inserito in Diritto&Diritti nel dicembre 2003

L’imprenditore e le attivita’ di impresa. uno sguardo di iniseme ai lineamenti generali   della disciplina (*)

di Mario Bessone

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            Sommario: 1. Imprenditori e attività di impresa. Libertà di iniziativa economica, libertà di concorrenza.Il diritto comunitario e le norme di diritto nazionale  – 2. Imprenditori e imprese.Lo scenario di insieme e i principi generali del sistema. I fenomeni di illecito , la shadow economy e le  policies di responsabilità sociale dell’impresa.2 Imprenditori privati e imprenditorialità pubblica.Le dimensioni di impresa e i «piccoli imprenditori».La natura e l’oggetto delle attività Impresa agricola, impresa artigiana. – 3. Lo statuto giuridico dell’imprenditore commerciale. Il registro delle imprese, la tenuta delle scritture contabili, le procedure concorsuali. – 4. L’azienda. Il valore di avviamento.Opere dell’ingegno e invenzioni. I segni distintivi. Ditta, insegna, marchio. –5 L’imprenditore commerciale.Organizzazione dell’impresa e regole di svolgimento delle attività di mercato.

 

1. Imprenditori e attività di impresa. Libertà di iniziativa economica, libertà di concorrenza.Il diritto comunitario e le norme di diritto nazionale.

 

           < Imprenditore > e <impresa > sono formule di estrema sintesi che variamente si impiegano senza che scienza economica ,scienza giuridica o altre ancora riescano ad assegnare loro un contenuto davvero comprensivo dell’intera serie dei soggetti e dei fenomeni  che caratterizzano economia reale , financial economy e regolamentazione normativa in tempi di capitalismo maturo. Muovendo  dalle analisi di scuola neoclassica  gli economisti guardano alla funzione imprenditoriale  delineando modelli e ed elaborando sistemi concettuali  in passato ampiamente condivisi ma  sono adesso un gran numero gli studiosi che muovendo da dissenzienti opinioni   (di Ronald Coase ,Alchian e Demsetz ,Hart e altri ancora ) prefigurano una diversa rappresentazione e una diversa qualificazione  di ciò che sono <imprenditore > e <impresa >.

          E se è vero che una cosa sono le riflessioni in punto di scienza economica e altra cosa  i problemi di regolazione normativa  di  <imprenditore> e < impresa >  , in tempi di capitalismo maturo anche la scienza giuridica deve misurarsi   con una serie di stringenti interrogativi  dovendosi considerare una realtà assai lontana  dal lineare scenario di altri tempi. Realtà di un agire economico per il mercato che si presenta in sempre nuove forme  essendo poi  dirompente la forza dei fattori di globalization  e delle tecnologie di genere telematico che necessariamente  disegnano uno scenario di discipline sovranazionali.  E  anche a non considerare  problemi che sono ormai di dimensione planetaria  si preciserà più avanti in qual misura  divergano le nozioni di imprenditore e di impresa  privilegiate dal nuovo diritto privato dell’Unione europea  e  quante invece  sono ancora costitutive degli ordinamenti nazionali.

         In pagine di elementare  esposizione delle discipline di materia  sarà tuttavia bene svolgere considerazioni nel segno della necessaria chiarezza  ( e per quanto è possibile nel segno di una decisa semplificazione dei termini del discorso). Quali che possano essere le qualificazioni di maggior consistenza scientifica sarà infatti chiaro che è  «imprenditore»  chi organizza fattori di produzione, perciò risorse di capitale e forza lavoro per svolgere una attività, la attività di < impresa > che dall’impiego di capitale e lavoro deriva beni e servizi offerti al mercato. E anche se nel caso italiano le norme di costituzione economica  ignorano il mercato pur sempre ad esso occorrerà riferire l’insieme delle regole.

     Già il  Trattato di Maastricht in questo senso doveva offrire indicazioni con carattere di imperatività che sono del maggior rilievo anche nelle disposizioni comunitarie del Trattato di Amsterdam leggendosi poi che  < la politica economica> dell’Unione Europea < è condotta in conformità al principio di una economia di mercato aperta e di libera concorrenza > . Da ciò l’obbligato contesto di policies che al vertice del sistema delle fonti dell’ordinamento sovranazionale  troverà a breve conferma nelle grandi norme di principio della costituzione europea che anche in questo senso  molto aggiungeranno (in parte segnando una inversione di tendenza con riguardo) a quanto è costituzione degli ordinamenti  nazionali.

      Non sarà poi necessario lungo discorso per  rilevare che l’imprenditore opera a suo rischio e secondo principio di economicità. Il rischio è che i ricavi della attività non riescano a compensare i costi di impresa . E principio di economicità significa organizzare l’impresa in modo tale da scongiurare quel rischio spingendo i ricavi ad una soglia così elevata da remunerare sia i fattori di produzione sia lo stesso imprenditore, con un suo margine di profitto a premio della attività svolta. Nel caso dell’imprenditore pubblico o di altri imprenditori che non perseguano finalità di profitto a premiare la attività di impresa sarà comunque il risultato di un attivo o di un pareggio di bilancio a riprova del positivo andamento delle attività di impresa.  Attività che sono comunque iniziativa economica regolata dall’art. 41 Cost.

          Si è più volte,da più parti  (e sempre più spesso) osservato che nel caso italiano le disposizioni di costituzione economica configurano una < normativa espressa con terminologia poco attuale> che appare a molti  e appare <datata (…) condizionata dalle problematiche di una stagione> politica   e da uno stato del sistema <paese>  che non hanno più un sufficiente riscontro nella realtà di inizio secolo.  Più precisamente  si imputa alla normativa di costituzione economica  una politica del diritto  consegnata a regole delle attività   (e segnatamente a regole dellle attività di impresa ) che sono lontane dal modello di una evoluta economia capitalista di mercato .Ma se è vero che in questa prospettiva di analisi occorre progettare una loro formulazione maggiormente in linea con i valori del mercato deve essere pur sempre  chiaro in quali misura  l’art. 41 Cost. è norma di primaria garanzia.  La norma costituzionale infatti  regola l’iniziativa economica secondo principio di libertà ma al tempo stesso prefigura limiti, programmi e controlli.

          L’«iniziativa economica privata è libera». Alle libertà di «iniziativa economica privata» che davvero non è in discussione  tuttavia segnano limiti valori costituzionali  ancora più forti, essendo stabilito che «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». E «a fini sociali» la norma costituzionale segnala al legislatore ordinario strumenti di politica del diritto. Se occorre «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica» sia privata o pubblica «possa essere indirizzata e coordinata» appunto «a fini sociali». E nell’art. 43 sono ancora «fini di utilità generale» e il «preminente interesse generale» a motivare originarie riserve o successivi trasferimenti al settore pubblico di «determinate imprese» o di «categorie di imprese» che si riferiscano «a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio».  E in questa prospettiva di analisi (che deve in decisiva misura essere analisi economica del diritto di imprese e società) è  necessario ricordare fino da ora  in che misura la norma costituzionale dell'art. 47 vincola ogni comparto dell'economia finanziaria all'osservanza delle regole di garanzia di < tutela del risparmio > in < tutte le sue forme>  .

       Nel disegno delle norme di costituzione economica elaborate dal legislatore costituente dei lontani anni Quaranta, i  limiti, i programmi, i controlli e le  riserve di attività operano con una estensione di capo  certamente da ripensare ma deve al tempo stesso considerarsi che   tuttavia non sono spazio aperto alla pura e semplice decisione politica. Possono operare soltanto nella misura indicata da norme di costituzione economica che  al tempo stesso sono pur sempre   norme di consistente garanzia delle libertà dei privati. Garanzia di libertà di iniziativa in una economia di mercato dove competere secondo regole di concorrenza tra imprenditori e imprese. Le norme costituzionali ignorano il mercato ma il principio della libertà di concorrenza a veder bene è già contenuto nella garanzia di libertà dell’iniziativa economica.

    . Se posizioni dominanti o intese restrittive della concorrenza o concentrazioni di poteri non consentono ad altri l’accesso al mercato o spingono fuori del mercato, «libertà di concorrenza» è  infatti  soltanto un insieme di parole senza un significato utile. Da ciò   le imperative indicazioni  del diritto comunitario  e  il grande rilievo della legge 287 dell’ ottobre 1990 che anche nel caso italiano  finalmente stabilisce disposizioni  dove si  guarda al mercato e al principio di concorrenza nel modo che era necessario. E la  norma di apertura della legge dell’ottobre 1990  avverte che si tratta di disposizioni stabilite «in attuazione dell’art. 41 Cost.» appunto «a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica».   Occorreva assegnare al principio di concorrenza e perciò  alla regola costitutiva delle economie dei tempi di capitalismo maturo un valore sconosciuto alle norme del codice civile.

       L’art. 2595 avverte che la concorrenza deve svolgersi «nei limiti stabiliti dalla legge». L’art. 2596 circoscrive l’oggetto e l’orizzonte temporale degli accordi contrattuali di non concorrenza. L’art. 2597 obbliga «a contrattare con chiunque» e a «parità di trattamento» l’imprenditore che operi in regime di monopolio legale. E alla concorrenza le norme del codice civile (sono le norme degli artt. 2598 a 2601) ancora guardano per la dovuta prevenzione e sanzione degli atti di concorrenza sleale. Ad esse si dovevano aggiungere discipline di settore certamente utili. Ma una cosa è la serie delle frammentate disposizioni che pretendono lealtà nelle relazioni di mercato tra imprese, vincolano l’imprenditore monopolista ad un corretto agire di mercato e segnano un limite ai poteri negoziali dei singoli imprenditori, derivando da ciò in modo indiretto e comunque molto limitato risultati di miglior andamento delle attività di mercato e di tutela dei consumatori. Tutt’altra cosa una organica disciplina di garanzia a misura dei principi di costituzione economica.

         In che direzione muovere indicavano con chiarezza  già le norme del diritto comunitario che stabiliscono disciplina quanto al mercato internazionale. Sono norme che riguardano il «commercio tra gli Stati membri» e operano a garanzia della osservanza delle regole del «gioco della concorrenza nel Mercato comune». Regole del gioco con ogni evidenza violate se accordi tra imprese, posizioni di dominio o iniziative di concentrazione imprenditoriale non consentono ad altri di partecipare alla competizione commerciale con reali possibilità di successo. E nel disegno della normativa europea provvedere a che «la concorrenza non sia falsata» è un valore che ha tutto il rilievo indicato dall’art. 3 del Trattato istitutivo della Comunità europea. Ad «un regime inteso a garantire» che sul mercato si operi secondo principio di concorrenza è riservata la posizione che compete agli strumenti e alle «politiche» da considerare nel numero dei fattori determinanti per realizzare il progetto comunitario. Operano perciò disposizioni che ne sono elemento costitutivo e impegnano ad interventi con finalità di prevenzione e di sanzione dei comportamenti devianti.

           Il primo comma dell’art. 81 del Trattato vieta tutti gli accordi tra imprese, le decisioni di associazioni di imprese e le pratiche concordate che per l’appunto possano «pregiudicare» il commercio o che «abbiano per oggetto o per effetto» di «impedire», «restringere» o falsare» la competizione imprenditoriale. E la medesima norma già enumera una serie di accordi, decisioni e pratiche da considerare materia di divieto. Per una interpretazione in senso forte delle garanzie di libertà di commercio «tra Stati membri» merita poi grande attenzione la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Parte rilevante dell’ordinamento di settore è anche la disciplina di esenzione dal divieto disposta dal terzo comma dell’art. 81, per il caso di intese che «contribuiscano a migliorare» produzione industriale o settore distributivo e ancora a «promuovere il progresso tecnico» o «economico». Ma in linea generale il secondo comma dell’art. 81 avverte che gli accordi incompatibili con il principio di libera concorrenza sono (vietati e) nulli «di pieno diritto», operando poi gli «ordini di cessazione» e le sanzioni che si indicano in via di disciplinare regolamentare.

        Ancora in funzione di garanzia di effettività del principio di concorrenza, e guardando al «commercio» interstatuale la norma dell’art. 82 del Trattato stabilisce regole e divieti per il caso dello «sfruttamento abusivo» di una posizione dominante. Situazioni di questo genere si configurano quando singole imprese «o più imprese» si avvalgono di una posizione forte che consente di determinare prezzi, controllare la dinamica di un settore di attività o comunque di imporre un dominio su taluni comparti del «mercato comune». Per disposizione del regolamento comunitario 4064 del 21 dicembre 1989 (a suo tempo modificato dal regolamento 1310 del 30 giugno 1997) si esercita infine una rigorosa vigilanza sulle operazioni di concentrazione imprenditoriale. Si tratti di fusione di imprese, della acquisizione del controllo di imprese o della costituzione di una nuova impresa, occorreva infatti reagire ad iniziative che possano originare o rendere più forte una «posizione dominante» ancora una volta tale da ostacolare in misura significativa la concorrenza «nel mercato comune» o in una sua «parte sostanziale». E se questo accade si provvederà mediante divieti, interventi correttivi e misure di sanzione a misura delle particolarità della singola fattispecie.

         La legge del 10 ottobre 1990 ha finalmente assicurato regole anche al mercato nazionale  seguendo una medesima linea di politica del diritto. «A tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica», le sue disposizioni stabiliscono disciplina per le «intese», gli «abusi» di «posizione dominante» e «le concentrazioni di imprese» che «non ricadono» nell’ambito di applicazione della disciplina comunitaria. E «qualora ritenga che una fattispecie al suo esame non rientri nell’ambito di applicazione» della legge nazionale, l’Autorità garante «ne informa la Commissione delle Comunità europee» e «trasmette» ad essa «tutte le informazioni in suo possesso». Le disposizioni della legge 287 valgono perciò soltanto quando è in questione «il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale» o «in una sua parte rilevante». Ma le prescrizioni sovranazionali rilevano anche in ambiente nazionale, perché il quarto comma dell’art. 1 della legge 287 avverte che l’«interpretazione» delle sue disposizioni deve compiersi «in base ai principi» dell’ordinamento comunitario. E sarà appena il caso di segnalare tutto il rilievo istituzionale di questa continuità normativa.

       Regolando il mercato nazionale la legge dell’ottobre 1990 assegna al principio di concorrenza un valore sconosciuto alle norme del codice civile e alle singole normative di settore. Opera una autorità amministrativa indipendente che ha consistenti poteri di intervento, per l’appunto una Autorità garante della concorrenza e del mercato che le norme della legge del 1990 impegnano a svolgere funzioni di vigilanza di segno molto forte. A queste poi  altre ne aggiungono gli artt. 21 e 22 della legge che prefigurano una significativa attivazione di rapporti tra Autorità garante e soggetti rappresentativi della volontà politica. «Allo scopo di contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del mercato», l’Autorità garante «individua» nelle stesse norme di legge o in «provvedimenti» di natura amministrativa le possibili «distorsioni della concorrenza» e del «corretto funzionamento del mercato» che non sono «giustificate da esigenze di interesse generale» (e occorre perciò prevenire o rimuovere). Ancora l’Autorità garante «può» infine «esprimere pareri sulle iniziative legislative o regolamentari» nel contesto di una interlocuzione con governo e parlamento che è certamente un punto forte del sistema.

          Le funzioni di vigilanza operano con la estensione di campo precisata dalla norma dell’art. 8 dove si stabilisce che le disposizioni della legge antitrust si applicano sia «alle imprese private» che «a quelle pubbliche». Il secondo comma dell’art. 8 riserva uno speciale regime alle imprese che «per disposizione di legge» esercitano «la gestione di servizi di interesse economico generale» oppure operano in regime di «monopolio legale». Ma finalmente si reagisce agli abusi di posizione dominante che in vario modo violano il principio di libera concorrenza. Abusi che la legge del 1990 colpisce con norme che ingiungono la «eliminazione delle infrazioni» e in caso di «infrazioni gravi» applicano «sanzioni amministrative» di «genere pecuniario» molto onerose. E particolare attenzione si deve riservare alle fattispecie enumerate dalla norma dell’art. 3 della legge 278, che formula espresso divieto di imposizione di prezzi, di usi devianti della forza contrattuale e di quant’altro impedisca o limiti «produzione», «accessi al mercato», «sviluppo tecnico» progresso tecnologico «a danno dei consumatori».

           Già in questa materia l’Autorità garante opera con i poteri di indagine assegnati dalla norma dell’art. 12. Per «verificare l’esistenza di infrazioni» provvederà perciò a prendere in esame gli «elementi» di valutazione «portati a sua conoscenza da pubbliche amministrazioni» o da chiunque vi abbia interesse. Ma anche d’ufficio l’Autorità garante può procedere ad indagini conoscitive «di natura generale», considerando l’andamento di settori economici «nei quali l’evoluzione degli scambi, il comportamento dei prezzi» o altre circostanze «facciano presumere che la concorrenza sia impedita, ristretta o falsata». Si svolgeranno attività istruttorie osservando le regole disposte dall’art. 14. Alle imprese indagate si assicurano doverose garanzie di ascolto anche mediante la presentazione di «deduzioni» e «pareri» in ogni fase del procedimento. Ma il secondo comma della norma al tempo stesso legittima l’Autorità garante all’impiego dei più ampi mezzi di indagine «in ordine a qualsiasi elemento rilevante ai fini dell’istruttoria». E quando fossero riscontrate «infrazioni» seguiranno «diffide» che assegnano un termine per la loro «eliminazione» così come le possibili misure sanzionatorie contestualmente indicate dall’art. 15.

       Costituiscano «accordi», «deliberazioni» o altri congegni di genere negoziale sono poi vietate e comunque «nulle ad ogni effetto» le intese che possano pregiudicare, e l’art. 2 della legge precisa «in maniera consistente» la naturale dinamica di una economia di concorrenza. «Intese» di questo genere possono riguardare imprese e consorzi di imprese, loro «associazioni» o «altri organismi similari». E molto ampio è lo scenario dei possibili oggetti dell’accordo, che di volta in volta riguarderà «fonti di approvvigionamento», «sbocchi» o «accessi al mercato», investimenti e tecnologie produttive, «prezzi» e «condizioni contrattuali» o ancora diversa tecnica operativa di restrizione della concorrenza. Ma quale che sia la tecnica o la materia delle intese «restrittive della libertà di concorrenza» sarà necessario agire in prevenzione e a sanzione dei comportamenti devianti. Possono tuttavia darsi situazioni che consentono un regime di deroga al divieto dovendosi considerare quanto stabilisce il primo comma dell’art. 4.

        È infatti previsto che l’Autorità garante «per un periodo limitato» autorizzi intese altrimenti vietate in considerazione del possibile «beneficio per i consumatori» o della «necessaria concorrenzialità» delle imprese «sul piano internazionale». E opera un regime particolare in caso di intese «comunicate all’Autorità garante» seguendo la previsione dell’art. 13. Ma invariabilmente la funzione di pubblica vigilanza presenterà tutti caratteri di rigore già segnalati. Anche in presenza di «intese» o comunque di «accordi» del genere prefigurato dall’art. 2 della legge, si svolgerà attività istruttoria secondo il regime dell’art. 12 (una volta di più non essendo escluso l’impiego degli strumenti di vigilanza ispettiva). E anche quando si tratti della fattispecie di «intese» provatamente «restrittive» della libertà di concorrenza vale l’indicato regime di reazione alle infrazioni che si fossero accertate.

          Rilevano infine le operazioni di concentrazione imprenditoriale. E naturalmente il fenomeno si presenta in forme tanto varie quanto lo sono le opportunità che si offrono ai protagonisti dell’economia finanziaria. Possono perciò configurarsi fattispecie assai diverse tra loro, così come sono diverse le modalità di organizzazione di un insieme unitario di risorse e di attività. Talvolta si tratterà di fusione di imprese, altra volta di controllo di imprese acquisito mediante partecipazioni al loro capitale (o «mediante contratto» oppure «con qualsiasi altro mezzo»), altra volta ancora del caso di «due o più imprese» che costituiscono una impresa comune. Se si configurano fattispecie del genere e della grandezza indicate dall’art. 16 della legge, le operazioni di concentrazione imprenditoriale devono comunque essere preventivamente comunicate alla Autorità garante per le necessarie valutazioni.

           Occorrerà valutare se le operazioni progettate comportano «la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante» tale da «eliminare o ridurre» le possibilità di concorrenza «in modo sostanziale e durevole». Quando sia necessario sarà perciò avviata una istruttoria secondo le previsioni degli artt. 16 a 18 della legge. All’Autorità garante anche in questa materia competono poteri di sospensione e di divieto così come i rilevanti poteri di sanzione dell’art. 19, che consente di infliggere «sanzioni amministrative pecuniarie» ancora una volta particolarmente onerose. E anche su questo fronte garantire libertà di concorrenza significa fare quanto è indispensabile per consentire una competizione tra imprese che in punto di qualità e di prezzi assicuri migliori opportunità ai consumatori dei beni e dei servizi che sul mercato si offrono. In ogni caso una «economia di mercato aperta e in libera concorrenza» è quanto già il Trattato di Maastricht indicava come modello obbligato per ogni paese dell’Unione Europea .Ma la dimensione mondiale dei fenomeni di e.commerce rende ormai urgente la progettazione di normative senza confini di territorio .

 

2.   Imprenditori e imprese.Lo scenario di insieme e i principi generali del sistema. I fenomeni di illecito e le  policies di responsabilità sociale dell’impresa.

 

             Già si è avvertito  che (in un senso da precisare  più avanti ) al fenomeno imprenditoriale  le assai numerose  discipline comunitarie guardano  in una particolare prospettiva di politica del diritto ,di regola ignorando la nozione di <imprenditore > e assegnando alla  nozione di <impresa > caratteri diversificati a seconda dei diversi contesti normativi,cosa che segna tutta la distanza dai singoli ordinamenti nazionali ,anch’essi connotati da una notevole varietà di assunti  se soltanto si considerà (come si considererà più avanti) la distanza che separa la multiforme nozione di Unternehmen del diritto tedesco, l’entreprise  del diritto francese  anch’essa nozione  non unitaria e l’enterprise o undertaking del diritto inglese,così come ognuna delle relative normazioni di riferimento a confronto con le nozioni e le discipline di diritto italiano.

         Diritto una volta di più multiforme perché anche a non considerare le fonti di diritto comunitario deve essere chiaro che già  in ambito nazionale non esiste una nozione unitaria che valga per ogni possibile ambito di regolazione del fenomeno imprenditoriale ,esistendo invece tante nozioni di (impresa e di ) imprenditore quante sono le necessarie discipline di settore .E per fare soltanto un esempio (che sarà argomentato più avanti) si pensi alla separata identità della nozione di imprenditore codificata dalla legislazione in materia fiscale  a fronte della più generale  nozione civilista di imprenditore.E a  questa occorre adesso fare una serie di precisi riferimenti.

           Per l’art. 2082 del codice civile è imprenditore chiunque eserciti professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. «Professionalmente» e perciò in modo sistematico e non occasionale, dovendosi tuttavia considerare che il requisito della professionalità esiste anche se l’attività d’im­presa si aggiunge ad altre e non si svolge con carattere di continuità. E’ imprenditore ( e la giurisprudenza lo conferma ) anche chi  esercita attività di impresa  ad integrazione di altre sue attività  principali  di diverso genere. E quanto alle attività che sono attività di impresa senza carattere di continuità  si pensi al grande numero di quelle per loro natura  praticabili soltanto in taluni periodi dell’anno. Né  deve considersi escluso( e la giurisprudenza lo conferma ) il caso della impresa congegnata in funzione di una unica operazione di mercato se si tratta di  affare che comporta organizzazione  di atti  e di  un correlato  apparato di genere produttivo.

              In questo senso , la professionalità  indicata dall’art. 2082   è ciò che  configura un esercizio  non occasionale ( e perciò <abituale > ) dell ‘attività. Deve tuttavia trattarsi di una attività < economica > cosa che si è variamente intesa esistendo divergenti letture dell’art. 2082 . A opinione di molti una attività è <economica> già se  è comunque  attività di produzione  o di scambio di beni e servizi ,secondo altri  ( e giustamente )dovendosi invece precisare che in tanto esistono attività economica e impresa nell’accezione dell’art. 2082 in quanto  si operi per conseguire almeno la remunerazione dei fattori produttivi che già in apertura di discorso si era segnata come il carattere distintivo dell’iniziativa imprenditoriale : E naturalmente dovrà trattarsi di   organizzata «al fine della produzione e dello scambio» nel senso che a suo tempo si è già precisato. In assenza di una organizzazione che operi con finalità di produzione e scambio si tratterà di attività di altro genere.

          Comunque non di impresa perché l’attività di impresa si identifica con l’organizzazione di risorse finanziarie, di attrezzature e di lavoro per un mercato dove offrire beni e servizi ,essendo davvero discutibile l’assunto di quanti considerano invece impresa ,e come si usa dire impresa < per conto proprio>  la attività di destinazione a sé invece che al mercato di beni o servizi. Ma una volta precisata la correlazione tra attività di impresa  e mercato sarà bene allo stesso modo  precisare  che  non occorre ulteriormente distinguere perché i beni e i servizi oggetto dell’offerta di mercato possono essere del più vario genere così come lo possono essere  le tipologie della domanda.

                E’ invece  assai discusso che cosa sia la <organizzazione > di impresa tale da integrare la fattispecie dell’art. 2082   perché se è vero che  altre norme del codice civile ,e per esempio le norme che (come l’art. 2086) guardano all’imprenditore <capo dell’impresa> dal quale <dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori o guardano all’azienda dell’art. 2555 come  insieme  dei beni organizzati per l’eesercizio dell’impresa  con ogni evidenza  si riferiscono ad un apparato organizzativo ordinariamente caratterizzato da una sua complessità,  è pur sempre necessario stabilire qual  sia  la soglia minimale dei fattori organizzativi  che di per sé configurano la fattispecie dell’art. 2083.

           E se in passato non erano mancate  opinioni dissenzienti  è ormai  opinione generalmente condivisa che imprenditore e impresa esistono  anche quando si operi  in assenza  delle altrui prestazioni di attività di lavoro impiegandosi soltanto lavoro (e risorse di capitale )  della persona <imprenditore > . Né la qualità di imprenditore  deve considerarsi obbligatoriamente correlata  alla  strumentazione costituita da  fattori  con la materialità  dei beni  mobili o immobili  che connotano la azienda perché imprenditore è anche chi in loro assenza  movimenta i capitali della financial economy che naturalmente sonoi anch’essi  fattore produttivo. Molto discutibile (e verosimilmente da respingere ) è invece l’assunto di quanti  indicano un imprenditore sia pure< piccolo > imprenditore in chi non impiegando lavoro altrui né  capitali sembra  piuttosto essere lavoratore autonomo (come lo sono l’agente di commercio o il mediatore).

        Occorrre infine valutare se costituisca elemento costitutivo dell’essere imprenditore la finalità di profitto essendo assai spesso  sostenuto che coessenziale all’impresa è lo scopo di lucro, ad avviso di altri dovendosi invece ritenere che carattere necessario della attività di impresa sia soltanto  l’operare secondo regola di economicità ,e perciò ritenere che imprenditore e impresa  esistono già se si perseguono finalità di copertura dei costi con i ricavi della attività. E anche il diritto giurisprudenziale   documenta  divergenza di orientamenti ma sembra preferibile trovando riscontri di diritto positivo nel numero dei requisiti obbligati dell’imprenditorialità non va  compresoinvece  lo scopo di lucro che infatti l’art. 2082 non richiama.   Ma al riguardo sarà bene fare maggior  chiarezza  uscendo dal labirinto dei discorsi in astratto.

        Naturalmente nel gran numero dei casi si è im­pren­ditori per scopo di lucro. Ma le imprese esercitate da enti pubblici dell’art. 2093 non perseguono finalità di profitto. L’impresa cooperativa dell’art. 2511 non ha principalmente  scopo lucrativo. Svolgono attività che sono sicuramente attività di impresa anche associazioni o fondazioni sul modello del primo libro del codice civile che tuttavia non sono in alcun senso organizzazioni costituite a scopo di profitto. Perciò non il fine di lucro ma la natura della attività e la spedita del nome  identificano l’imprenditore cosa tuttavia talvolta non facile .Si pensi al caso tra breve considerato  dell’imprenditore < occulto> che svolge la attività di impresa senza spendere il suo nome: esercita la attività ma all’esterno compare soltanto un prestanome( e  come si preciserà  il regime di fattispecie di questo genere è a tutt’oggi ma­teria di contrastanti opinioni).

         Come si comprenderà massimamente rileva stabilire qual è il momento  di  inizio dell’impresa  dovendosi distinguere tra  intenzioni o progetti ,attività e adempimenti preliminari , attività di effettivo esercizio dell’impresa. E se in linea generale soltanto il principio di effettività segna l’inizio dell’impresa  altro e più complesso discorso si rende necessario per le imprese che sono società, perché uniformandosi agli orientamenti della giurisprudenza (e di numerosa dottrina ) dovrebbe ritenersi che già la loro costituzione configuri (nascita della ) impresa ,perciò esistente ancor prima dell’effettivo esercizio della attività  Ma va considerato anche il diverso avviso di quanti ritengono che anche in materia societaria valga il principio dell’effettività in presenza di una norma che (come l’art. 2083 ) indicome come imprenditore <chi esercita>.         

     Che cosa poi sia  attività di <esercizio>   è possibile stabilire soltanto  guardando ad una varietà di situazioni che comunque impegna a  considerare  la differenza tra   attività imprenditoriali che presuppongo un  assetto organizzativo di azienda  e imprese che invece operano in sua assenza . Là dove  occorre configurare assetti organizzativi  già  un primo atto di impresa  vale esercizio della attività imprenditoriale mentre invece in situazioni diverse da questa soltanto una serie  di atti di quel genere proverà che si è in presenza dell’agire professionale richiesto dall’art. 2082. Ma una volta di più la materia è assai problematica  perché va seriamente considerato l’avviso di quanti (e l’ orientamento di una parte della giurisprudenza ) secondo che inizio dell’impresa può darsi già in fase di sua organizzazione ,se  ne risulta sufficientemente documentata la significatività senza che occorra ettendere un primo atto di  gestione dell’impresa.

         Quanto alla fine dell’impresa  sarà ancora una volta sufficiente riferirsi al già segnalato criterio della effettività avvertendo che la qualità di imprenditore  si estingue (soltanto) con il fatto stesso di cessare l’esercizio dell’impresa. E considerato che nella generalità dei casi sarà  necessario provvedere a esitare merci, risolvere rapporti contrattuali del più vario genere , allocare i beni costitutivi dell’azienda o altro ancora  va considerata la fase di liquidazione dell’impresa  che a veder bene è ancora una modalità di suo esercizio ,di modo che la fine dell’impresa si compie con la conclusione delle attività  di sua liquidazione (ma speciale attenzione occorre per l’impresa  che sia società per essa ritenendosi  che a rilevare sia la cancellazione dal registro delle imprese mentre  in giurisprudenza si asserisce che  la società pur cancellata dal registro  esiste con la conseguente soggezione al possibile fallimento  fino a che non sia completata l’intersa serie dei pagamenti dovuti a creditori).

        All’impresa già (o ancora )in atto si applicano le norme che disegnano lo speciale  statuto giuridico dell’imprenditore a cominciare da una serie di disposizioni a carattere generale. Talvolta si tratta di norme che (come ad esempio gli artt. 1330, 1368, 1722 e 1824) riguardano i contratti dell’imprenditore o (come l’art. 2598) le regole della concorrenza, altra volta di norme che disciplinano il complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa (e sono le norme degli artt. 2555 a 2562) e comunque si tratta di norme che (come ad esempio gli artt. 2084 e 2087 o ancora l’art. 2094) in linea di principio valgono per ogni e qualsiasi imprenditore.Le norme di statuto giuridico condivise dalla generalità degli imprenditori tuttavia costituiscono soltanto una prima approssimazione alla disciplina che li regola. Disciplina diversificata già  quando si tratta di regolare le fattispecie di possibile <incapacità> di esercizio dell’impresa per l’imprenditore commerciale valendo le speciali disposizioni degli artt. 320 ,371 , 397 e altri ancora.

          Ma questo è soltanto il punto di emersione di una questione di insieme perché  distinzioni si impongono a tutto campo occorrendo in ogni senso distinguere tra impresa e impresa a seconda del soggetto imprenditore, della dimensione e della posizione di mercato dell’impresa, della sua organizzazione su base individuale o collettiva e dell’oggetto della attività esercitata. Occorre quindi seguire una lunga linea di percorso che deve riguardare sia la complessa trama delle norme sia i problemi che ne restano insoluti. Problemi numerosi e talvolta di grande rilievo dovendosi poi considerare in che misura possono darsi fenomeni devianti e gravi punti di caduta del sistema. Ne è significativo esempio l’intera serie delle situazioni che si determinano quando l’esercizio dell’impresa si sottrae alle regole che valgono in materia di rischio finanziario e responsabilità patrimoniale dell’imprenditore.

        In linea generale  e per principio  a identificare l’imprenditore provvede la spendita del nome. E gli atti giuridici che riguardano l’impresa sono imputati al soggetto che per l’appunto «spende» e impegna il suo nome come imprenditore, quale che sia la realtà delle cose riguardo a provvista di mezzi, organizzazione dell’impresa, operazioni di mercato, guadagni di capitale o altro ancora. Sia pure in assenza di una norma che così stabilisca, questo è quanto deriva da un principio che per orientamento fortemente consolidato si deve a tutt’oggi considerare regola costitutiva del sistema. Ma si tratta di regola messa a dura prova da fattispecie di abuso tradizionalmente consegnate all’immagine dell’imprenditore occulto che opera senza spendere il suo nome. Provvede ai mezzi necessari per lo svolgimento della attività, assume le decisioni imprenditoriali e ne acquisisce i risultati economici. Esercita l’attività di impresa ma all’esterno non compare.

      È un imprenditore «occulto» che per gli atti giuridicamente impegnativi si avvale di un «prestanome» oppure di una società «di comodo», egualmente utile allo scopo di sottrarsi a personali obbligazioni nei confronti dei «terzi» entrati in rapporto di affari con l’impresa o suoi prestatori di lavoro. E se così accade senza che la posizione dell’imprenditore occulto giuridicamente rilevi, sarà chiaro che cosa ne deriva in punto di allocazione del rischio finanziario e di tutela giuridica dei suoi creditori. Opera un imprenditore che allontana da sé ogni forma di responsabilità patrimoniale. In questo modo l’imprenditore irresponsabile naturalmente agisce in danno dei terzi, che a garanzia del loro credito trovano soltanto un prestanome, verosimilmente sprovvisto delle risorse finanziarie che occorrono per fare fronte agli impegni assunti. Ma la situazione non è diversa nel caso della società di comodo.

      Società costituita con capitale irrisorio di modo che anche in tal caso l’imprenditore occulto trasferisce il rischio di impresa e delle sue inadempienze sui terzi creditori per il lavoro prestato o altro ancora. Da ciò ulteriori situazioni con caratteri di criticità e l’argomentare di quanti ritengono che numerose norme del codice civile consentano di affermare un principio di necessaria continuità tra esercizio di poteri e assunzioni di responsabilità. Si elaborano complesse teorie e si richiamano le norme degli artt. 2267, 2291 e 2318 (e ancora gli artt. 2320 e 2362). Dal loro insieme si deriva l’assunto che anche un imprenditore occulto dovrebbe perciò rispondere delle obbligazioni conseguenti alle attività di impresa. Richiamando l’art. 147 della legge fallimentare altri ritengono che in caso di insolvenza anche l’imprenditore occulto dovrebbe essere assoggettato al fallimento. Ma i riferimenti normativi lasciano residuare forti perplessità e comunque a tutt’oggi prevale il diverso orientamento che si è  segnalato.

         Inderogabile regola di sistema sembra essere che per decidere «chi» è imprenditore (e ne deriva tutte le responsabilità) vale il criterio formale della spendita del nome, e non invece il criterio sostanziale dell’esercizio dell’impresa in senso economico, del potere di direzione o altro ancora. L’opinione prevalente ha consistenti motivazioni che non sono soltanto di genere normativo e formale. Si osserva infatti che entrando in rapporto con l’impresa i terzi non potevano mettere in conto la responsabilità patrimoniale di un «imprenditore» rimasto «occulto», perciò non esistendo in allora affidamenti che possano poi essere presi in considerazione. Ma è pur vero che l’imprenditore occulto si avvale di «prestanome» e «società di comodo» per esercitare attività di impresa con modalità gravemente devianti.

       Per parte sua la giurisprudenza si sforza di elaborare strumenti di reazione agli abusi. Si configura come attività di una impresa a sé l’attività dell’imprenditore «occulto» che movimenta risorse finanziarie, appresta mezzi e gestisce l’impresa «palese». E per quanto possibile se ne derivano le conseguenti responsabilità. In seguito saranno considerate anche altre fattispecie di genere deviante ma  ma non i complessi problemi che si devono al caso della attività di impresa che in sé configuri un illecito per essere contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume. Il caso della impresa illecita appartiene infatti a materia diversa da quella considerata in queste pagine. Si deve tuttavia almeno avvertire che all’interno del sistema economico  attività di impresa di tal genere non sono davvero  fenomeno di carattere marginale. E l’esperienza degli anni recenti avverte  che anche alla scala sovranazionale shadow  economy  e la criminalità economica attrezzata nella forma delle attività di impresa hanno  crescenti grandezze .

       Attraversano con effetti tavolta devastanti  numerosi settori dell’economia reale così come i diversi comparti dell’economia finanziaria. Da ciò la comprensibile e forte domanda di nuove normative capaci di operare in prevenzione dell’illecito essendo chiaro  che occorre assolutamente impederie che  le norme di speciale  statuto dell’imprenditore possano in qualche modo andare a beneficio di una impresa illecita. Si avverte perciò con urgenza sempre maggiore l’esigenza delle normative necessarie per identificare usi perversi della forma giuridica «impresa» messi in atto da soggetti che operando nella shadow economy  spesso si avvalgono di una tecnica giuridica molto sofisticata. E occorre elaborare nuovi strumenti di prevenzione dell’illecito  così come strumenti di reazione punitiva essendo poi necessario garantire efficace operatività alla sanzione delle violazioni di norme volta a volta accertate.

    Al tempo stesso si rendono indispensabili normative anche in altro senso ben congegnate  perché sarà tuttavia pur sempre da considerare la posizione dei terzi entrati in rapporto con l’impresa senza per questo essere parte dell’illecito che perciò meritano tutela e certamente non invece un qualche pregiudizio.  A veder bene impresa illecita in ogni caso è soltanto una formula di prima approssimazione ad un argomento che non consente discorsi di superficie. La materia ha forti caratteri di specialità a tutt’oggi non ancora interamente esplorati. Una volta di più si deve comunque distinguere tra fattispecie quanto mai lontane tra loro.

      Una cosa è infatti l’illecito costituito dalla violazione di norme che non consentono di svolgere una attività di impresa (e per esempio la attività bancaria) in assenza di particolari autorizzazioni. Altra cosa è la sistematica violazione delle norme che regolano nei contenuti lo svolgimento della attività di impresa (e per esempio le norme sulle modalità di sollecitazione del pubblico risparmio). Infine tutt’altra cosa ancora è organizzare in forma di impresa le attività che si sono indicate come possibili forme di criminalità economica (e per esempio il <riciclaggio > di < denaro sporco > oggi così spesso movimentato per via informatica). Come si capisce ne deriva ampio spazio per una riflessione da svolgere in una prospettiva di analisi che in queste pagine non sarà tuttavia considerata.

         E soltanto mediante sommarie indicazioni di rinvio si riferiscono  le stesse norme di disciplina penale dell’impresa che pur nel contesto di una attività perfettamente legittima per taluni suoi singoli atti integri fattispecie di reato non essendo comunque  necessario insistere nel segnalare il grande rilievo   delle disposizioni che assoggettano le imprese ad un controllo di legalità con lo strumento forte della norma penale perchè  davvero non si conosce il diritto di imprese e società senza conoscere ciò che è loro disciplina di   questo genere. Sia pure in via di prima approssimazione è  perciò sicuramente utile  richiamare  i  fattori  distintivi di un insieme normativo di carattere  molto particolare.

       Prevalgono infatti le disposizioni di legge speciale che si sono succedute senza una sufficiente organicità di complessivo disegno del diritto penale dell’impresa che  in consistente misura è ormai anche disciplina di prevenzione e di sanzione del delitto informatico.In linea di principio si possono comunque indicare come interessi protetti dalla norma incriminatrice i valori sociali che negli artt. 41  e 47 o in altre disposizioni costituzionali segnano limiti alla iniziativa economica. Ogni singola norma incriminatrice  ha naturalmente  una sua particolare ratio legis che occorrerà di volta in volta precisare. Ancor prima occorre tuttavia distinguere tra le diverse norme incriminatrici in considerazione del loro diverso ambito di operatività

       Parte del sistema sono  fattispecie di reato che possono configurarsi per qualsiasi attività di impresa e per qualsiasi società «soggetta a registrazione». Altre disposizioni dove si prefigurano fattispecie di reato sono invece norme incriminatrici che si riferiscono in via esclusiva alle società di capitali. Altre ancora stabiliscono infine speciale disciplina delle società azionarie con azioni quotate e del mercato finanziario.  L’universo delle fattispecie che costituiscono «delitto» o «contravvenzione», e che perciò comportano sanzioni penali di comportamenti devianti ha quindi   la ulteriore e crescente  complessità che si può bene immaginare.

         Normative a sé valgono per singole categorie di soggetti (e ad esempio per le società di revisione contabile), così come per singoli settori di industria (e ad esempio per il settore bancario) e per i fenomeni di insolvenza delle imprese con caratteri di rilevanza penale (configurandosi allora le diverse ipotesi di reati fallimentari). A tutto questo si aggiunga la nuova disciplina penale delle attività imprenditoriali di intermediazione in valori mobiliari. Ne risulterà con chiarezza la estensione di campo di normative di prevenzione e sanzione dell’illecito di impresa che in queste pagine si segnalano soltanto per i possibili approfondimenti. Sarà bene tuttavia quanto meno rilevare fino da ora un elemento distintivo dell’intera disciplina che al tempo stesso ne costituisce grave punto di caduta.

      Configurando il regime penale di imprese e  società  molto spesso  si  è infatti  privilegiata una tecnica legislativa che definisce la fattispecie criminosa mediante rinvio ad altre disposizioni. E si tratta di tecnica legislativa che naturalmente  non si sottrae ad una motivata critica. La norma penale stabilisce la sanzione ma gli elementi costitutivi della fattispecie di reato si devono derivare da altre norme. E molto spesso si tratta di norme di diritto privato o di diritto amministrativo, di per sé incapaci di una descrizione di comportamenti così puntuale quanto richiede il principio di stretta legalità che è invece per tutti garanzia costituzionalmente stabilita. Da ciò una serie di norme penali in bianco che comportano un elevato rischio di discutibili applicazioni. Ragionando in termini di politica del diritto sarà infine chiaro che l’impiego della norma penale esige misura.

      È pur sempre necessario quando occorre agire in prevenzione e a sanzione di comportamenti con caratteri di particolare gravità. Anche in materia di imprese e società  (ma a veder bene sempre) il ricorso allo strumento forte della norma penale si giustifica tuttavia soltanto nella misura resa indispensabile dalla provata mancanza di altri e meno afflittivi mezzi di reazione all’illecito.In ogni caso occorrono  discipline capaci di scongiurare  tutti i pericoli delle  norme penali  a contenuto  indeterminato. E in questo senso  anche se non macano tauni punti di caduta  sono del maggior rilievo ( meritano ampio consenso ) le innovazioni di sistema operate  dal decreto legislativo che a marzo del 2002 ha riformato il regime degli <illeciti  penali > di <società e consorzi >, sia sostituendo intearmente l’undicesimo titolo del quinto libro del codice civile sia prefigurando nuove fattispecie di reato con una tecnica normativa finalmente lontana dal modello delle norme penali <in bianco> .

      A quanto sia  analisi di stretto diritto positivo sia pure in via breve altro poi occorre aggiungere dovendosi considerare che se massimamente rilevano  il sistema delle norme  con carattere di imperatività  e il loro regime sanzionatorio  tuttavia non esauriscono l’universo delle regole che devono governare lo svolgimento delle attività di impresa .Da ciò il crescente rilievo delle riflessioni e delle iniziative in termini di  responsabilità sociale dell ‘impresa  ampiamente documentato dalla crescente attenzione   al non financial report  costituito dal bilancio <sociale >dell’impresa.Si teorizza ( e talvolta  si comincia a praticare) la social responsibility dell’impresa quale <rendicontazione > del suo operare  agli stakeholders  e alla generalità dei soggetti  interessati <alla vita dell’azienda >. E  precisando i contenuti  del bilancio <sociale > dell’impresa rappresentativo   della sua  corporate social responsibility si avverte  che   non deve trattarsi semplicemente di un documento in più da allegare ai documenti  di bilancio  prescritti dal diritto contabile di imprese e società.

          Rilevano le  <grandezze di natura sociale e ambientale > e gli altri < valori collettivi >variamente indicati nella parte  propositiva del  modello a suo tempo  elaborato dall’Istituto europeo per il bilancio sociale . Pensato in  puntuale correlazione con il bilancio di esercizio dell’impresa secondo   precisa  logica di sistema  il non financial report elaborato dall’Istituto europeo è  senz’altro  condiviso dal Social and Ethical Auditing and Accounting Network . Muove da una <premessa metodologica  > e consiste di più parti che variamente riguardano <identità aziendale >,<rendiconto > di impresa ,criteri di selezione e di  di rilevazione dei fattori significativi, <attestazioni> procedurali e altro ancora,trattandosi comunque di documentare il punto di incontro e il grado di compatibilità  tra  <quantità economiche > e <qualità di relazione > tra agire con scopo di profitto  ,decisioni imprenditoriali,  ,posizioni di interesse collettivo  e < valori>  della collettività sociale di riferimento.

         Da ciò i termini fondamentali  delle discussioni in tema di responsabilità sociale dell’impresa così ricorrenti  nel mondo anglosassone ma finalmente  avviate anche nel caso italiano.Nel mondo anglosassone è da tempo consolidato l’assunto (talvolta espressamente condiviso anche da posizioni ufficiali delle  autorità di governo )  che  <va respinta> e non corrisponde a realtà   l’ <idea erronea  secondo la quale > agire di impresa e <obiettivi sociali> inevitabilmente <si trovano> in obbligato <conflitto> , aggiungendosi   che comunque le imprese <devono essere  <socialmente responsabili> con un forte impegno nelle <comunità> di loro appartenenza. In estrema sintesi si domanda di coniugare  <il bene dell’impresa > con < il bene della più ampia comunità sociale > ,e si domanda di considerare in qual ( rilevante ) misura  le iniziative orientate in questa direzione <socialmente utile>  al tempo stesso  portano con sé rilevanti <benefici > di impresa ,perché dell’impresa accrescono la <reputazione > sociale  , valorizzano segni  distintivi  e <marchio>  societario, incrementano i processi di <fidelizzazione della clientela> essendo ormai diffuso un sentire collettivo che privilegia appunto  le imprese socialmente responsabili.

          Il problema di politica del diritto  oggi dominante rinvia poi all’interrogativo se  <la virtù > imprenditoriale  possa  <essere imposta >,e perciò se in materia di attività di impresa <socialmente responsabili> occorra codificare regole giuridicamente vincolanti o se  occorra invece riconoscere <natura volontaria > a quanto su questo fronte è possibile conquistare . E la posizione preferibile sembra rappresentata da quanti avvertono che sono impensabili (e comunque non utili )normative con carattere di imperatività là dove occorre lasciare spazio alla autonomia e alle libertà di impresa. .Ma se è vero che in questa materia  deve considerarsi  esclusa una inimmaginabile policy di segno dirigista sarà chiaro che  possono pur sempre utilmente  congegnarsi  normative di incentivo in una prospettiva di analisi economica del diritto da valutare con il metodo di analisi  già variamente elaborato da numerosi studiosi esperti di law and economics .

           E  se a tutt’oggi prevalgono le valutazioni e le dichiarazioni di intenti nelle forme della  moral suasion con ogni evidenza  acquistano campo anche le progettazioni  di puntuali disposizioni e di  basic rules .Disposizioni  pensate come regole del genere soft law ma   pur sempre costitutive di un impegno di  imprenditori e imprese a  <tener conto dell’impatto economico,sociale e ambientale > che il loro operare ha  <sulle comunità>  che ne sono <interessate>.Un <impatto >  e un <impegno> di responsabilità sociale  talvolta indicati come fattore da considerare necessariamente <condizionante >le strategie di impresa.Anche nel caso italiano   le  più evolute strategie di governo del welfare state  comunque  ormai  sempre più spesso guardano appunto  ai temi di responsabilità sociale dell’impresa adesso significativamente indicati  come una delle <priorità del semestre di presidenza italiana> del.Ma di questo si dirà con maggior precisione quando saranno all’esame società di capitali e <gruppi > di società per loro essendo in particolare evidenza i problemi di corporate social responsibility.

 

 

3. Imprenditori privati e imprenditorialità pubblica.Le dimensioni di impresa e i «piccoli imprenditori .» La natura e.l’oggetto  delle  attività.Impresa agricola, impresa artigiana.

 

         Come si è già avvertito numerose  distinzioni si impongono occorrendo distinguere tra impresa e impresa a seconda del soggetto imprenditore, della dimensione dell’im­presa, della sua organizzazione su base individuale o collettiva e dell’oggetto della attività esercitata. E quanto al soggetto «imprenditore» occorre in primo luogo distinguere tra privati imprenditori e impresa pubblica. E occorre ancora distinguere tra il caso dell’ente pubblico «imprenditore» che in via diretta esercita attività di impresa (operando il regime degli artt. 2201 e 2221) e il caso della partecipazione di un ente pubblico al capitale sociale di una impresa che tuttavia continua pur sempre ad essere impresa privata (operando perciò l’ordinario regime dell’impresa privata ma anche le norme degli artt. 2449 e 2450). In tempi di progressiva privatizzazione del settore pubblico dell’economia, una complessa legislazione a carattere speciale delinea nuovi scenari di regime dell’impresa, già sufficientemente esemplificati dalle norme della l. 8 agosto 1992 n. 359 che ha disposto la trasformazione di enti pubblici di primario rilievo in imprese di diritto privato.

                Quanto alle dimensioni dell’impresa occorre considerare la particolare posizione e il regime giuridico del piccolo imprenditore.  Per l’art. 2083 del codice civile sono piccoli imprenditori sia i coltivatori diretti del fondo, sia gli artigiani sia «i piccoli commercianti» e comunque «coloro i quali esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia». La prevalenza del fattore «lavoro» e del lavoro familiare è perciò l’elemento distintivo dell’art. 2083. Non si ritrova quindi impresa del «piccolo imprenditore» là dove sull’impiego di forza lavoro prevalga l’impiego di risorse finanziarie o là dove invece dell’organizzazione familiare delle attività opera il più complesso assetto organizzativo delle imprese di genere societario. E per stretta conseguenza la specialità della figura imprenditoriale trova riscontro nella particolarità del suo statuto normativo.

         Per il piccolo imprenditore non la vale la generale disciplina di pubblicità, domandandosi soltanto iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese. Anche quando sia imprenditore commerciale il piccolo imprenditore non è obbligato alla tenuta di scritture contabili secondo il regime dell’art. 2214. E nell’eventualità di una situazione di insolvenza non è assoggettato al regime delle procedure concorsuali. Non è necessariamente piccolo imprenditore chi esercita l’impresa in forma di impresa familiare seguendo il regime dell’art. 230 bis, che è norma di tutela per quanti in famiglia offrono appunto prestazioni di lavoro al coniuge o al parente «imprenditore», da ciò derivando diritti al mantenimento, partecipazione agli utili e agli acquisti «nonché agli incrementi dell’azienda».

        Ai membri della famiglia che in modo continuato paretcipano alle attività di impresa si riconoscono sia diritti patrimoniali che diritti amministrativi. L’impresa familiare non è necessariamente  piccolo imprenditore  e le disposizioni dell’art. 230 bis meritano la più attenta lettura. In passato ( e fino alla riforma della disciplina  del diritto di famiglia del 1975 ), il lavoro prestato in famiglia  si considerava infatti prestazione < a titolo gratuito > con tutte le evidenti possibilità di abuso. E per il caso dell’impresa coniugale si legga che regola come oggetto di comunione il caso delle «aziende» costituite «dopo il matrimonio» e «gestite da entrambi i coniugi». Sarà precisato più avanti in che senso alla dimensione della impresa comprensibilmente  guardano norme di legislazione speciale a misura dei fenomeni di crisi di imprese a grande dimensione.

        Quanto poi all’organizzazione di impresa e alla distinzione tra impresa individuale e impresa collettiva, sarà chiaro che una cosa è l’impresa esercitata da un singolo imprenditore, altra cosa la società costituita sul modello dell’art. 2247 da «due o più persone» per «l’esercizio in comune di una attività economica», mediante conferimenti di «beni» o «servizi» che alla attività di impresa consentono di operare con strumenti e ad una scala semplicemente impensabile per l’impresa organizzata a misura delle forze del singolo imprenditore individuale.E’ vero che possono darsi anche società unipersonali ma in linea generale  imprese individuali e società appartengono a mondi diversi e  separati da una distanza che già le norme del codice civile misurano per intero. Si deve infine considerare la diversificazione tra imprese e regimi di imprese che si deve all’oggetto della attività imprenditoriale.

        Nella sua originaria formulazione l’art. 2135 del codice civile definiva l’impresa agricola e più precisamente l’imprenditore agricolo, inteso come tale «chi esercita un’attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame» e «attività connesse». E ancora l’art. 2135 avvertiva poi che «si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli» ma soltanto se e in quanto si tratti di attività «che rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura». Da ciò la qualificazione di attività connessa all’esercizio dell’impresa agricola variamente estesa a tutta una serie di trasformazioni del prodotto della attività (e per esempio la trasformazione dell’uva in vino), così come all’offerta dei prodotti della coltivazione del fondo (e per esempio esposti al pubblico per una diretta vendita a chi passa), non essendo tuttavia più esercizio normale dell’agricoltura una attività industriale di trasformazione dei prodotti o l’organizzazione di una rete di vendita sul modello del grande commercio.

       Alla originaria formulazione dell’art. 2135 del codice civile si sono adesso apportate significative integrazioni con le norme del decreto legislativo 228 del 18 maggio 2001. Coltivazione del fondo e comunque attività di impresa agricola sono considerate anche le attività «dirette» alla cura e allo sviluppo di un «ciclo biologico» o di «una sua fase» mediante l’utilizzo del fondo o delle altre risorse indicate dalle norme del decreto legislativo, che in misura molto consistente ampliano poi l’ambito delle attività da ritenersi normalmente connesse all’operare dell’impresa agricola.Per la nuova formulazione del secondo comma dell’art. 2135 strutturalmente connesse alla attività principale dell’imprenditore agricolo sono infatti le attività di «conservazione» e «trasformazione» ma anche di «commercializzazione» e «valorizzazione» dei «prodotti» derivati dal fare impresa agricola.

         Allo stesso modo lo sono le attività relative alla «fornitura di beni e servizi» mediante l’utilizzo «prevalente» di attrezzature o risorse dell’impresa normalmente impiegate nello svolgimento dell’impresa, non escluse quante consistono in valorizzazioni del territorio e del patrimonio «rurale e forestale» (o ancora in prestazioni di «ricezione» e «ospitalità» che con ogni evidenza si riferiscono al rilevante comparto dell’agriturismo). La nuova formulazione dell’art. 2135 avverte poi che imprenditore agricolo può anche essere una «cooperativa» di agricoltori o un loro consorzio se per la attività si impiegano in misura prevalente risorse prodotte dai soci o se con essa ai soci si offrono «beni» e «servizi» per la cura e lo sviluppo di un ciclo biologico E «l’iscrizione degli imprenditori agricoli» ma anche «delle società semplici esercenti attività agricola» nella sezione speciale del registro delle imprese «oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali» ha «l’efficacia di cui all’articolo 2193 del codice civile».Altro in via breve occorre infine segnalare.

        Con il decreto legislativo 228 si sono infatti stabilite nuove discipline per l’«esercizio» dell’attività di vendita «diretta» e «al dettaglio» dei «prodotti provenienti in misura prevalente» dall’impresa agricola. E l’art. 10 del decreto legislativo stabilisce quali requisiti «società di persone» e «società di capitali» devono presentare per essere imprenditore agricolo «a titolo principale» Si stabiliscono precisi contenuti delle discipline statutarie volta a volta diversi a seconda del singolo tipo di società. Con un riferimento «percentuale» che quanto alle società in accomandita si riferisce ai soli soci accomandatari,per le società di persone è disposto che almeno la metà dei soci deve essere in possesso della qualifica di imprenditore agricolo «a titolo principale». Nel caso della società di capitali una quota maggiore del cinquanta per cento del capitale sociale deve essere sottoscritta da imprenditori agricoli anch’essi «a titolo principale». Qualifica ancora richiesta per un numero di soci almeno pari alla metà nel caso della società cooperativa che dovrà comunque avvalersi di «prodotti» conferiti da soggetti «soci».Va infine ricordato che con il decreto legislativo 226 del 18 maggio 2001 si è opportunamente riformato il regime del settore delle attività di pesca mediante l’equiparazione dell’imprenditore ittico a quello «agricolo» a «titolo principale».

         Anche da ciò significative innovazioni di disciplina in settori dell’economia che comunque conservano una loro particolare specialità di ordinamento. Fino a che l’attività svolta dall’impresa appartiene all’ambito delle attività che per le norme di legge sono fare impresa «agricola», il suo regime si caratterizza infatti per una speciale disciplina che in grande misura significa esclusione delle prescrizioni che valgono per l’imprenditore commerciale. Non operano le disposizioni intese a regolare l’agire negoziale dei dipendenti che agiscono in rappresentanza dell’imprenditore commerciale. Non operano le disposizioni che per l’imprenditore commerciale stabiliscono stringenti vincoli in materia contabile. E in caso di insolvenza l’imprenditore agricolo non è assoggettato alle procedure concorsuali. Ne consegue uno statuto giuridico dell’imprenditore agricolo che costituisce oggetto di motivate perplessità. E già in linea di principio è ormai molto discutibile la stessa distinzione di regime tra impresa agricola e impresa commerciale.

              Si tratti di «coltivazione del fondo», di attività «connesse» o di quant’altro è attività indicata dalle disposizioni dell’art. 2135 (e dalle norme che con esse fanno sistema), anche in agricoltura sono ormai assolutamente prevalenti modalità d’uso delle risorse e tecnologie produttive davvero lontane da ciò che un tempo segnava la loro distanza dalle imprese di genere industriale. Va poi rilevato che per un mondo di agricoltura «industrializzata» il ricorso al credito e al mercato dei capitali è fenomeno a grandi dimensioni. Con frequenza sempre maggiore mancano perciò le ragioni costitutive di una speciale disciplina. Anche se utilmente riformate le norme di regolazione del settore in questo senso continuano ad essere uno statuto giuridico di attività di impresa che in ampia misura ancora guarda al passato (e in ampia misura da ripensare: ma questa è materia complessa e coinvolge valutazioni di politica e di analisi economica del diritto che in queste pagine non possono davvero trovare spazio).

   

 

3.         Lo statuto giuridico dell’imprenditore commerciale.L’impresa artigiana. Il registro delle imprese, la tenuta delle scritture contabili, le procedure concorsuali

 

                Quali che possano essere le  considerazioni considerate utili  in punto di politica del diritto ( e di possibile riforma del sistema ) sarà chiaro che   al complesso universo dei soggetti che esercitano attività di impresa  così come agli oggetti della loro attività  in queste pagine più interessa  guardare nella prospettiva delineata da norme del codice civile che per l’appunto definiscono e classificano imprenditori e imprese. Ma  quando sono all’esame le disposizioni di regime dell’imprenditore commerciale occorre tuttavia pur sempre  rilevare in qual misura   si tratta di norme che soltanto in parte corrispondono all’attesa di una disciplina nel segno della necessaria chiarezza. Sono comunque disposizioni in più di un caso pensate a misura di assetti imprenditoriali e mercati che nel corso del tempo sono irreversibilmente diventati altra cosa da quanto poteva immaginare il legislatore di allora. Ne deriva una intera serie di difficoltà interpretative che sarà bene considerare intanto che si precisano le grandi linee del sistema , dove sono in posizione dominante le  disposizioni che riguardano appunto  l’imprenditore commerciale  secondo una logica di insieme che assegna poi il già segnalato  regime all’impresa agricola dell’ art. 2135 .

         Altri imprenditori e altri generi di impresa il codice civile non conosce. Cosa che come si preciserà è all’origine di complessi problemi, considerato il (crescente) numero delle attività che in senso economico sembrano configurare imprese di un genere diverso da quante sono «commerciali» o «agricole» per la natura stessa del loro oggetto. Sempre più spesso ancora una volta  si avverte perciò la distanza che talvolta ormai separa configurazione giuridica e realtà di mercato. Ma le norme del codice civile per questa parte della disciplina non consentono alternative e il loro disegno di insieme è assolutamente univoco. In questo senso non servono (e non fanno chiarezza) complessi discorsi di genere astratto. Nei modi che si sono precisati l’art. 2135 stabilisce chi è «imprenditore agricolo». E ogni imprenditore che non lo sia (per le norme del codice civile) sarà imprenditore commerciale. O comunque imprenditore assoggettato alle disposizioni di regime dell’imprenditore commerciale.

         Figura di imprenditore che trova la sua rappresentazione in ciò che si legge all’art. 2195 dove in senso letterale semplicemente si enumerano le categorie degli imprenditori «soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese». Ma considerato che l’obbligo di registrazione riguarda per l’appunto le imprese commerciali   l’art. 2195 è al tempo stesso norma che stabilisce quali attività nel sistema del codice civile appartengono all’ambito delle attività in senso giuridico commerciali. In via di prima approssimazione sono le attività che nel linguaggio dell’economia costituiscono «industria», e perciò «produzione» per il mercato di «beni» e «servizi» oppure invece «attività intermediaria nella circolazione dei beni», e perciò «commercio» in senso tecnico e attività del settore distributivo o comunque «intermediazione» del più vario genere.

        Né si rendono necessarie particolari precisazioni. La norma dell’art. 2195 contiene un più circostanziato elenco di attività da considerare impresa commerciale in considerazione del loro particolare oggetto. A veder bene si tratta tuttavia pur sempre di attività di «produzione», e più precisamente di produzione di «servizi» come nel caso delle imprese di trasporto oppure di attività intermediaria come nel caso di imprese bancarie e imprese assicurative. E  poi ci sono le attività «ausiliarie delle precedenti» anch’esse assoggettate al regime dell’art. 2195 senza ulteriori indicazioni che provvedano a circoscrivere l’ambito delle attività da considerare per l’appunto ausiliarie. A questo la normativa del codice civile altro non aggiunge. E in presenza di disposizioni di genere classificatorio che impiegano formule di estrema sintesi, la loro organizzazione in sistema doveva inevitabilmente offrire materia ad una tormentata elaborazione di teorie (non sempre utili) e comunque a molte discussioni.

       Si è ampiamente discusso se la norma dell’art. 2195 presenti carattere tassativo o se invece anche altre attività si possano considerare attività di impresa commerciale. La questione tuttavia non presenta motivi di speciale interesse perché la formulazione della norma è così estensiva da comprendere in sé ogni e qualsiasi attività di impresa del genere indicato. E per fare l'esempio di una significativa innovazione di sistema,si pensi all'impresa configurata come  <società per la cartolarizzazione dei crediti> secondo il regime dell'art. 3 della legge 130 dell'aprile 1999. Quanto all’attività delle imprese che per essere ausiliarie sono anch’esse imprese « commerciali », e quindi per l’art. 2195 assoggettate al regime condiviso dalla generalità delle imprese commerciali, sarà semplicemente il caso di indicare come ausiliarie  le attività di imprese che svolgono nelle forme più varie una funzione servente, si tratti dell’«agenzia immobiliare» che opera in posizione ausiliare di altre imprese, dell’imprenditore che offre consulenza aziendale, delle imprese che provvedono a servizi di deposito o di spedizione oppure altre ancora. Se interrogativi di statuto giuridico si pongono sono interrogativi che riguardano diverso oggetto.

        In modo particolare va considerato il complesso e problematico insieme delle imprese che non operano in posizione ausiliare, svolgono attività che non presentano i caratteri distintivi dell’art. 2195 e finiscono quindi per configurare fattispecie con notevoli caratteri di atipicità. Si è perciò spesso impiegata la definizione di imprese civili per indicare appunto imprese che al mercato offrono «beni» e «servizi» di incerta qualificazione ma comunque lontani dall’essere attività di produzione industriale o di intermediazione commerciale in senso tecnico. Si pensi alle imprese che come le imprese minerarie producono senza trasformare materie prime. E agli imprenditori che comunque offrono servizi non commerciali come nel caso delle imprese che offrono un servizio scolastico, di altre che organizzano pubblici spettacoli o altre ancora che operano da  agenzia investigativa.

         Attività di questo genere sono sempre più numerose in diversi settori dell’economia del «terziario» e sono sicuramente in fase espansiva. L’argomento merita perciò molta attenzione quanto alle norme da applicare. Talvolta è sembrato di poter sostenere che ci si trova in presenza di attività da considerare come oggetto di imprese appartenenti ad un tipo a sé. E si è proposto di applicare ad esse soltanto le norme di statuto generale dell’imprenditore con esclusione di quante valgono per le imprese commerciali. Se così fosse per interi comparti di impresa risultato tuttavia ne sarebbe una scarsa regolazione di imprenditori e attività. Risultato tutt’altro che opportuno e del tutto ingiustificato perché si tratta pur sempre dell’operare di imprese che «producono» per il mercato secondo la ratio legis dell’art. 2195 essendo perciò ragionevole applicare ad esse la disciplina che vale per l’imprenditore commerciale.

          Là dove si applica lo  statuto giuridico dell’imprenditore commerciale consiste di norme che presentano caratteri di particolare rilievo. Norme che non si applicano all’imprenditore agricolo e stabiliscono invece per l’imprenditore commerciale che non sia piccolo imprenditore una disciplina quanto mai rigorosa. Se non è piccolo imprenditore lo obbligano infatti alla iscrizione nel registro delle imprese con i rilevanti effetti che si preciseranno Allo stesso modo lo obbligano alla tenuta delle scritture contabili secondo la impegnativa disciplina degli artt. 2188 a 2202. E se non è piccolo imprenditore in caso di crisi dell’impresa e di insolvenza lo assoggettano al fallimento e alle altre procedure concorsuali. Ma al riguardo sarà necessario un separato discorso che distinguendo tra fallimento, amministrazione controllata dell’impresa, forme di concordato e altre procedure concorsuali consenta di valutare in che misura imprenditori e società commerciali sono oggetto di una speciale disciplina di settore, espressamente intesa a garantire tutela dei creditori e generali interessi di ogni economia di mercato anche mediante gli strumenti del diritto penale.

        Gli artt. 2203 a 2213 regolano  la posizione di quanti come institori, procuratori o commessi operano in rappresentanza dell’imprenditore commerciale. Con la frequenza e la estensione di campo che è facile immaginare(da sempre e sempre più spesso) per fare contratti è attività di impresa  l’imprenditore si avvale di altri che agiscono in suo nome e per suo conto. E una volta di più si riscontrano precise distinzioni di regime. Se si tratta di collaborazioni prestate da quanti non sono dipendenti dell’impresa operano le norme di disciplina generale della rappresentanza. Quando invece l’imprenditore sia commerciale e si avvalga di dipendenti dell’impresa si applica la particolare disciplina stabilita per «institori», «procuratori» e «commessi» appunto dalle norme degli artt. 2203 a 2213. Sempre che l’imprenditore non decida di limitare le attribuzioni dei suoi dipendenti, lo svolgimento di mansioni professionali porta  con sé i poteri di rappresentanza normalmente commisurati alla mansioni svolte, cosa che naturalmente tutela i terzi entrati in rapporto con l’impresa ben sicuri di trattare con qualcuno che ha legittimazione a contrarre.

          Institori sono i dipendenti al vertice dell’impresa o di una sua «sede secondaria» o ancora di un suo singolo «ramo», che sia pure entro i limiti segnati dall’art. 2204 possono «compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa» e per quanto sia materia di «preposizione institoria» possono «stare in giudizio in nome» dell’imprenditore che li ha designati. Sono procuratori, e per essi vale la norma dell’art. 2209 i dipendenti che svolgono attività in posizione dirigente anche se non al vertice dell’organizzazione, non essendo «preposti» all’esercizio dell’impresa (come ad esempio nel caso di un direttore del personale). E i commessi svolgono mansioni esecutive (come nel caso del cameriere al ristorante), con riguardo alla loro attività essendo stabilita la circostanziata disciplina degli artt. 2210 a 2213. Per tutti è regola che delle obbligazioni contratte operando per l’impresa risponderà l’imprenditore «rappresentato». Ma quanto alle possibili limitazioni dei poteri di institori e procuratori si leggano con attenzione gli artt. 2204 a 2207 (e si legga che cosa l’art. 2208 dispone in punto di loro personale responsabilità).

         Già ne risulta un insieme di norme  dovute ad una precisa necessità di stabilire garanzie per il mercato e comunque per chi intrattenga rapporti con l’impresa.  E in modo particolare  è forte  l’esigenza di apprestare garanzie di tutela dei creditori dell’imprenditore integrate da più generali garanzie di certezza e di trasparenza delle sue attività. Risultati che in ampia misura si conseguono  mediante documentazioni e atti di certificazione. Anche in questo senso quanto più efficiente è il loro sistema di garanzie tanto più economia e mercati accrescono la loro soglia di razionale operatività. Sarà perciò di immediata evidenza il grande rilievo della prevista istituzione di un registro delle imprese configurandosi un obbligo di iscrizione nel registro con tutta la estensione di campo indicata dall’art. 2195.  Per una economia di mercato l’informazione su soggetti e attività è valore primario. Deficit di trasparenza e asimmetrie informative si considerano (intollerabili e sono) una anomalia da rimuovere, informazione e trasparenza essendo dovunque indicate come un bene pubblico assolutamente irrinunciabile.

            Si provvede perciò con disposizioni di obbligo che hanno inderogabile carattere di imperatività. Obbligo in materia societaria dall’art. 2200 del codice civile esteso alle società cooperative, e comunque alla generalità delle imprese che pur non esercitando attività commerciale scelgano la forma giuridica delle società commerciali. In taluni casi l’iscrizione nel registro svolge funzioni di pubblicità costitutiva nel senso che soltanto l’adempimento pubblicitario «costituisce» e fa esistere l’effetto giuridico. Operano norme che riguardano società di capitali, società cooperative così come le operazioni di fusione e scissione di società e altro ancora. Appunto in tema di pubblicità costitutiva tra le tante sarà bene segnalare fino da adesso la disposizione dell’art. 2331. La società per azioni acquista la personalità giuridica soltanto con la iscrizione nel registro, per le operazioni compiute «in nome della società» prima di allora essendo «illimitatamente e solidalmente responsabili» verso i terzi «coloro che hanno agito».

          Medesimo regime vale per le altre società di capitali e per le imprese cooperative. Ma  ha efficacia costitutiva anche l’iscrizione nel registro di importanti operazioni di assetto imprenditoriale e finanziario . E se è vero che esistono ed operano anche in assenza dei dovuti adempimenti, in caso di mancata iscrizione nel registro società in nome collettivo e società in accomandita semplice sono società irregolari, per disposizione degli artt. 2297 e 2317 dà ciò derivando le rilevanti variazioni di regime che saranno precisate più avanti. In un grande numero di casi l’iscrizione svolge invece funzioni di pubblicità dichiarativa.  Regola perciò le condizioni di opponibilità ai terzi degli atti registrati secondo il regime stabilito dall’art. 2193. E se si guarda all’intera serie delle norme che prescrivono iscrizioni (ma già se si guarda alla disposizione dell’art. 2196) si rileva con chiarezza in che misura   l’operare del   registro è   struttura portante del sistema e  necessaria garanzia di   documentazione di   ciò che  al mercato occorre conoscere .

            Più precisamente finalità del registro è  documentare   sia gli elementi distintivi dell’impresa variamente costituiti dall’identità dell’imprenditore, dalla sua sede, dall’oggetto dell’attività (e altro ancora) sia le vicende, gli atti e i fatti che nello svolgimento della attività di impresa configurano la complessa trama dei suoi rapporti con il mercato e con i creditori. L’art. 2193 stabilisce il regime dei «fatti» da iscrivere nel registro mediante disposizioni che sono naturalmente di primaria importanza per l’intera serie dei possibili rapporti tra impresa e terzi entrati con essa in relazioni d’affari. Una volta iscritti i «fatti» si considerano a conoscenza dei terzi che perciò non possono invocare una loro «ignoranza». Ma «se non sono stati iscritti» non possono essere «opposti ai terzi» da «chi» era obbligato all’iscrizione «a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza».

        Così prefigurata nei suoi effetti già dalle norme del codice civile la istituzione di un registro delle imprese doveva costituire per decenni un progetto incompiuto. In mancanza del necessario decreto di sua esecuzione, per cinquant’anni si è infatti operato nel regime transitorio stabilito da talune disposizioni di attuazione del codice civile. E alla attivazione del registro delle imprese si è pervenuti soltanto con l’art. 8 della legge 580 del  dicembre 1993. Le sue regole hanno variato in consistente misura l’originario progetto del codice, delineando la disciplina poi completata dal d.p.r. 581 del 7 dicembre 1995 e successivamente modificata con le prescrizioni  del d.p.r. 559 del 16 settembre 1997. Appunto l’art. 7 del decreto del dicembre 1995 provvede ad elencare le imprese destinatarie della iscrizione nel registro adesso  organizzato con tecnologia  informatica finalmente evoluta  presso la Camera di commercio .

        Nella sua attuale configurazione il registro delle imprese si presenta nelle forme di un apparato documentale a carattere complesso. Accoglie nella sua sezione ordinaria e con effetti di pubblicità legale le informazioni relative agli imprenditori commerciali ( che non siano piccoli imprenditori ) e alle società comunque costituite in forma di società commerciale(anche se non svolgono attività commerciale ). Alla medesima sezione si iscrivono consorzi e società consortili, «gruppi europei di interesse economico» con sede nel nostro paese , le imprese «ente pubblico» che hanno per oggetto l’attività commerciale  e società estere (se nel nostro paese hanno sede amministrativa o l’oggetto primario della loro attività). E per le «sedi secondarie» si deve domandare iscrizione all’ufficio del registro delle imprese «dove è la sede principale dell’impresa».       

           Sezioni speciali del registro accolgono le informazioni che riguardano piccoli imprenditori, imprese artigiane, imprenditori agricoli e società semplici.  Ancora una volta si opera con finalità di trasparenza ma su scala minore. Dalla iscrizione in queste speciali sezioni del registro di regola  deriva infatti soltanto l’effetto di pubblicità notizia che consegue alla conoscibilità di quanto ne risulta.Ma di regola  l’iscrizione dell’atto o del fatto di per sé non ha l’effetto di renderlo opponibile ai terzi essendo materia di prova   la loro conoscenza  di atti o fatti rilevanti. Un regime particolare vale per  la società semplice che esercita l’impresa agricola e comunque per la generalità degli imprenditori agricoli , considerato che secondo la disposizione dell’art. 2 del decreto legislativo 228 del con riguardo ad essi l’iscrizione nel registro produce invece effetti di pubblicità legale.

        Grande rilievo ha poi la documentazione contabile delle attività di impresa. Per il piccolo imprenditore anche se imprenditore commerciale vale la disposizione di esonero del terzo comma dell’art. 2214. Ma per ogni altro imprenditore commerciale esiste un obbligo di tenere scritture contabili. E ( con esclusione della società semplice )obbligo di tenuta di scritture contabili  esiste per le società costituite in forma di società commerciale anche quando la attività svolta non sia attività commerciale .Si  tratta di adempimenti che contestualmente svolgono diverse ma egualmente importanti funzioni. Una corretta tenuta della contabilità è indispensabile già all’imprenditore per le necessarie valutazioni degli andamenti di impresa secondo criteri di loro razionale apprezzamento. Occorre ai terzi per derivarne le informazioni che servono a quanti entrano con l’impresa in rapporti di affari. E nell’eventualità di una situazione di insolvenza dell’imprenditore saranno appunto le scritture contabili a consentire di accertare e misurare la sua esposizione debitoria.

          Il libro giornale deve indicare «giorno per giorno» le operazioni relative all’esercizio dell’impresa. Il libro degli inventari deve contenere «indicazione» e «valutazione» delle attività e delle passività relative all’impresa secondo le modalità e con le finalità stabilite dall’art. 2217. L’inventario deve redigersi «all’inizio dell’esercizio dell’impresa» e successivamente ogni anno. Deve contenere indicazione e valutazione delle attività e delle passività relative all’impresa «nonché delle attività e delle passività dell’imprenditore estranee alla medesima». E si deve chiudere con il bilancio e il conto dei profitti e delle perdite «il quale deve» dimostrare «con evidenza e verità» gli utili conseguiti o le perdite subite (ma per i documenti di bilancio a suo tempo sarà necessario più ampio e separato discorso con particolare riguardo al diritto contabile delle società di capitali).

         Sono infine obbligatorie le ulteriori scritture contabili richieste «dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa», che saranno volta a volta il libro mastro, il libro magazzino o altri ancora. Occorre al tempo stesso «conservare ordinatamente» le documentazioni enumerate dal secondo comma dell’art. 2214. Le prescrizioni da osservare per la regolarità delle scritture contabili sono indicate dagli artt. 2215, 2216, 2217 e 2219. Ne risultano stabilite le modalità di «tenuta» e di «conservazione» di una «ordinata contabilità» con puntuale determinazione di tempi e configurazione degli adempimenti dovuti. E va ricordato che una omessa o irregolare tenuta delle scritture espone anche al rischio di sanzioni disposte dalla legislazione fiscale (e al rischio di sanzioni penali quando ne risulti configurata la fattispecie del reato di bancarotta documentale).

        Sarà bene avvertire che la materia è complessa e multiforme. Per taluni settori di impresa (e ad esempio nel caso delle imprese bancarie o assicurative e delle imprese di <cartolarizzazione > dei crediti) valgono infatti speciali regole di scritturazione e contabilità che ne qualificano in misura determinante il regime normativo. E si preciserà in seguito quanto riguarda la disciplina delle imprese comunque costituite in forma di società di capitali. A determinare il valore delle scritture contabili come mezzo di prova a favore dell’imprenditore o contro l’imprenditore (e l’argomento è importante) provvedono comunque gli artt. 2709 e 2710. Operano disposizioni nel segno della necessaria chiarezza. I libri e le altre scritture contabili delle imprese «soggette a registrazione» per la norma dell’art. 2709 «fanno prova contro l’imprenditore». Ma va considerato che «chi vuol trarne vantaggio non può scinderne il contenuto». E ha particolare rilievo la norma dell’art. 2710.

       Questa disposizione stabilisce infatti che «quando sono regolarmente tenuti» i libri contabili possono comunque fare prova «tra imprenditori» per «i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa». Si tratti poi di loro «comunicazione integrale» o di una singola «esibizione» di documenti, a regolare l’impiego processuale di libri, scritture contabili e corrispondenza di impresa servono le disposizioni dell’art. 2711. Dal giudice la comunicazione integrale può essere ordinata soltanto in materia di controversie che riguardano scioglimento di società, comunione di beni e successioni per causa di morte. In casi diversi da questi «anche d’ufficio» il giudice tuttavia può pur sempre ordinare che i libri si esibiscano «per estrarne le registrazioni concernenti la controversia in corso» (e può anche ordinare l’esibizione di «singole scritture contabili», fatture e ancora altre documentazioni se «concernenti la controversia» in atto).

          Va infine considerato che  all’universo normativo delle imprese e imprese commerciali  appartiene poi con una presenza di grande rilievo anche l’impresa artigiana. Si deve ricordare che molti non sono di questo avviso. Ma se è vero che chi è artigiano non svolge attività «industriale» nell’accezione dell’art. 2195 sarà chiaro che l’impresa artigiana svolge pur sempre una attività «diretta alla produzione di beni e servizi». E  il sistema del codice civile come si sa  non conosce imprese diverse dall’impresa commerciale se non nel caso dell’impresa agricola che naturalmente è tutt’altra cosa. Semmai si deve avvertire che il discorso da fare sull’impresa artigiana è molto complesso già guardando alle grandi linee del sistema.   Massimamente rileva  il disegno delle norme costituzionali, e perciò il secondo comma dell’art. 45 Cost. dove si prefigurano interventi con finalità di «tutela» e di «sviluppo» dell’artigianato (così come lo spazio a suo tempo già aperto dalla norma dell’art. 117 a possibili interventi del legislatore regionale).

         Occorre poi considerare la disposizione del codice civile che (all’art. 2083) guarda all’artigiano come figura di «piccolo imprenditore». Occorre infine valutare il particolare rilievo delle norme della «legge quadro» per l’artigianato, le norme della legge 443 dell’8 agosto 1985 che stabiliscono misure di incentivazione e sostegno di questo importante comparto dell’economia.Al tempo stesso l’intervento legislativo che si è operato con la legge «quadro» del 1985 ha provveduto a significative disposizioni di principio. Per indicazione delle norme della legge dell’agosto 1985 è possibile oggetto dell’impresa artigiana qualsiasi «produzione di beni» o qualsiasi «produzione di servizi». Sono esclusi soltanto taluni settori di attività enumerati dal primo comma dell’art. 3 (e tra questi comunque quanti appartengono all’ambito di operatività dell’impresa agricola).

         Imprenditore artigiano è chi «esercita personalmente» e «professionalmente» in qualità di «titolare» la attività di impresa. Ne deriva «piena responsabilità» per «oneri» e «rischi» conseguenti alla «direzione e gestione» della attività. Ma al tempo stesso chi è «artigiano» alla attività assicura il suo contributo svolgendo «in misura prevalente» il «proprio lavoro, anche manuale» nel «processo produttivo» che caratterizza l’impresa. Non è invece stabilito un principio di prevalenza del lavoro suo (e di membri della famiglia) sul lavoro altrui e sul capitale investito nell’impresa, essendo stabiliti soltanto limiti di soglia al numero dei dipendenti «estranei alla famiglia dell’imprenditore».  Norma del codice civile e norme di legge speciale offrono ampia materia a contrastanti orientamenti. Secondo una opinione le diverse norme coesistono dovendosi provvedere ad una loro (non facile) organizzazione in sistema unitario.

            Secondo altra opinione le norme di legge speciale sono invece ormai la nuova disciplina di statuto dell’imprenditore artigiano operando in sostituzione di quanto si possa derivare dall’art. 2083 del codice civile, che per altri invece si deve ancora ritenere norma costitutiva della nozione di impresa artigiana per ciò che non sia legislazione di «incentivazione» e «sostegno» del settore. Comunque è certo che l’artigiano appartiene al numero degli imprenditori commerciali ma non necessariamente al numero dei «piccoli imprenditori». In caso di insolvenza sarà quindi soggetto al regime delle procedure concorsuali ogni volta che non si tratti di piccola impresa artigiana. E non è «piccola impresa» l’impresa artigiana che si costituisca in forma di società, volta a volta società in nome collettivo, in accomandita semplice o ancora società a responsabilità limitata «unipersonale», non essendo poi da escludere il ricorso alla forma giuridica della società cooperativa.

          Va adesso segnalata la innovazione disposta dalle norme della legge del che amplia il numero delle possibili fattispecie di configurazione dell’impresa artigiana come società di capitali secondo il tipo della società a responsabilità limitata. A integrazione del regime già stabilito per l’impresa «unipersonale», le norme della nuova legge consentono anche alla società artigiana di costituirsi come «società a responsabilità limitata» se «nel processo produttivo» più  di un socio «in prevalenza» svolge «lavoro personale», e se la maggioranza dei soci «attivi» nel «processo produttivo» detiene la maggioranza del capitale sociale. Anche a non considerare i possibili benefici di carattere fiscale, una normativa che costituisce porta aperta all’ingresso di un grande numero di imprese artigiane nel comparto delle società a responsabilità limitata è innovazione di consistente rilievo. Permette infatti alle imprese di acquisire le maggiori risorse finanziarie  tanto più oggi così necessarie per l’innovazione tecnologica e per una presenza di mercato davvero competitiva (continua.)

      

 

(*) Le pagine che seguono sono esposizione elementare  della disciplina di materia che sarà compresa in un capitolo della quarta edizione del volume collettaneo A.A.VV., Lineamenti di diritto privato in corso di pubblicazione presso la casa editrice Giappichelli