NOTE
IN TEMA DI ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE E TUTELA DELLA STRUTTURA
CONCORRENZIALE DEL MERCATO (Appunti in margine a Cass. 6368/2000)
Di
Giuliana
Recupero Bruno
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La
figura dell’abuso di posizione dominante rientra come è noto nella
tipologia delle pratiche anticoncorrenziali, contemplate dalla legge n.
287/1990 (c.d. Antitrust) accanto alle intese e alle concentrazioni,
configurando altrettante ipotesi di comportamenti volti
all’acquisizione di una posizione di predominio sul mercato. Tali
forme ricadono entro la disciplina legislativa, se ed in quanto abbiano
quale scopo o quale effetto di impedire o limitare in qualsiasi modo
l’accesso o la permanenza sul mercato di altri operatori, conseguendo
di fatto (ed abusando di) una posizione di monopolio che, in ultima
analisi, è destinata a ripercuotersi sui consumatori.
Le
fattispecie indicate erano già contemplate anche nella legislazione
europea, (art. 86 Trattato CEE e art. 66 Trattato CECA) e sono prese in
considerazione altresì nelle numerose pronunce dell’Autorità
Garante della concorrenza e del mercato, istituita con la L. 287
sopracitata.
Anche
la suprema Corte ha avuto modo di esprimersi sulla materia e, con
specifico riferimento all’abuso di posizione dominante, una delle
ultime sentenze che ha avuto ad oggetto tale questione è la n. 6368/2000.
La
pronuncia prende le mosse dal ricorso proposto da una società di
servizi aeroportuali, avverso una sentenza della Corte d’Appello di
Cagliari; la Corte di merito aveva escluso l’abuso di posizione
dominante di una società che, avendo esteso le proprie competenze dal
settore della gestione dell’aeroporto ai paralleli servizi di
handling, profittando della sua posizione dominante sul mercato
aeroportuale, avrebbe con ciò estromesso la società ricorrente da quel
settore di attività. La S.C. ha respinto il ricorso, confermando
l’impostazione seguita nella sentenza impugnata, la quale aveva negato
la sussistenza, nel caso di specie, di un comportamento abusivo,
escludendo che la rottura dei rapporti contrattuali intrattenuti dalla
società ricorrente, fosse dipesa da abuso della Società di Gestione
dell’Aeroporto.
Prescindendo,
tuttavia, dagli sviluppi del caso concreto sottoposto all’esame della
Corte, ciò che qui rileva maggiormente è l’enucleazione della figura
dell’abuso di posizione dominante, e soprattutto, la questione del
momento in cui, dalla posizione dominante in sé, come tale ammessa, si
passa all’abuso della stessa, che integra, invece, un
comportamento vietato in quanto lesivo o fortemente limitativo della
concorrenza.
In
ordine alla individuazione della fattispecie, bisogna prendere le mosse
dal dato normativo: a norma dell’art. 3 L. 287/90 «è
vietato l’abuso da parte di una o più imprese di una posizione
dominante all’interno del mercato nazionale o in una sua parte
rilevante»;
quindi, con una elencazione ormai pacificamente ritenuta esemplificativa
e non tassativa, vengono indicati altri comportamenti «inoltre
vietati»:
si tratta, più specificamente, di alcune tipologie legislativamente
individuate, di comportamenti che rendono “abusiva” la posizione
dominante – in sé, si ribadisce, lecita – di una o più imprese. Ad
un’impresa in posizione dominante è, in particolare, vietato di:
a)
imporre, direttamente o indirettamente, prezzi o altre condizioni
contrattuali ingiustificatamente gravose.
b)
impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi, al
mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico a danno dei
consumatori.
c)
applicare nei rapporti commerciali condizioni oggettivamente
diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi
ingiustificati svantaggi nella concorrenza.
d)
subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da
parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro
natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con
l’oggetto del contratti stessi.
Affiora
con tutta evidenza, dunque, che il nostro ordinamento non vieta
l’acquisizione di una condizione di monopolio; è vero, infatti, che
le analisi economiche concordano nel ritenere tale forma dannosa per gli
equilibri di un mercato che ha, invece, la sua condizione ottimale nella
concorrenza (quanto meno monopolistica); ma le stesse analisi economiche
sono poi altrettanto pacifiche nell’ammettere che in talune
situazioni, o con riferimento a talune categorie di prodotti, la forma
monopolistica è quella che consente una migliore gestione delle
risorse; si tratta di casi particolari, riconducibili a settori che
richiedono il sostenimento di ingenti costi fissi, o il raggiungimento
di notevoli dimensioni: condizioni, queste, non facilmente sostenibili
da un elevato numero di imprese. Ed anche al di là di questi
casi-limite, il monopolio è possibile. L’acquisizione di una
posizione dominante sul mercato o in una parte rilevante dello stesso,
non è in sé vietata e, l’impresa che sia in grado di esercitare
un’influenza preponderante sul mercato e di agire senza dovere tener
conto delle reazioni dei concorrenti [[1]],
può liberamente e legittimamente svolgere la propria attività.
In
questo senso sorge solo un problema interpretativo inerente alla
necessità di precisare il mercato di riferimento, rispetto al quale può
dirsi sussistente una posizione dominante. A tale riguardo si potrà
tenere conto di quei connotati merceologici in virtù dei quali un
prodotto risulta sostituibile da un altro [[2]].
Anche la S.C. ha rilevato la necessità a che, nell’analisi della
posizione dominante, si definisca il mercato di riferimento, cioè della
sua estensione geografica nonché dell’area di sostituibilità dei
prodotti e dei servizi in questione, cosicché su tale sostituibilità
da parte del mercato, il comportamento del dominante possa essere
esaminato nei suoi effetti.
Ha
evidenziato la S.C. nella sentenza citata come, la norma dell'art. 3,
non abbia la funzione di impedire la conquista di una posizione
dominante ovvero di una posizione di monopolio (obiettivo questo, se
mai, delle norme che disciplinano le concentrazioni), ma piuttosto di
impedire che esse, una volta raggiunte, tolgano competitività al
mercato, ledendo la sua essenziale struttura concorrenziale e quindi
il diritto degli altri imprenditori a competere con il dominante.
Continua
a tale riguardo la Corte che, proprio dal momento che, di fatto,
interesse della impresa che ha raggiunto una posizione dominante è
quello di conservarla, essa potrà cercare di impedire l'ingresso
nel mercato a chi voglia entrarvi, ovvero estromettere le altre imprese
non dominanti, per rafforzare la propria posizione fino a raggiungere un
assoluto monopolio.
Nell’esercizio
della sua funzione nomofilattica, la Corte, si spinge anche più in là
di quanto la lettura della norma parrebbe suggerire; essa infatti,
ritiene lecito non soltanto che un’impresa acquisisca una posizione
dominante, ma altresì - poiché insito nella natura delle cose - che
l’impresa medesima, per salvaguardare la posizione conquistata, si
adoperi per “impedire l’ingresso” ovvero anche per
“estromettere” imprese non dominanti.
Ad
essere vietato sarebbe solo lo sfruttamento abusivo di quella
posizione dominante con comportamenti idonei a pregiudicare la
concorrenza effettiva; il che pone il problema di precisare le
caratteristiche della situazione di dominio che rende applicabili le
disposizioni: attraverso anche delle analisi di mercato, si dovrà
verificare se l’impresa è in grado «efficacemente
di ostacolare una concorrenza e di adottare comportamenti – almeno
relativamente – indipendenti nei confronti di altri operatori»[[3]].
Alla
luce di questa ricostruzione, non è il fine perseguito
dall’impresa a costituire la linea di confine tra posizione dominante
ammessa e posizione dominante vietata; quanto le modalità
attraverso cui il risultato monopolistico viene perseguito. In tal
senso, conclude la Corte, se la salvaguardia della posizione dominante
da parte dell’impresa che la occupa, avviene mediante un comportamento
oggettivo che limita ex ante la libertà di movimento nel mercato
del concorrente, si ha abuso, con le conseguenti possibilità
d’intervento dell’Autorità e l’inflizione delle sanzioni previste
dalla legge.
Va
infine chiarito che, a differenza di quanto previsto a proposito delle
intese (art. 2), ove si richiede che l’effetto lesivo sul gioco della
concorrenza sia «consistente», nella fattispecie in esame l’abuso,
purché effettivamente riscontrabile, rileva a prescindere dalla sua
entità, nel senso che la scarsa incidenza economica dell'abuso stesso
non vale comunque ad escludere la sua configurazione come tale, giacché,
la rilevanza economica dell'illecito non è in alcun modo considerata
dalla legge. L’impresa dovrà perciò tener conto che la linea di
confine tra la liceità e la illiceità del suo operare, è estremamente
sottile e sfumata, poiché il fatto di ricoprire una posizione dominante
rende gli equilibri del mercato particolarmente sensibili; in questa
situazione ogni ancorché minimo superamento di quella linea costituisce
un abuso, a prescindere dall’entità del danno in concreto causato a
singole imprese potenzialmente concorrenti. In questi termini si è
espressa la Corte nella sentenza di cui in argomento e prescindendo dal
caso concreto sottoposto al suo esame, ritenendo che «una posizione
dominante in quanto tale è di per sé consistente rispetto al
mercato di riferimento, e perciò, se questo rientra nei parametri
quantitativi voluti dalla legge, il suo abuso è lesivo della
struttura concorrenziale del mercato».
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