inserito in Diritto&Diritti nel novembre 2001

Sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio?

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Tra le novità introdotte all’originario disegno di legge-delega per la riforma del diritto societario dal nuovo governo e dalla maggioranza parlamentare eletta lo scorso 13 maggio, ve ne sono due di particolare interesse.

Originarimente il disegno di legge licenziato dall’allora ministro guardasigilli Fassino, all’art.11 in materia di identificazione della fattispecie di falsità in bilancio ed in altre comunicazioni sociali di cui all’art.2621 c.c. recitava testualmente:

“1) falsità in bilancio, nelle relazioni o in altre comunicazioni sociali, consistente nel fatto degli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori, i quali, nei bilanci, nelle relazioni o in altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, intenzionalmente espongono false informazioni sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, o del gruppo al quale essa appartiene, ovvero occultano informazioni sulla situazione medesima, al fine di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto; precisare che la condotta deve essere idonea a trarre in inganno i destinatari sulla predetta situazione; estendere la punibilità al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti od amministrati dalla società per conto di terzi; prevedere la pena della reclusione da uno a cinque anni; regolare i rapporti della fattispecie con i delitti tributari in materia di dichiarazione”.

In buona sostanza intenzione del legislatore era quella di lasciare inalterata la gravità del reato in considerazione della sua rilevanza sociale, mantenendo la pena nell’ambito attualmente previsto della reclusione da 1 a 5 anni, salva una maggiore puntualizzazione della fattispecie punite. In particolare si era inteso specificare che il reato era punibile nel caso in cui i suoi autori avessero intenzionalmente perseguito lo scopo di conseguire per se o per altri un ingiusto profitto (c.d. dolo specifico), mentre nell’attuale testo vigente era sufficiente la generica volontà di esporre fatti non corrispondenti al vero della vita della società. Parimenti veniva chiarito che non ogni esposizione fraudolenta era punibile, ma soltanto quella che fosse effettivamente idonea a trarre in inganno i destinatari della comunicazione sociale “falsa” (soci, creditori e terzi in genere).

In quest’ottica si intendeva riavvicinare la nostra normativa alle direttive comunitarie dirette ad una uniformità di indirizzo per le fattispecie penali in materia societaria, in modo da avere una disciplina sostanzialmente unitaria per tutto il territorio comunitario.

E’ però accaduto che il testo di legge-delega già trasmesso al parlamento il 26.5.2000 dal governo Amato è stato emendato dall’attuale ministro della Giustizia Castelli (v.disegno di legge n.608 Senato della Repubblica e trasmesso dal Presidente della Camera dei Deputati il 3.8.2001) ed  è pervenuto all’aula del senato con questa rilevantissima novità aggiunta all’art. 11 di cui sopra:

“precisare altresì che le informazioni false od omesse devono essere rilevanti e tali da alterare sensibilmente la rappresentazione della situazione economica e finanziara della società o del gruppo al quale essa appartiene, anche attraverso la previsione di soglie quantitative”, nonché “prevedere autonome figure di reato a seconda che la condotta posta in essere abbia o non cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori, e di conseguenza: 1.1) quando la condotta non abbia cagionato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori la pena dell’arresto fino ad un anno e sei mesi; 1.2) quando la condotta abbia cagionato un danno patrimoniale ai soci ed ai creditori 1.2.1) la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e la procedibilità a querela nel caso di società non soggette” alla disciplina in materia di intermediazione finanziaria “di cui al decreto legislativo 24.2.1998 n.58; 1.2.2.) la pena della reclusione da uno a quattro anni e la procedibilità d’ufficio nel caso di società soggette” al predetto decreto legislativo n.58/1998 (norme in materia di intermediazione finaziaria).

E’ di tutta evidenza la sostanziale novità introdotta dal nuovo legislatore ove si pensi alle seguenti conseguenze immediate e dirette:

a)      si rivela indispensabile, ai fini della applicazione di una pena piuttosto che di un’altra più mite, la prova dell’effettivo danno cagionato alla società, e non anche la sola idoneità a trarre in inganno i destinatari della comunicazione sociale;

b)      conseguentemente, in caso di mancata prova di danno il reato si trasforma da delitto in contravvenzione con una pena notevolmente inferiore a quella originariamente prevista (da un minimo di un anno di reclusione con un massimo di cinque si passa ad un minimo di 15 giorni di arresto fino ad un massimo di appena un anno e mezzo; in tal caso il reato si prescrive in un termine massimo di tre anni, che ove interrotto, non può superare i quattro anni e mezzo, mentre attualmente il termine prescrizionale è pari a 5 anni, salvo in caso di interruzione da 7 anni e mezzo a quindici anni);

c)      ove vi sia la (improbabile per quanto appresso si dirà) prova del danno occorre effettuare la ulteriore distinzione tra società quotate in borsa o no, in quanto per le prime si va da un minimo di pena di sei mesi di reclusione ad un massimo di anni tre, mentre nel secondo caso si passa da un minimo di un anno di reclusione ad un massimo di quattro; in entrambi i casi l’estinzione per prescrizione del reato varia da 5 anni a sette anni e mezzo in caso di interruzzione;

d)      Nel primo dei due casi predetti viene addirittura prevista la condizione di procedibilità della querela da parte della società.

Or bene chiunque abbia esperienza della realtà economica delle società di capitali ha perfettamente presente che il danno conseguente alle false comunicazioni sociali si manifesta soltanto nel corso degli esercizi successivi, e molto spesso, pur sussistendo, si rivela di difficilissima dimostrazione, se non a seguito di lunghe e costosissime indagini peritali.

Ne discende che in considerazione dei ristrettissimi termini di prescrizione, indirettamente, determinati dalla riforma, e della previsione di una querela come condizione di procedibilità, non è azzardato concludere che di fatto si è proceduto ad una sostanziale depenalizzazione dei reati societari, in contrasto con l’orientamento comunitario che impone un maggiore rigore per garantire la verità dei bilanci e quindi la sicurezza del sistema economico.

Se si aggiunge che per i casi in cui è prevista la condizione di procedibilità della querela non si comprende quali amministratori provvederanno a presentarla nel termine di 90 giorni prescritto dal codice di rito, ben si comprende che il legislatore del 2001 ha sostanzialmente estratto dall’area della sfera penale le condotte fraudolente degli amministratori di società. Infatti è abbastanza arduo ritenere che gli stessi autori del reato si autodenunzino, ed anche nel caso di cambio al vertice della società, i nuovi amministratori potranno proporre querela soltanto quando avranno scoperto la frode dei loro predecessori, dunque diversi anni dopo dal giorno in cui il reato è stato commesso, con conseguente approssimarsi del termine per la sua prescrizione.

Come se ciò non bastasse si è inteso modificare anche la parte dei reati fallimentari nel seguente modo:

mentre con il disegno di legge c.d. Fassino, sempre all’art. 11 testualmente si prescriveva: “g) riformulare le norme sui reati fallimentari che richiamano reati societari, prevedendo che la pena si applichi alle sole condotte integrative di reati societari che concorrono a cagionare il dissesto della società;”  nella nuova formulazione si modifica il testo eliminandosi queste ultime parole e sostituendole con le seguenti : “che abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società”.

In tal modo si passa da una punibilità per le condotte che siano idonee, insieme ad altre cause, al provocare lo stato di insolvenza, alla ipotesi in cui la pena si applica solo nel caso di prova dell’effettiva sussistenza del rapporto di causa ed effetto tra il comportamento fraudolento degli amministratori ed il dissesto della società amministrata.

Viene così ulteriormente ridotto l’ambito di applicazione delle norme penali in materia economica, con buona pace per il controllo, nell’interesse pubblico, delle attività imprenditoriali.

La dottrina più autorevole e la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione hanno da sempre ritenuto che la previsione dei reati societari mira alla tutela di una pluralità di interessi, da quelli patrimoniali della società, dei soci e dei creditori ad avere una rappresentazione veritiera delle condizioni economiche della società, a quelli generali della fede pubblica e del corretto funzionamento delle società commerciali, in considerazione della loro rilevanza nel sistema economico valutato complessivamente (Cass. 13.12.1983, Schmidt).

Il professore Francesco Antolisei, considerato un nume tutelare del diritto penale sostanziale, aveva avuto modo di precisare che il reato di falso in bilancio, previsto non come reato di danno ma di pericolo, garantiva la tutela di un fascio complesso di interessi, e segnatamente, oltre quelli della società, dei soci uti singuli e dei creditori, anche e soprattutto “l’interesse generale dell’economia del paese, per le ripercussioni che sull’economia stessa può avere il funzionamento delle società di commercio” (v. Antolisei, Manuale di diritto penale pag. 48), e nei medesimi termini si era espresso il Tribunale di Milano in occasione del famoso processo a carico di Sergio Cusani.

La modifica legislativa in esame che trasforma il reato in questione da reato di pericolo (perseguibile a prescindere dall’esistenza di un danno) a reato di danno (punibile solo nel caso di prova del danno medesimo), aggiunto alla riduzione delle pene e dei termini di prescrizione, di fatto sconvolge tutti i principi del diritto penale dell’economia (di origine liberale e capitalistica) affermati dai nostri codici da oltre un secolo (V. codice del commercio del 1889 al codice civile del 1942).

Sarebbe opportuno avviare un dibattito teso a sollecitare il Legislatore ad una immediata rimeditazione di una riforma sicuramente pericolosa per il nostro sistema economico, che affida ai bilanci delle imprese un particolarissimo ruolo di trasparenza per le contrattazioni commerciali.

Guglielmo Barone