo.

 

Larga parte della dottrina ha subito mostrato il suo disappunto nei confronti dell’impostazione giurisprudenziale toscana, definita una visione riduttiva del fenomeno dei nomi a dominio, la quale non riesce a scorgere la reale funzione che questi svolgono, soprattutto nel caso di soggetti imprenditori.

 

Internet – si è in altre parole fatto notare – non è solo un sistema di interconnessione di computer in cui circolano informazioni. Esso è invece anche un immenso "mercato virtuale"in cui è possibile mettere a disposizione degli utenti i propri beni o servizi: il dominio assurge, pertanto, ad elemento distintivo atipico dell’imprenditore che opera nella rete.

 

E’da dire che, per fortuna, le ultime pronunce sembrano essere ritornate a riproporre l’orientamento tradizionale (e cioè non dubitano dell’appartenenza del domain name alla categoria dei segni distitivi).

 

Anzi, è significativo il fatto che l’inversione di rotta giunga proprio dal Tribunale di Firenze che, in sede di reclamo di uno dei provvedimenti prima citati, muta – re melius perpensa – il proprio orientamento.

 

Ed invero l’ordinanza 21-28.05.01 afferma a chiare lettere che "il domain name svolge, oltre alla funzione specifica nell’ambito dei codici comunicativi, anche la funzione ulteriore di segno distintivo dell’impresa.

 

Qui, per evidenti ragioni, non posso né voglio dilungarmi oltre, ma dello stesso tenore è un’altra ordinanza (Tribunale di Siracusa, Sez. Dist. Lentini, 23.03.01) che invito a leggere perché molto ben argomentata, e che trovate in rete a quest’indirizzo: http://www.studiocelentano.it/internet_iure/lentini_dominio.htm

 

Da una lettura complessiva delle decisioni si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad una giurisprudenza "ondivaga".

Emerge, insomma, un dato allarmante: mancando una disciplina legale tipica per i nomi a dominio, ogni Tribunale ha seguito un ragionamento logico individuale, in modo tale che ogni decisione, valutata in sé, appare perfettamente corretta e coerente, ma applicando i principi dell’una alle soluzioni dell’altra, possono in certi casi ottenersi giudizi discordanti.

 

E’essenzialmente un problema di "punti di vista", ma certo molto grave per chi deve ricorrere o difendersi.

Voglio dire: siamo in un settore dove non è infrequente trovarsi di fronte a "sorprese" del tutto inaspettate, perché in questo campo il Giudice deve essere non solo un buon giurista, ma anche un buon conoscitore della rete, dotato di un grado di alfabetizzazione tecnologica piuttosto elevato.

 

Un soggetto, insomma, che desideri promuovere una vertenza su un nome a dominio può "guardarsi attorno", ossia può non rivolgere lo sguardo unicamente verso il Tribunale, perché ci sono dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi rispetto alla composizione giudiziale delle liti. Essi sono essenzialmente due: il giudizio arbitrale e la procedura di rassegnazione.

Esaminiamoli, iniziando dal primo.

 

Giudizio arbitrale – Chi voglia farsi assegnare un dominio deve necessariamente sottoscrivere ed inviare alla RA - che l’ha predisposta - la c.d. L.A.R. (lettera di assunzione della responsabilità).

 

Essa consta di una parte facoltativa, che prevede, tra l’altro, la clausola arbitrale.

Se accettata, comporta la devoluzione delle eventuali controversie connesse all’assegnazione di quel nome a dominio ad un collegio di arbitri: il Comitato di arbitrazione costituito presso la Naming Authority.

Questo giudizio arbitrale è un arbitrato "irrituale" e, pertanto, gli arbitri giudicano secondo equità.

 

Ciò posto, tralascio di spiegare come tecnicamente avvenga la procedura (in sé molto semplice), anche perché tutte le informazioni a tal riguardo necessarie le potete trovare sul sito della NA, sul web alla pagina: http://www.nic.it/NA/regole-naming-curr.html#15 e vado invece ad analizzare velocemente alcuni problemi squisitamente pratici nei quali si può imbattere l’utente.

 

Non tanto "chi siano gli arbitri" (anche se ovviamente la parte che intenda promuovere la procedura deve nominare il proprio arbitro: la soluzione è facile, in quanto l’elenco degli arbitri è on line al seguente indirizzo: http://www.nic.it/NA/arbitri/ ).

 

A monte, invece, c’è un altro problema: sapere se la controparte ha sottoscritto a propria volta la clausola arbitrale, perché evidentemente per poter attivare un procedimento arbitrale occorre che il consenso sia espresso da entrambe la parti.

Ed il problema è reale, perché il terzo che agisce non dispone della L.A.R. che l’altra parte ha inviato alla RA. (Anche in questo caso, tuttavia, viene in soccorso il web, perché per rispondere a quest’interrogativo basta consultare l’interfaccia pubblico del Database della RA. Ciò con un’operazione molto semplice, da qualunque PC, andando in rete all’indirizzo:

http://www2.nic.it/Maintainer/nic.html ).

 

Detto questo, passiamo ora velocemente ad evidenziare i vantaggi di questa procedura, che sono:

1. competenza dell’arbitro (spesso, infatti, in questo settore altamente specialistico, l’arbitro ha una preparazione specifica superiore a quella del Giudice);

2. celerità della procedura (la decisione deve essere emessa entro 90 giorni dalla costituzione del collegio).

 

Gli svantaggi sono essenzialmente quelli di ogni arbitrato irritale, e quindi la relativa difficoltà di dare esecuzione alla decisione, nel caso in cui una parte non rispetti la decisione dell’arbitro.

(Ma, va notato, questo è un arbitrato irrituale sui generis, perché le decisioni sono immediatamente esecutive nei confronti della RA ed inoltre gli arbitri possono emettere misure cautelari).

Un altro limite, invece, è dato dai costi elevati (nell’unica procedura giunta a compimento il costo è stato di L.23.200.000, oltre IVA ed accessori di legge).

 

Procedura di rassegnazione – E’l’ultimo argomento che vado a toccare in questa sede e consiste in un metodo di composizione stragiudiziale delle controversie sui domini registrati sotto il ccTLD".it"

 

E’una procedura molto snella, rapida, che sta avendo notevole successo e pertanto ne do volentieri qualche indicazione generalissima, avvertendo che sorvolerò su molti aspetti (in primis

sulla procedura in sé, che tra l’altro trovate disciplinata in rete, a quest’indirizzo:

http://www.nic.it/NA/regole-naming-curr.html#16

La procedura ha come scopo esclusivo la verifica del titolo all’uso od alla disponibilità del DN e l’indagine sulla malafede del registrante: ogni altro tipo di accertamento dovrà essere devoluto ad un giudice o ad un arbitro.

Si tratta, pertanto, di un procedimento speciale con il quale si può ottenere solo un provvedimento specifico: la rassegnazione del nome a dominio.

 

La procedura è gestita da apposite organizzazioni denominate "enti conduttori", al cui interno operano alcuni professionisti denominati, con termine piuttosto infelice, "saggi", che materialmente si fanno carico della decisione.

 

Attualmente gli enti conduttori sono 11 (l’elenco è in rete: http://www.nic.it/NA/maps/ ), ma va detto che alcuni non hanno ricevuto alcun incarico.

 

Per poter chiedere la riassegnazione devono sussistere i seguenti presupposti.

Anzitutto, il dominio deve essere stato "contestato" nei confronti della Registration Authority.

Poi, devono ricorrere la condizioni dell’art.16 Regole Naming. E cioè:

- Il dominio è identico o tale da indurre confusione con un marchio su cui il ricorrente vanta diritti, o col proprio nome e cognome;

- Il resistente non ha alcun diritto o titolo in relazione al nome a dominio contestato;

- Il dominio è stato registrato e viene usato in mala fede.

 

Se il ricorrente prova che sussistono assieme le condizioni 1 e 3 di cui sopra ed il resistente non prova a sua volta di avere diritto o titolo in relazione al nome a dominio contestato, quest’ultimo viene trasferito al ricorrente.

 

Presentata così, la PDR sembra essere la "panacea" di tutti i mali che attualmente affliggono i domain names, in relazione al domain grabbing.

Indubbiamente, che sia uno strumento efficace è ormai assodato e ciò è testimoniato anche dal crescente successo che la procedura sta incontrando presso il pubblico (ad oggi si contano oltre 80 decisioni).

 

Ovviamente presenta lati negativi (tra cui la possibilità che l’attuazione della decisione sia vanificata dall’instaurazione – entro 15 giorni dalla pronuncia del saggio – di una causa ordinaria dinanzi all’Autorità Giudiziaria), ma senz’altro superiori sono i "punti di forza": la competenza del saggio, i costi contenuti e la celerità della procedura, abissale se paragonata ai tempi della giustizia ordinaria.

 

Quindi – e per concludere – vi invito a considerare che, nell’ambito di una contesa su un dominio, oltre alla composizione giudiziale delle liti, ci sono strumenti di risoluzione alternativi: il giudizio arbitrale e la procedura di rassegnazione, la quale presenta senza dubbio profili di assoluto interesse.

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