inserito in Diritto&Diritti nel ottobre 2002

Chattare sul luogo di lavoro: ipotesi di reato.

di Maurizio Barbarisi – 21.09.02

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Sommario: 1. Premessa - 2. Il peculato ordinario e il peculato d’uso - 3. L’uso dell’apparecchio telefonico per fini personali - 4. Per una diversa accezione di appropriazione di energie - 5. Il datore di lavoro privato - 6. Altre possibili ipotesi di reato: il furto e la truffa - 7. Una prima causa scriminante: il caso eccezionale - 8. Una seconda causa scriminante: il consenso dell’avente diritto – 9. In conclusione

 

1. - Premessa

 

Se durante l’orario di lavoro ci si prendesse la briga di frequentare, qua e là nel web, le chat line[1], potremmo accorgerci, fin dalle prime ore del mattino, in particolare leggendo i discorsi “in chiaro”[2] effettuati nelle varie “stanze” (le cosiddette chatrooms) in cui sono normalmente strutturate le chat, che la maggior parte delle persone presenti in quel momento in Rete, in realtà, sta digitando dal proprio posto di lavoro[3].

 

Accade cioè che sempre un maggior numero di persone, soprattutto nella fascia di età sotto i 35 anni, che si trova ad operare per ragioni di lavoro davanti ad un computer[4], sfrutta questa condizione di dotazione strumentale digitale per utilizzare la stessa macchina anche per fini che nulla hanno a che fare con la propria attività la­vorativa per cui sono pagati.

 

Tale fatto è di per sé favorito, non solo dallo scarso controllo nell’ambiente di lavoro, in special modo, in quello pubblico, ma anche dalla circostanza tecnica che i software di navigazione (ma anche di posta o di chat) sono, al momento opportuno, facilmente occultabili, con un semplice colpo di click del mouse, sotto un altro documento sia esso rappresentato da una lettera d’ufficio o da un grafico piuttosto che da uno spreadsheet. Da lontano, l’o­peratore che digita sulla tastiera (per rispondere ai propri interlocutori di chat o fare altro di egual tenore), apparirà peraltro attivo e attento alla sua postazione rimandando finanche l’im­pres­sione di star svolgendo alacremente il proprio lavoro, mentre in realtà è come se fosse del tutto assente.

 

Quid juris di questo comportamento? Oltre che essere moralmente condannabile e suscettibile di conseguenze civilistiche sul piano del rapporto lavorativo, può una simile condotta integrare illecito penale? E se sì, quale?

 

La rilevanza penale di un tale contegno, contrariamente a quanto si potrebbe congetturare, non è peraltro così agevole come si potrebbe supporre, anche perché, sotto questo profilo, la giurisprudenza della Corte suprema e la dottrina non sempre sono di aiuto.

 

 

2. – Il peculato ordinario e il peculato d’uso

 

Le prime due fattispecie richiamabili per la risoluzione del quesito, qualora l’agente sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, sono senza dubbio il peculato ordinario e quello d’uso.

 

Come è noto, il primo comma dell’art. 314 c.p. (peculato) prescrive che il “pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni”. Il secondo comma, invece, stabilisce che si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito “al solo scopo di fare un uso momentaneo della cosa e questa, dopo l’uso momentaneo è stata im­me­diatamente restituita”.

 

Dunque il soggetto che (in qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio[5]) abbia il possesso o la disponibilità (o il potere di disporre), per ragione del suo ufficio o servizio[6], di qualsiasi cosa o valore anche non appartenente alla P.A.[7], commette il reato di peculato qualora se ne appropri. Sia la dottrina che la giurisprudenza della Cassazione sono concordi nel ritenere che detta appropriazione si realizzi con il comportamento uti dominus nel senso di utilizzo della cosa come se fosse propria attraverso la sua alienazione, distruzione – tramite o meno il suo impiego – ovvero ritenzione definitiva.

 

La linea di confine con il peculato d’uso va ricercata allora nella temporaneità dell’appropriazione (deve trattarsi quindi di una condotta, quella dell’agente, che non implichi l’irreversibilità dell’appropriazione stessa[8]) e nella restituzione immediata della cosa oggetto della condotta.

 

 

3. - L’uso dell’apparecchio telefonico per fini personali

 

Di recente la Corte di Cassazione, sez. VI, con sent. 13 settembre 2002 n. 30751, ha ribadito il proprio orientamento in tema di utilizzo del telefono sul luogo di lavoro stabilendo che l’impiego dell’ap­parecchiatura telefonica per fini personali integra, per il dipendente pubblico, il reato di peculato ordinario sempre che l’impiego del telefono non possa ritenersi “sporadico o episodico”[9] ovvero “eccezionale”.

 

Se l’utilizzo fosse reiterato, secondo la suprema Corte, si verificherebbe “una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici attraverso il quali si trasmette la voce, atteso che l’articolo 624, secondo comma, c.p. dispone che ‘agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile, anche l’energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico’. Se, quindi, il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell’ufficio o del servizio, dell’utenza telefonica intestata alla pubblica amministrazione, la utilizza per effettuare chiamate per interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell’uso dell’apparecchio telefonico quale oggetto fisico, bensì nel­l’appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a far parte nella sfera di disponibilità della pubblica amministrazione occorrenti per le conversazioni telefoniche. Ad inquadrare l’ipotesi in esame nel peculato ordinario di cui al primo comma dell’articolo 314 c.p. considerato che non sono immediatamente restituibili, dopo l’uso, le energie utilizzate”.

 

La condotta, allora, sarebbe punibile, ai sensi del primo e non del secondo com­ma dell’ar­ticolo citato (peculato ordinario e non d’uso), posto che l’utilizzo degli impulsi non è affatto provvisorio per sua stessa natura: attraverso il loro impiego se ne realizza anche la perdita definitiva.

 

La suprema Corte, in questa interessante pronuncia, non chiarisce però quando l’impiego del telefono può ritenersi “sporadico o episodico” e quando, invece continuativo o frequente non dettando infatti alcun parametro che aiuti a tracciare un limite entro il quale potrebbe tale utilizzo dirsi lecito[10] (per quanto il tenore dell’articolo 314 c.p. non autorizzi alcuna tolleranza in questo senso). E’ da considerarsi, in altre parole, ugualmente “sporadico o episodico”, per esempio, un solo collegamento, via internet, effettuato nell’arco di un mese che duri tuttavia due o tre ore anche se più costoso di una decina di telefonate effettuate ogni giorno per un paio di settimane?

 

 

4. - Per una diversa accezione di appropriazione di energie

 

Sfruttando l’equiparazione operata dall’art. 624 c.p. tra ‘cosa mobile’ e ‘ogni altra energia che abbia valore economico’ e richiamata anche dalla sentenza appena citata, si potrebbe inoltre ipotizzare che l’agente diviene responsabile di peculato non soltanto perché si appropria dell’uso del telefono (e delle energie da questo dispiegate), ma anche in quanto non conferisce al datore di lavoro (in questo caso ente pubblico) quelle energie lavorative, che, in qualità di dipendente, non gli appartengono e che vengono invece investite in intrattenimenti estranei all’attività lavorativa. Come è noto, per vero, il lavoro è un bene solo concettualmente astratto, essendo in realtà un’entità quantitativamente misurabile e qualitativamente apprezzabile oggetto per questo di remunerazione e responsabilità per chi lo produce. Il lavoro è, a tutti gli effetti, dispiego di energie fisiche e intellettuali di indubbio valore economico tanto da avere un valore di mercato e di scambio universalmente riconosciuto. Se così è, allora verrebbe realizzato, pure in questo specifico caso, una forma di interversione del possesso[11] ancorché si tratti, in via di principalità, del solo possesso di energie lavorative.

 

Questa impostazione però, non lo si può nascondere, potrebbe prestare il fianco alla critica di non tener in debito conto delle differenze concettuali (penalistiche) della detenzione e del possesso.

 

Per giurisprudenza costante si ha invero detenzione allorquando colui che ha la materialità della res, non ha anche, sulla cosa stessa, l’effettivo potere di gestione e impiego, che rimane in capo al proprietario (rectius al possessore della cosa, ben potendosi immaginare un proprietario non possidente). Il potere sulla cosa è un poter di fatto e viene esercitato sotto la vigilanza del possessore o di chi è titolare di un potere superiore.

 

E’ il caso classico del­l’affidamento di una vettura a persona incaricata di custodirla. In questa ipotesi il custode non ha il possesso dell’oggetto per cui l’appro­priazione da parte sua del veicolo integra il reato di furto[12]. Vi è anzi da rilevare che finanche l’im­possessamento di un veicolo abbandonato dal ladro costituisce furto perché il proprietario non ha perso il possesso per il fatto del ladro[13].

 

Si ha possesso e non detenzione, invece, quando alla correlazione materialistica con la cosa (o a quella equipollente che si esprime nella disponibilità giuridica[14] della res) si accompagna per il soggetto anche un potere di fatto autonomo che si manifesta al di fuori della sfera di vigilanza e di custodia del titolare maggiore[15].

 

Se tutto ciò è difficilmente confutabile, potrebbe non di meno obbiettarsi che non commette peculato ovvero appropriazione indebita, chi, frequentando le chat, non conferisce, come avrebbe dovuto, le proprie energie lavorative posto che le stesse in realtà non gli appartengono.

 

A questa critica può agevolmente ribattersi che in realtà il dipendente non ha ceduto all’atto della sua assunzione tutte le energie lavorative che possiede o che possiederà fino a quando il rapporto lavorativo non avrà termine. Egli si è solo impegnato giuridicamente a prestarle all’oc­correnza, per cui non può dubitarsi se­riamente che le risorse gli appartengano sì materialmente, in quanto da lui prodotte, ma dovranno anche avere la destinazione pattuita con il datore per l’assolvimento delle mansioni concordate, spettando giuridicamente a quest’ul­timo che si è impegnato a sua volta a pagarle. Sotto questo aspetto il dipendente ha il possesso delle proprie energie, ma non può disporne uti dominus in quanto l’uso in contrasto con quanto pattuito rende il medesimo uso contra ius e il profitto relativo ingiusto.

 

Seguendo questa ulteriore ipotesi di rilevanza penale, non è allora chi non veda, come anche l’impegnare una linea telefonica, non per effettuare comunicazioni conformi al servizio, bensì per frequentare chat line (o anche disbrigare la propria corrispondenza), possa costituire per il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, ipotesi di peculato (ordinario) sotto il duplice profilo del sottrarre risorse lavorative che altrimenti dovrebbero essere impiegate per il lavoro cui è addetto e dell’appropriarsi degli impulsi elettronici veicolati dall’ap­parecchio telefonico ed entrati a far parte della sfera di disponibilità della pubblica amministrazione.

 

La qualità “ordinaria” del peculato, con esclusione dell’ipotesi più attenuata del peculato d’uso di cui al citato secondo comma dell’art. 314 c.p., si evidenzia anche in questo caso per la “non restituibilità” delle risorse lavorative distratte e reindirizzate invece verso un impegno extralavorativo.

 

Si potrà obbiettare che in realtà il lavoratore sarebbe perfettamente in grado di reintegrare l’ammanco in termini di risorse appropriate, per esempio, prestando lavoro straordinario gratuito sino all’ammontare del pregiudizio arrecato sicché la possibilità fisica di una restituzione delle ore non lavorate renderebbe applicabile la fattispecie del peculato d’uso.

 

In realtà la restitutio in integrum appartiene all’area concettuale del risarcimento del danno valutabile, in sede di irrogazione della pena (quoad poenam), quale attenuazione della stessa, ai sensi dell’art. 62, n. 6 c.p., per “avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni”. Infatti la reintegrazione interviene a reato consumato di talché è nulla la sua capacità di elisione dell’illecito.

 

A poco, inoltre, può rilevare il fatto che l’agente utilizzi una rete interna al luogo di lavoro ovvero una linea ADSL, condizioni hardware per le quali la presenza in linea del soggetto con comporterebbe di fatto un ulteriore aggravio di spesa per il datore di lavoro. Mentre infatti è chiaro, da una parte, che il dipendente acquisisce un vantaggio lucrativo non spettantegli (egli è in rete a spese altrui), dall’altra certamente sottrae tempo ed energie alla sua attività per tutta la durata della connessione impegnando la linea dalla sua postazione per scopi estranei al suo lavoro.

 

 

5. - Il datore di lavoro privato

 

Giusto il breve spazio di quest’articolo ed anche per non esorbitare dal tema che ci si è proposti di trattare, non si prenderà volutamente posizione sull’annosa diatriba (anche perché non rilevante) circa la distinzione, non sempre agevole, tra pubblici ufficiali, incaricati di pubblico servizio e incaricati di pubblica necessità. Ci si limiterà a osservare qui che, per l’ipotesi in cui il datore sia un privato e il dipendente una persona dallo stesso assunta, la situazione appare maggiormente sfumata e più delicata la relativa inquadrabilità della condotta illecita.

 

A voler mantenere il parallelismo con il peculato prima trattato, che altro non è se non un delitto di appropriazione indebita qualificato dalla figura del soggetto operante, può rendersi configurabile, nell’ambito privatistico, l’ipotesi di appropriazione indebita aggravata dal rapporto di prestazione d’o­pera (art. 646, 61 n. 11 c.p.). Ricorrendo questa specifica aggravante, il reato, ai sensi dell’ul­timo comma dell’art. 646 c.p., è pure procedibile di ufficio.

 

Per non incorrere in una possibile confusione tra le figure essenziali, prima accennate, di detenzione e possesso, preme qui sottolineare che se è vero che il lavoratore ha la mera detenzione delle apparecchiature a lui affidate (se ne riparlerà a proposito del furto), non altrettanto può dirsi per la disponibilità degli impulsi telefonici (e secondo la tesi anzi proposta anche delle energie lavorative connesse alla prestazione d’opera) attivabili dal suo apparecchio.

 

Tuttavia va sottolineato che nell’ambito della fattispecie più squisitamente attinente all’appropriazione indebita, in conseguenza del fatto che la parte danneggiata non è un soggetto suscettibile di particolare tutela come la P.A., sia la dottrina dominante che la giurisprudenza di legittimità hanno messo in seria discussione il fatto che si possa ritenere integrato il reato in esame vuoi per l’ipotesi di un uso della cosa diverso rispetto a quello che l’agente possessore ne avrebbe fatto, vuoi per l’ipotesi di abuso dell’utilizzo della res (vale a dire di travalicamento del titolo di legittimità del possesso). Se appropriarsi di un qualcosa significa, anche per l’i­potesi tout court di cui all’art. 646 c.p., comportarsi uti dominus assegnando all’oggetto una destinazione non compatibile con il carattere di altruità della cosa, l’omessa o la mancata restituzione, così come l’inde­bi­to uso o abuso, non accompagnato da interversione del possesso[16], non integra la fattispecie qui in esame.

 

Riprendendo le tematiche sovra esposte a proposito del peculato, non può sfuggire allora che l’utilizzo inappropriato (meglio sarebbe dire non consono) del modem, della linea telefonica, della postazione telematica nel suo complesso, durante l’orario di lavoro, costituiscono quindi una perdita irreversibile, non tanto degli strumenti in questione che verranno giocoforza restituiti al termine dell’at­tività[17], ma delle risorse ed energie lavorative che altrimenti sarebbero state impiegate più proficuamente dal dipendente per il disbrigo delle mansioni che gli erano state affidate.

 

Non ci si può pertanto limitare a prendere in considerazione, ai fini del danno o dell’illiceità del comportamento, la sola problematica attinente all’indebito uso di tali apparecchiature e di dette risorse, in quanto non si può prescindere dalla constatazione che nulla verrà restituito al datore di lavoro in termine di monte-ore non lavorate o di impulsi elettrici (o elettronici) sperperati che integrano un nocumento non emendabile.

 

Non si ha allora, da parte del dipendente un cattivo uso del proprio impegno lavorativo o un disordinato espletamento di funzioni, ma una sospensione di erogazione di energie lavorative ancorché debitamente pagate dal datore di lavoro oltre che una dissipazione definitiva di risorse dell’ufficio.

 

Anche l’esame del profilo soggettivo del chatter conforta l’assunto che deve trattarsi di illecito penale piuttosto che di un semplice comportamento indisciplinato, visto che il lavoratore è perfettamente consapevole (dolo specifico) che durante il collegamento in rete per fini personali trae, da una parte, un beneficio ricreativo per la propria persona e, dall’altra, danneggia il datore non apprestandogli quella dedizione che invece avrebbe meritato, sottraendogli beni preziosi che gli appartengono. L’ingiustizia del profitto, infatti, caratterizza il delitto in questione, mentre l’eventuale intenzione di restituire quanto sottratto – nella maniera sovra accennata di prestare attività lavorativa non remunerata – non esclude né il dolo, né la punibilità.

 

Una volta che verrà meglio chiarito l’ambito applicativo dell’espressione “sporadico o episodico”, quanto all’utilizzo privato della linea telefonica come limite di liceità, non potrebbe non trovare impiego anche per la fattispecie dell’appro­priazione indebita.

 

 

6. – Altre possibili ipotesi di reato: il furto e la truffa

 

Da escludersi invece, come prima già si è accennato, è la configurabilità del reato di furto.

 

Come si è argomentato nei precedenti paragrafi, il delitto di cui al­l’art. 624 c.p. presuppone la carenza in capo al soggetto agente di un qualsivoglia titolo di signoria sulla cosa salva, quella sfumata, dell’eventuale detenzione. In altre parole, all’atto della per­petrazione del furto si deve realizzare uno spossessamento (non violento) della res che deve trovarsi non tanto nella disponibilità materiale della parte offesa, quanto nella non disponibilità giuridica dell’agente.

 

E’ appena il caso qui di osservare che la disponibilità giuridica può anche essere definita come la capacità di imporre all’oggetto affidato una destinazione funzionale nei limiti dei poteri possessori conferiti; ed è “giuridica” perché si vuol porre l’accento sul rapporto di diritto che lega il possessore all’oggetto più che alla mera relazione materiale di fatto.

 

Poiché il dipendente ha la disponibilità giuridica non tanto della postazione telematica da lui impropriamente utilizzata (non svolgendosi la sua attività in una sfera di apprezzabile autonomia quanto agli oggetti fisici di cui dispone), ma delle energie strettamente connesse ed espresse in tale postazione ecco che la sua condotta non può inscriversi nel delitto di furto quanto alle energie medesime.

 

Ne consegue che solo se il lavoratore dovesse asportare un componente della sua postazione (per esempio un cavo di connessione, piuttosto che un supporto magnetico vergine o altro) perpetrerebbe il delitto di furto[18], mentre commetterebbe appropriazione indebita per la sottrazione di quelle energie su cui ha un potere autonomo di fatto.

 

Parimenti anche il delitto di truffa non sembra ipotizzabile visto che non viene posto in essere dal lavoratore un comportamento fraudolento tale da poter integrare gli artifizi e raggiri richiesti dalla norma. Per quanto occulto sia il comportamento del soggetto teso a “far credere” al proprio datore di star lavorando per lui, in verità non vi è un’azione diretta ad indurre taluno in errore dal momento che non viene posto in essere un aliquid novi teso a creare l’inganno, bensì vi è semplicemente un aliud pro alio non conseguente alla ricostruzione artatamente falsa di una data realtà fenomenica. Il dipendente, in altre parole, non tiene una condotta volta a creare in altri una falsa rap­presentazione di sé, ma semplicemente nasconde agli occhi di chi vigila, o dovrebbe vigilare su di lui, una condotta illecita facendo finta di lavorare. Il datore, dunque, continua a credere in una certa realtà e il suo inganno non è in nesso di causalità diretta dell’artifizio del lavoratore.

 

E’ ben vero che anche il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze costituisce raggiro ai fini della configurabilità del reato di truffa, giacché, in tal caso, il contegno dell’agente non può ritenersi meramente passivo, ma artificiosamente preordinato a perpetrare l’inganno,[19] ma è anche certo che occorra, in questo caso, che il soggetto attivo abbia il dovere giuridico di rivelare il vero o di comportarsi secondo buona fede. Poiché non può revocarsi in dubbio che il lavoratore non ha l’obbligo di autodenunciarsi, ecco che il silenzio assume per lui una valenza del tutto neutra.

 

 

7. - Una prima causa scriminante: il caso eccezionale

 

La Corte suprema, di per sé sollecita in tema di peculato a ribadire la sussistenza di illiceità per le ipotesi accennate, ha però, in più di una occasione affermato che “nel concreto assetto dell'organizzazione della P.A., si verificano situazioni eccezionali - previste e regolamentate dal Decreto del Ministro per la Funzione pubblica 31 marzo 1994[20] - in cui il pubblico dipendente è autorizzato ad usare il telefono dell’ufficio per comunicazioni private, al fine di evitare che si determini un disagio ancora maggiore per l’organizzazione del lavoro qualora il soggetto dovesse, per far fronte alla necessità di comunicare durante l’espleta­mento del servizio, interromperlo o abbandonarlo; in tali situazioni eccezionali, di carattere sporadico ed episodico, l’utilizzo del telefono della P.A. per l’ef­fettuazione di chiamate personali non può considerarsi esulante del tutto dai fini istituzionali e pertanto non può ritenersi realizzato l'evento appropriativo di cui al reato” (Cass., sez. V, 5 marzo 2001, n. 9277, cit.).

 

Va invero ricordato che il DM citato, in forza del disposto dell’articolo 58 bis del decreto legislativo 29/1993, ha fatto suo il codice di autoregolamentazione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, prevedendo che in ‘casi eccezionali’ il lavoratore può effettuare chiamate personali dalle linee telefoniche dell’uf­ficio. In particolare, la prima parte del comma quinto dell’articolo 10 della normativa qui in esame stabilisce che: “salvo casi eccezionali, dei quali informa il dirigente dell’ufficio, il dipendente non utilizza le linee telefoniche dell’ufficio per effettuare chiamate personali”.[21]

 

Dunque nell’ipotesi in cui il dipendente sia in grado di poter provare il “caso eccezionale” (si pensi al grave stato di salute di un parente che spinga il lavoratore a tenere i contatti con la famiglia) dovrebbe poter essere operante l’ipotesi scriminatoria e andare esente da responsabilità.

 

Certamente l’utilizzo di una chat durante l’o­rario di lavoro, proprio per la funzione stessa di svago insita in questo tipo di pratica amena, difficilmente lascerà spazio per una prova liberatoria credibile. Mentre, con ogni probabilità, l’invio di una e-mail dal tenore informativo circa le condizioni del parente, per seguitare con l’esempio appena fatto, avrebbe una maggiore valenza giustificatrice.

 

 

8. - Una seconda causa scriminante: il consenso dell’avente diritto[22]

 

Dibattuta è la questione se il peculato possa essere o meno scriminato dall’a­vente diritto. Per quanto concerne la P.A. non vi è invero accordo in dottrina circa l’am­missibilità della prestazione del consenso[23] giusta la non disponibilità dei beni oggetto dei reati contro la pubblica amministrazione.

 

Ma per sgombrare il campo da possibili equivoci, va sottolineato che, ai fini della scriminante trattata, poco rileva l’accennata informativa al capo del­l’uf­ficio, cui si faceva riferimento nel precedente paragrafo, costituendo lo stesso solo “un mero adempimento formale, che, al di là delle conseguenze disciplinari che possono derivare dalla sua violazione, non condiziona l’autono­ma e sostanziale rilevanza ‘derogatoria’ ai fini del discorso che qui interessa, del ‘caso eccezionale’”[24].

 

Per quanto riguarda invece il datore di lavoro privato, la scriminante opera più agevolmente salvo che il consenziente non abbia mantenuto sulla cosa affidata un diritto incondizionato di ripresa e per tutto il tempo in cui tale diritto possa essere esercitato.[25] Non sarebbe dunque ravvisabile il delitto in parola qualora il dipendente domandasse (preventivamente) al datore il permesso di collegarsi a Internet per motivi ludici ottenendone il consenso.

 

Ad avviso di chi scrive, l’autorizzazione (verbale) andrebbe richiesta anche qualora il lavoratore si trovasse in pausa pranzo e desiderasse frequentare la sua chat preferita o partecipare ad un forum di discussione sulla squadra del cuore, in quanto l’apparecchiatura in sua dotazione, per quanto la stessa possa esprimere in termini di risorse, come si è più sopra accennato, non gli appartiene se non per il perseguimento di quelle finalità per cui gli è stata affidata e, senza dubbio, non rientra nella sua facoltà impiegarla per motivi privati anche (e soprattutto) al di fuori dell’orario di lavoro.

 

 

8. - In conclusione

 

Per quanto dianzi esposto potrà sostenersi che, a prescindere dalla modestia o meno della gravità della condotta qui in esame, il sistema sanzionatorio è tale (si pensi alle pene previste dal codice penale in tema di peculato ordinario) da poter far ritenere sproporzionata la risposta punitiva dello Stato.

 

Non pare però che possa seriamente sottovalutarsi l’ampiezza del fenomeno, considerato che è in rapido accrescimento il numero di utenti di internet e che quasi tutti gli uffici pubblici e studi privati[26] hanno postazioni di lavoro che possono contare su computer allacciati in rete.

 

Il danno complessivo inferto all’economia non è di poco conto e certamente meriterebbe da parte degli organi preposti una maggiore attenzione e vigilanza. Ma come spesso accade, la supposta innocuità della condotta non “sentita” dalla generalità delle persone come particolarmente illecita[27], scema l’esigenza di espletare controlli in merito accrescendo, nel contempo, anche grazie alla carenza repressiva ed alla conseguente e sostanziale impunità, la comune e condivisa tolleranza[28].

 

 

 

Maurizio Barbarisi

Magistrato

 


Note:

[1] Ma le stesse considerazioni potrebbero valere per i forum, i newsgroup o per il semplice disbrigo della corrispondenza personale. Sulla polifunzionalità della Rete: N. Garrapa “Internet e diritto penale: tra lacune legislative, presunte o reali, panorami transnazionali, analisi de iure condito e prospettive de iure condendo” in www.diritto.it.

[2] Qui, nel testo, la frequentazione pubblica della chat è messa in contrapposizione al colloquio biunivoco tra due chatters in una stanza cosiddetta “privata” o al dialogo diretto tra due interlocutori che rimanga loro personale e non intelligibile da altri.

[3] Così si esprimeva il sen. Stefano Semenzato nel dibattito generale sulla finanziaria nell’Aula di Palazzo Madama, l’11 dicembre 1998: “Voglio fare una riflessione sul termine ‘uso prolungato della Rete’. Esso individua infatti un utente di Internet che non è quello cui noi pensiamo per il futuro dell’informatica. L’uso prolungato - nella versione arrivata dalla Camera si parlava di 4 ore - prefigura un utente più legato alla versione ludica, più dedito alle chat o a navigare in Rete senza senso, che a quella di servizio del sistema informatico”, vedi “Internet come servizio pubblico” in www.interlex.it.

[4] Secondo una ricerca effettuata da Eurisko (giugno 2002) le persone (in percentuale sul totale “utenti internet”) che dicono di essere state in chat “almeno una volta nell'ultimo mese” sono il 22%. L’uso della chat è indicato pari al 25% delle persone che si collegano da casa, al 7 % dal lavoro, al 17 % da scuola. Secondo questa fonte ci sarebbe un aumento di chat negli ultimi due anni, dovuto molto probabilmente a un maggior afflusso di giovani on line. Fonte: www.gandalf.it.

Peraltro vi è da sottolineare che, mentre tradizionalmente le ore serali erano quelle una volta privilegiate dall’utenza per motivi di disponibilità di tempo (ma anche di tariffe telefoniche meno care) rispetto alle altre ore della giornata, adesso l’aumentato numero di PC collegati in Rete, anche negli uffici, consentono, da una parte, una parziale sovrapposizione tra tempo libero e orario di lavoro e, dall’altra, un risparmio nel collegamento da casa.

[5] E non anche l’esercente un servizio di pubblica necessità, così L. Delpino, “Diritto Penale”, Parte Speciale, 2002, p. 98.­­

[6] “La ragione del servizio giustificatrice del possesso non è da identificare solo in quella che rientra nella specifica competenza funzionale dell’agente, ma si riferisce anche al possesso del danaro o della cosa mobile altrui derivante, oltre che da norme di regolamento, da prassi e consuetudini.” Così Cass., sez. V, 11 luglio 2001, n. 27850, La Torre, che ha ritenuto integrare gli estremi del delitto la condotta dell’au­siliario socio-sanitario dell’ASL – addetto a svolgere il proprio servizio pubblico di infermiere di sala operatoria di un ospedale – che si appropri di alcune siringhe monouso, rientranti nella dotazione del reparto presso cui lavora ed alla quale abbia libero accesso, in ragione del ruolo rivestito, a prescindere dalla responsabilità della formale custodia del materiale sanitario, di competenza del capo sala.

[7] Così a seguito della nuova formulazione dell’art. 314 introdotta con la L. 26 aprile 1996, n. 86.

[8] Va in ogni caso esclusa dal peculato d’uso l’appropriazione di denaro.

[9] Più esattamente trattavasi del caso di un centralino di Campobasso, dipendente del Provveditorato alle opere pubbliche del Molise che doveva rispondere del fatto di aver effettuato, dall’utenza intestata alla pubblica amministrazione, 64 telefonate personali in circa due mesi e, dunque, circa una al mese. Il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Campobasso dichiarava non luogo a procedere perché il fatto non sussiste, mentre la Suprema Corte annullava con rinvio onde il primo giudice possa “accertare nella specie se le telefonate siano state fatte eccezionalmente dal prevenuto, in quanto effettivamente ‘compulsato da rilevanti e contingenti esigenze personali’”. Nello stesso senso: Cass., sez. VI, 14 novembre 2001, Chirico; Cass., sez. V, 5 marzo 2001, n. 9277, PM in proc. Menotti; Cass., sez. VI, 25 maggio 2000, n. 788, Mari; Cass., sez. VI, 15 dicembre 2000, n. 3879, P.M. in proc. Di Maggio; Cass., sez. VI, 25 luglio 1997, n. 7364, Guida; Cass., sez. VI, 28 gennaio 1996, n. 4411, P.M. in proc. Catalucci.

[10] Forse per la scarsa offensività del fatto.

[11] Cass., sez. VI, 25 luglio 1997, n. 7364, cit.

[12] Cass., 3 febbraio 1965, Capitanini, in Giust. Pen, 1965, II, 1965.

[13] Giurisprudenza assolutamente costante.

[14] Cass., 20 febbraio 1980, Noferini; Cass. Pen. Mass. Ann. 1981, 1198.

[15] Cass., 6 febbraio 1970, Galofaro, in Cass. Pen. Mass. Ann. 1971, 1554.

[16] Esprimibile sia per facta concludentia che per explicita verba.

[17] In questo senso L. M. de Grazia “E se il dipendente usa Internet per fini personali?” reperibile all’url: http://www.degrazia.it/infodirnet/rubriche/articoli/articoli/s1.html.

[18] Conf, Cass. 8 aprile 1970, Sparsoli, Cass. Pen. Mass. ann, 1972, 161, che ha stabilito commettere furto e non appropriazione indebita il prestatore d’opera che si appropria dei mezzi di lavoro affidatigli dall’impresa per il suo lavoro.

[19] Così Cass. 14 aprile 1978, Salvatori, in Giust. Pen, 1979, II, 231; Cass. Pen Mass. ann. 1980, 1329; Cass. 28 luglio 1985, Alfondo, ivi, 1987, 103.

[20] In G.U. del 28 giugno 1994, n. 149.

[21] L’art. 10, terzo comma del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, approvato dal Ministro per la funzione pubblica in data 1° dicembre 2000 ha statuito che “il dipendente non utilizza a fini privati materiale o attrezzature di cui dispone per ragioni di ufficio. Salvo casi d’ur­genza, egli non utilizza le linee telefoniche dell'ufficio per esigenze personali". Dunque, diversamente da quanto citato dalla Corte suprema nella sentenza riportata nel testo del 13 settembre 2002 che fa riferimento, giocoforza, al solo codice di autoregolamentazione del 1994, la nuova normativa non prevede più l’informativa al dirigente di ufficio, mentre limita l’uso del telefono d’ufficio per telefonate personali solo nei ‘casi di urgenza’ e non più nei ‘casi eccezionali’.

[22] Per un’ampia ed esaustiva trattazione dell’argomento con richiami dottrinali C. Cassani,, “Il consenso dell'avente diritto come causa di giustificazione” in www.filodiritto.com.

[23] Con la sola eccezione del Manzini per il quale non potrebbero escludersi autorizzazioni limitate idonee ad elidere la punibilità del fatto.

[24] Così la Newsletter InternoInforma n. 16, all’url http://www.interno.it/. Cfr. Cass, sez. VI, 23 ottobre 2000, Di Maggio, cit.

[25] L. Delpino, “Diritto Penale, cit., p. 103. Si fa l’esempio della posta consegnata al dipendente per il successivo inoltro.

[26] Sul punto G. Masetti “I sistemi di automazione del lavoro negli studi legali: un'analisi critica” in www.filodiritto.com.

[27] Ma anche per le indubbie difficoltà acquisitive della prova, non potendosi sempre contare sulla de­lazione dei colleghi di lavoro.

[28] In netta controtendenza rispetto a quanto sopra riportato è l’articolo di R. Scalisi “Gli utenti che navigano dal lavoro comprano di più” reperibile all’indirizzo http://www.apogeonline.com/ dove si richiama la ricerca di mercato effettuata dall'agenzia di advertising Avenue A – condotta tra il 29 maggio e il 30 giugno su di un campione di 3000 utenti ed avvalendosi anche dei dati forniti da società clienti quali Weight Watchers, Eddie Bauer e Microsoft – secondo la quale gli utilizzatori del web che si collegano sul luogo di lavoro (forse per sfuggire alla routine o allo stress dell’impiego) sarebbero più propensi agli acquisti di tipo e-commerce. L’in­dagine conoscitiva avrebbe anche appurato che gli utenti collegati dal lavoro che fanno anche acquisti on line sono addirittura superiori del 22% rispetto a coloro che usano la Rete, per scopi personali, da casa (più precisamente 64% degli utenti al lavoro aveva acquistato sul web nei tre mesi precedenti, mentre tra gli utenti da casa la percentuale è del 39%).