*** È agevole rilevare come talune norme del codice civile (in particolare l’art. 844), con le quali si consentiva di limitare i poteri di godimento del proprietario in considerazione dell’interesse pubblico, siano state ampliate nell’applicazione giurisprudenziale: in materia di normale tollerabilità delle immissioni; b) in materia di contemperamento dell’interesse privato con l’interesse economico nazionale. a) La prima questione è esemplificata da una controversia relativa a immissioni sonore.
Precisa la sentenza: Motivi: Vanno esaminati congiuntamente secondo l’ordine logico il primo, il terzo e la prima parte del quarto motivo del ricorso, il cui contenuto può così riassumersi: manca agli atti la prova che le emanazioni sonore, determinate dall’attività molitoria, superassero la normale tollerabilità; anzi dalla ispezione dei luoghi eseguita dal Pretore e dalla consulenza tecnica espletata nel giudizio di primo grado risultò che questo limite non era superato. Il Tribunale errò nel ritenere l’intollerabilità delle immissioni in alienum, fondandosi sulle misurazioni tecniche effettuate in tale giudizio, senza tenere conto che queste erano rimaste invalide dalla circostanza relativa al fatto che successivamente lo stato dei luoghi era mutato per effetto dello spostamento di una delle due macchine più rumorose (frangitutto), collocate nel mulino, e dell’eliminazione dell’altra (crivello), cosicché, essendo diversa la situazione di fatto al tempo della decisione impugnata rispetto a quella esistente al momento dell’instaurazione del giudizio, la domanda avrebbe dovuto essere rigettata. Dalla relazione del consulente tecnico di ufficio risultò che i rumori intollerabili lamentati da Bufano si avvertivano in due stanze, mentre nelle rimanenti esse non raggiungevano il limite della molestia. Inoltre il Tribunale non tenne conto né del parere espresso dal consulente tecnico di parte, né delle precisazioni contenute nello studio del Barducci, secondo i quali i limiti di tollerabilità dei rumori è di gran lunga inferiore a quello fissato nella sentenza impugnata. Le censure in tal guisa prospettate sono infondate. Rilevasi anzitutto che il limite di tollerabilità delle immissioni, ai sensi dell’art. 844 c.c., non ha carattere assoluto, ma relativo, nel senso che deve essere fissato con riguardo al caso concreto tenendo conto delle condizioni naturali e sociali dei luoghi, delle attività normalmente svolte, del sistema di vita e delle abitudini della popolazione; con particolare riguardo poi alle immissioni sonore occorre far riferimento anche alla cosiddetta rumorosità di fondo della zona, e cioè a quel complesso di suoni di origine varie e spesso non identificabili, continui e caratteristici, sui quali si innestano di volta in volta rumori più intensi (prodotti da voci, veicoli, ecc.); tutti questi elementi debbono essere valutati in modo obiettivo in relazione alla reattività dell’uomo medio, e quindi prescindendo da considerazioni attinenti alle singole persone interessate alle immissioni (condizioni fisiche o psichiche, assuefazione o meno alla rumorosità, ecc.). Il relativo apprezzamento, risolvendosi in una indagine di fatto, è demandato al giudice del merito e si sottrae al sindacato di legittimità se correttamente motivato e immune da vizi logici o giuridici (Cass., 19.5.1976, n. 1796). Il Tribunale si ispirò a questi criteri con una esauriente disamina delle risultanze processuali. La sentenza impugnata ricavò la prova dell’intensità delle emanazioni sonore causate dall’attività molitoria, oltre che dagli elementi indicati dal Pretore, dai mezzi istruttori rilevati in narrativa. In particolare dai chiarimenti del consulente tecnico di ufficio risultò che la rumorosità di fondo della zona era aumentata da 22-24 decibel a 47 decibel col funzionamento del solo laminatoio, senza tenere conto della macchina frangitutto e dell’ulteriore apporto del crivello, il quale era stato spostato nella parete opposta alla casa del Bufano. Pertanto, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, nelle misurazioni effettuate dal consulente tecnico di ufficio per determinare l’intensità acustica di rumori, si tenne presente la nuova situazione di fatto. Inoltre il Tribunale, in relazione alla rumorosità di fondo della zona, ebbe a ritenere, fondandosi su precisi criteri tecnici seguiti anche da diverse decisioni dei giudici di merito, che allorché un suono supera di tre decibel un altro, l’intensità sonora del primo è doppia rispetto a quella del secondo – in quanto essa varia con progressione logica in funzione dell’aumento dei decibel, determinando un accrescimento progressivo della penosità della percezione attiva – che tale incremento di intensità, con riguardo alla menzionata rumorosità di fondo, produce delle immissioni le quali superano la normale tollerabilità. Come si era verificato nella specie. La circostanza poi relativa al fatto che le immissioni in alienum non superano la normale tollerabilità in tutte le stanze del Bufano non è decisoria. Infatti il divieto fissato dall’art. 844 c.c. tende a fissare un criterio obiettivo di limitazione all’invasione della sfera altrui, in modo da armonizzare le esigenze dei vari fondi e da garantire il libero esercizio del diritto di proprietà, cosicché permane il divieto anche quando si viola tale sfera con immissioni tollerabili su parte del bene del vicino. Vanno, quindi, esaminati congiuntamente secondo l’ordine logico il secondo e la seconda parte del quarto motivo del ricorso, il cui contenuto può così riassumersi: il Tribunale sostenne senza motivare il suo convincimento che non era possibile adottare alcun accorgimento per attutire i rumori nonostante che il consulente di parte avesse indicato dei mezzi tecnici onde avviare alla rumorosità dei macchinari. La sentenza impugnata, contrariamente al disposto del co. 2° dell’articolo citato, violò l’obbligo di contemperare il diritto del ricorrente di esercitare l’attività molitoria con quello del Bufano di godere pacificamente della sua abitazione. Anche tali censure sono infondate. In particolare, così è rilevato in narrativa, il Tribunale, fondandosi sulla relazione del consulente tecnico d’ufficio, escluse che si potessero attenuare i rumori determinati dall’esercizio di tale attività con ogni possibile accorgimento. D’altra parte, poiché le contrarie osservazioni del consulente tecnico di parte sono generiche, e non contengono una precisa indicazione dei ri- medi più adatti a eliminare o ad attenuare i rumori con rigoroso riferimento al caso concreto, il Tribunale non era addivenuto a una specifica e particolareggiata motivazione allo scopo di giustificare di poter condividere le conclusioni del consulente tecnico di ufficio, ma bastava che dimostrasse di aver proceduto alla valutazione dell’elaborato peritale e di averlo riscontrato convincente, oltre che immune da difetti o da lacune, come in realtà ebbe a fare (vd. sent. 10.5.1976, n. 1642 in Mass. Giur. it., 1976, 436). Per quanto riguarda, poi, il co. 2° del menzionato articolo, rilevasi che in ogni caso in cui vi è un conflitto tra le esigenze della produzione e la tutela del diritto di proprietà il giudice deve tenere conto, in base al suo prudente apprezzamento, dei contrapposti interessi e ne deve attuare il contemperamento, assumendo come criterio direttivo quello della tutela dell’interesse della collettività e sacrificando, ove occorra, le esigenze non preminenti (vd. Cass., 30.5.1973, n. 1616). Il Tribunale si attenne a questi principi e motivò congruamente il suo giudizio. Come si è detto, la sentenza impugnata, in relazione al carattere non assoluto, ma relativo del limite obiettivo imposto alle immissioni in alienum, tenne conto delle condizioni naturali e sociali del luogo in cui sorge il mulino, nonché delle abitudini della popolazione. In particolare il concetto di normale tollerabilità delle immissioni derivanti dagli stabilimenti industriali si restringe allorché si tratta di località rurale lontana dal traffico stradale, giacché secondo la coscienza comune, in relazione alla scelta operata dalla collettività, tale tollerabilità è ovviamente di gran lunga inferiore a quella che si richiede in un centro industriale o in un quartiere di città o di paese rumoroso. Inoltre il Tribunale mise in evidenza – in conformità del resto ai capitolati della prova testimoniale dedotta dal ricorrente – che le immissioni in questione non derivavano da un’attività produttiva le cui esigenze erano degne di tutela, il che significa che la misura del mulino, per le sue modeste dimensioni e per la sua scarsa mole di lavoro, non arrecava un danno alla produzione nazionale. I giudici di appello, in considerazione degli elementi anzidetti – non escluso quello evidenziato secondo cui neanche l’eliminazione di una parte del macchinario del mulino avrebbe fatto sì che i rumori non eccedessero la normale tollerabilità – dopo aver proceduto alla valutazione comparativa dei contrapposti interessi, ritennero preminente la tutela del diritto di proprietà sulle esigenze della produzione, sacrificando queste ultime. Pertanto tale sacrificio non fu fondato soltanto sulla constatata rottura del limite della normale tollerabilità delle lamentate immissioni, ma su altre considerazioni le quali costituiscono il prius logico della conclusione che sta a base della decisione. Il ricorso va pertanto rigettato con le conseguenze che dal principio della soccombenza derivano in ordine alle spese a questo giudizio di cassazione. Il deposito deve essere restituito ai sensi della l. 793/1977.
(Cass. 6.1.1978, n. 38). b) La seconda questione è esemplificata da una controversia sorta tra condomini, relativamente a immissioni di fumo e di calore. Questa la motivazione della sentenza: Gli attori – e come loro tutti i condomini, già soci della cooperativa che ha costruito l’edificio – hanno accettato pienamente la destinazione del negozio dei Valdisseri a rosticceria. È quindi chiaro che nella specie si trovano a confliggere due diritti egual- mente degni di tutela: quello del Valdisseri, di poter continuare a dare al negozio la destinazione stabilita (anche a difesa di un avviamento ormai verificatosi); e quello degli altri abitanti dell’edificio, di non essere costretti a subire immissioni intollerabili. In questa situazione, il giudizio di contemperamento da parte del giudice è giustificabile; a maggior ragione e bene ha quindi fatto il giudice del merito di avvalersi dei particolari poteri che gli sono attribuiti dal co. 2° dell’art. 844 c.c. Non è poi esatto che la norma suddetta consenta unicamente al giudice di costringere un soggetto a subire immissioni intollerabili, dietro corresponsione di una indennità. Come la giurisprudenza ha chiarito, il problema può essere risolto o con la radicale eliminazione dell’attività che produce le immissioni; o con l’attuazione degli accorgimenti tecnici idonei a evitare la situazione pregiudizievole, o con la pronuncia dell’obbligo di tollerare le immissioni dietro pagamento, in corrispettivo, di un’indennità (cfr. per es., Cass., 21.11.1973, n. 3138 [in Rep. Giur. it., 1973, voce Proprietà, n. 7-9]). Si insiste al riguardo sulla latitudine dei poteri affidati al giudice, e ci si richiama alla ratio della disposizione, volta al fine di comporre interessi in conflitto nel quadro di una coesistenza sociale (cfr. Cass., sez. un. 26.10.1957, n. 4156 [in Foro it., 1958, I, 1497]; Cass. 1218/1970 [in Mass. Giur. it., 1970, 519]; Cass., 21.11.1973, n. 3138, cit.). Ciò posto, non vi è motivo di ritenere che i poteri del giudice devono esplicarsi unicamente in relazione a quell’aspetto della proprietà che è direttamente investito dalle immissioni; l’adozione di accorgimenti tecnici ben potrà estendersi anche in campi diversi, purché sia salvaguardato il principio dell’imposizione del minimo sacrificio possibile. Quanto poi al fatto che un sacrificio sia imposto anche a terzi estranei alla controversia, il rilievo è esatto, ma trattasi di un problema strettamente connesso con i motivi successivi, e che verrà esaminato in tal sede. Col secondo motivo, infatti, i ricorrenti principali denunciano omissione e contraddittorietà di motivazione della sentenza impugnata, nonché violazione degli artt. 101 e 112 c.p.c., 2908 e 2909 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 e 5 c.p.c., per avere la Corte di Milano emesso un provvedimento che interferisce nel diritto di proprietà di condomini non partecipanti al giudizio; e per non avere la Corte, d’altra parte, indicato la parte di pertinenza di ciascun convenuto in ordine alla disposta realizzazione della nuova canna fumaria, e fissato un termine per l’esecuzione dell’opera. A sua volta, il Valdisseri denuncia col primo mezzo del suo ricorso incidentale il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere questa erroneamente affermato che nessuna domanda era stata proposta da esso Valdisseri per far dichiarare il suo diritto a far costruire la nuova canna fumaria (mentre reiteratamente, nelle fasi di merito, egli aveva dichiarato in giudizio di essere pronto all’esecuzione dell’opera, chiedendo che fossero dal giudice fissate le modalità e i termini della costruzione); e col secondo mezzo denuncia ancora il difetto di motivazione della sentenza in questione, per avere erroneamente la Corte d’Appello esclusa la necessità dell’integrazione del contraddittorio mediante la citazione in giudizio di tutti gli altri condomini; e per avere poi affermato che nessuna pronuncia poteva essere emessa in ordine alla canna fumaria stessa, proprio per la mancata partecipazione al giudizio di tutti i condomini. Queste censure – che sono tra di loro connesse, almeno in parte, e vanno quindi esaminate congiuntamente – devono essere accolte, per quanto di ragione. Invero, la Corte d’Appello ha ritenuto sussistenti, come si è detto, le «esigenze del- la produzione», e ha affermato la necessità di contemperare le stesse con le ragioni della proprietà, ritenendo non potersi imporre puramente e semplicemente la cessazione dell’attività che provoca le immissioni – tale soluzione, come si è detto, è imposta nel caso di specie, anche dall’esistenza di una preventiva accettazione, da parte dei soci della cooperativa costruttrice dello stabile, della destinazione a rosticceria del negozio. La Corte ha altresì accertato in fatto – e tale accertamento non è impugnato da alcuno – che la costruzione di una nuova canna fumaria secondo le indicazioni del consulente tecnico d’ufficio è l’unico espediente che possa consentire di giungere al risultato di eliminare le immissioni intollerabili pur permettendo la continuazione della destinazione del negozio a rosticceria. A questo punto, peraltro, la Corte d’Appello doveva necessariamente rendersi conto del fatto che la realizzazione della nuova opera impingeva necessariamente nei diritti di proprietà del condominio (dovendosi la canna fumaria nuova realizzare sul muro perimetrale dell’edificio, e cioè su di una parte comune dell’edificio stesso) e di privati condomini estranei alla causa (in quanto la nuova canna fumaria veniva a limitare, anche se parzialmente, a quanto risulta dagli accertamenti di merito, i diritti di veduta esercitabili da talune finestre di alloggi facenti parte del condominio). A questo punto, doveva apparire chiaro ai giudici del merito che una sentenza che ordinasse l’esecuzione della nuova opera, e che al tempo stesso non fosse stata opponibile al condominio e ai terzi condomini estranei alla causa, sarebbe stata inutiliter data. Per altro verso, la stessa Corte d’Appello ha rilevato nella motivazione della sentenza che anche i terzi condomini non partecipanti alla causa hanno un preciso interesse all’eliminazione delle immissioni, talché si giustificherebbe, in relazione a tale interesse, anche una seppur modesta limitazione dei loro diritti di proprietà. Già sotto questo profilo, quindi, la partecipazione alla causa degli altri condomini e del condominio si palesava assolutamente opportuna. Inoltre, il Valdisseri – sia pur in modo non del tutto esplicito e formale – aveva chiesto al Tribunale la declaratoria del suo diritto alla realizzazione della nuova opera, in quanto sarebbe stato suo diritto (derivante dalla disposizione dell’art. 1102) utilizzare la cosa comune – il muro perimetrale – per un miglior godimento della porzione dell’edificio oggetto della sua proprietà esclusiva, dato che la utilizzazione proposta non ledeva il diritto degli altri condomini, né impediva agli stessi di fare della cosa comune un analogo uso. Era quindi stato introdotto nelle cause un nuovo tema di discussione, strettamente connesso con quello iniziale (giacché, come si è detto è stato accertato che la realizzazione della nuova canna fumaria costituisce il solo espediente tecnico che possa consentire la continuazione dell’attività della rosticceria, e contemporaneamente l’eliminazione delle immissioni intollerabili), ma comportanti una questione di uso della cosa comune, e in relazione al quale sussiste una situazione di litisconsorzio necessario con tutti i comproprietari del muro. Era quindi evidente, a questo punto, la necessità di provvedere all’integrazione del contraddittorio – come esplicitamente era stato richiesto – affinché gli accertamenti e le statuizioni del Tribunale (e poi della Corte d’Appello) potessero far stato nei confronti di tutti gli interessati, senza che venissero pronunciate sentenze suscettibili – come quella di cui si discute – di restare, in pratica, lettera morta, di fronte all’eventuale opposizione alla sua esecuzione sollevata da uno qualsiasi dei componenti del condominio. E parimenti evidente è il difetto della motivazione della sentenza impugnata, la quale ha rifiutato la chiesta integrazione del contraddittorio, e ha ordinato la realizzazione della nuova opera, pur riconoscendo espressamente che tale costruzione era disposta «salva l'opposizione di eventuali aventi diritto». La sentenza impugnata deve quindi essere cassata e per l’effetto la causa deve essere rimessa al giudice di primo grado, affinché lo stesso provveda all’integrazione del contraddittorio, e al riesame della questione della realizzazione della nuova canna fumaria in presenza di tutti gli interessati che potrebbero, in ipotesi opporsi alla sua costruzione. Con questa statuizione viene anche accolta, per quanto di ragione, la doglianza dei ricorrenti principali, che lamentavano che il provvedimento emesso avesse interferito indebitamente nei diritti di proprietà di terzi estranei al giudizio; mentre restano assorbite le ulteriori doglianze dei ricorrenti principali, relative alla mancata indicazione della parte di pertinenza di ciascuno dei convenuti in ordine alla realizzazione della nuova canna fumaria, e all’omessa indicazione di un termine per l’esecuzione dell’opera. A maggior ragione, poi, rimane assorbita la doglianza di cui al 2° mezzo del ricorso incidentale del Mazzocchi, con cui si lamentava che i giudici d’appello non avessero statuito in merito alla sussistenza di un diritto dello stesso Valdisseri a far costruire la canna fumaria in appoggio al muro comune, non ostando a ciò né ragioni di danno agli altri condomini, né ragioni di pregiudizio all’estetica dell’edificio. (Cass. 6.3.1978, n. 1108). Ancor più rilevante la pronuncia con la quale come si ricorderà la Corte Suprema, nel riconoscere il diritto alla salute, garantito dalla Costituzione (art. 32) quale posizione soggettiva giuridicamente tutelata, ha ritenuto che tale valore debba prevalere sugli altri interessi con esso confliggenti: Svolgimento del processo. Teresa Langiano, Gennaro Massimo e Guido Donadio, qualificandosi la prima e il terzo proprietari, rispettivamente, di una casetta e di un suolo in contrada Licola in agro di Pozzuoli e il secondo inquilino di una adiacente casetta, proposero al pretore di Pozzuoli denuncia di danno temuto della Cassa del Mezzogiorno. Esposero che a iniziativa di quest’ultima erano state intraprese opere destinate alla depurazione di acque luride già convogliate nel golfo di Napoli e pertanto al disinquinamento del golfo e che la realizzazione di tali opere – oltre a essere censurabile sia per la soluzione tecnica adottata, sia per la localizzazione prescelta, sia per l’eccessività della spesa prevista – era suscettiva di produrre degradazione dell’ambiente naturale e nocumento, mediante le esalazioni e i rumori che ne sarebbero derivati, alla salute di essi istanti e dei loro familiari e alle loro proprietà. Chiesero pertanto la sospensione delle opere. La Cassa per il Mezzogiorno ha proposto regolamento preventivo di giurisdizione. Motivi della decisione. L’amministrazione ricorrente deduce anzitutto il difetto di giurisdizione di qualsiasi giudice per assoluta improponibilità della domanda, sostenendo che non è configurabile a favore degli istanti alcuna situazione oggettiva giuridicamente protetta e giurisdizionalmente azionabile (e tantomeno un diritto soggettivo azionabile davanti al giudice ordinario); in subordine deduce il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, sostenendo che l’azione enunciatoria è improponibile nei confronti della P.A. La prima radicale negazione – opposta con la motivazione che gli istanti, sotto il pretesto di paventate immissioni, tendono in realtà a censurare scelte dell’amministrazione di particolare rilevanza adottate col rispetto delle competenze fissate e dei procedimenti prescritti e riferite a iniziative intraprese in attuazioni di leggi (l. 853/1971, l. 868/1973) – non tiene conto della identificabilità, nella situazione fat- ta valere dagli istanti davanti al pretore, del diritto alla salute, che è addirittura un diritto costituzionale garantito (e quindi una situazione sicuramente provvisoria di strumentazione giuridica e di azionabilità giurisdizionale). Ovvero non ravvisa nella situazione fatta valere dagli istanti il diritto di salute, e quindi una situazione giurisdizionalmente azionabile, a causa di (restrittiva e)inesatta nozione del diritto alla salute qual è garantito dalla nostra Costituzione (art. 32) e/o (restrittiva e)inesatta nozione della tutela giurisdizionale qual è parimenti garantita dalla nostra Costituzione (art. 24). Queste Sezioni Unite hanno avuto più volte occasione di riconoscere la configurabilità del diritto alla salute e la sua tutelabilità davanti al giudice ordinario. Possono essere citate in particolare le sentenze 3164/1975 (Foro it., 1976, I, 385) e 1463/1979 (ivi, 1979, I, 939), con le quali le dette configurabilità sono state affermate con riferimento a fatti di temuto inquinamento ambientale. Sembrano tuttavia necessarie alcune puntualizzazioni dirette a illuminare il contenuto di esperienza giuridica e il tipo di tecnica giuridica ai quali è dato far riferimento, alla luce della nostra Costituzione, quando si parla di diritto alla salute. Posto che per salute s’intende comunemente il benessere biologico e psichico dell’uomo secondo le valutazioni proprie di un dato momento storico, è innegabile che un bene siffatto trovava già una certa protezione, anche prima dell’entrata in vigore della Costituzione, nel riconoscimento del diritto alla vita e all’incolumità fisica, riconoscimento allora implicito nelle norme penalistiche incriminanti l’omicidio e le lesioni personali e in quella civilistica invalidante gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Ma il quadro normativo di riferimento oggi s’incentra ovviamente nell’art. 32 Cost., che oltre ad ascrivere alla «Repubblica» la tutela della salute dell’uomo – così facendone un fine dell’ordinamento, un valore costituzionale – precisa che la salute è tutelata come «diritto fondamentale dell’uomo e interesse della collettività». Ciò importa che la salute, oltre e prima che essere oggetto di cura e di intervento (come vedremo soltanto promozionale) da parte della collettività generale (in quanto la mancanza di essa anche in un solo componente la collettività potrebbe costituire pericolo o peso per tutti gli altri componenti), è protetta in via primaria, incondizionata e assoluta come modo di essere della persona umana. Il trasparente riferimento all’art. 2 Cost. – secondo il quale «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in cui si svolge la sua personalità» – esplicita ancor meglio, peraltro, sia il contenuto che il tipo di protezione. Quanto al contenuto diviene cioè chiaro che la protezione della salute assiste l’uomo non (solo) in quanto considerato in una sua astratta quanto improbabile separatezza, ma in quanto partecipe delle varie comunità – familiare, abitativa, di lavoro, di studio e altre – nelle quali si svolge la sua personalità. Accentuandosi il carattere di inerenza alla persona e di socialità del bene protetto, si rende manifesto che la protezione non si limita all’incolumità fisica dell’uomo, supposto immobile nell’isolamento della sua abitazione o solitario nei suoi occasionali spostamenti e così fatto specifico bersaglio di azioni aggressive, ma è diretta ad assicurare all’uomo la sua effettiva partecipazione, mediante presenza e frequentazione fisica, alle dette comunità, senza che ciò costituisca pericolo per la sua salute. La protezione si estende cioè alla vita associata dell’uomo nei luoghi delle varie aggregazioni nelle quali questa si articola, e, in ragione della sua effettività, alla preservazione, in quei luoghi, delle condizioni indispensabili o anche soltanto propizie alla sua salute: essa assu- me in tal modo un contenuto di socialità e di sicurezza, per cui il diritto alla salute, piuttosto (o oltre) che come diritto alla vita e all’incolumità fisica, si configura come diritto all’ambiente salubre. Quanto al tipo di protezione, è evidente che si tratta di una tecnica giuridica di tipo garantistico, che è poi quella propria dei «diritti fondamentali» o «inviolabili» della persona umana. Si tratta, cioè, di tutela piena che si concreta nell’attribuzione di poteri di libera fruizione di utilità e di libero svolgimento di attività, di esclusione degli ostacoli che all’una o all’altro si frappongano da parte di chicchessia. Ed è in questa difesa a tutta oltranza contro ogni iniziativa ostile, da chiunque provenga – altri singoli o gruppi e persino l’autorità pubblica – non già in una considerazione atomistica, asociale, separata dell’uomo, che risiede il significato del richiamo al «diritto fondamentale dell’individuo». In una parola, la strumentazione giuridica è di quella del diritto soggettivo, anzi del diritto assoluto. Occorre a questo punto farsi carico di due obiezioni. La prima è che in tal modo si vengono a configurare posizioni soggettive tutelabili in riferimento a un bene che sembrerebbe protetto solo oggettivamente (valore costituzionale) vale a dire a un bene rispetto al quale non sarebbe configurabile una posizione propria, differenziata a esclusiva di un singolo soggetto, ma un mero interesse diffuso, cioè riferibile allo stesso modo e indifferentemente a un numero indefinito di soggetti. A tale obiezione è da rispondere in primo luogo che non può essere negata tutela a chiunque sia interessato in relazione a un bene giuridicamente protetto per la sola ragione che questo non appare attribuito né attribuibile a lui in modo esclusivo. La prospettiva secondo la quale vi è protezione giuridica soltanto in caso di collegamento esclusivo fra un bene (o una frazione di esso) e un solo determinato individuo o un gruppo personificato – e quindi assimilato all’individuo – è condizionata da un’impostazione di tipo patrimoniale della giuridicità e rischia di mortificare in ragione del condizionamento l’irresistibile tendenza all’azionabilità delle pretese che è cardine della nostra Costituzione (art. 24). Il che è tanto più grave in quanto il diniego di tale azionabilità – nel presupposto della predisposizione di direttive operanti per il solo legislatore o di interventi ufficiosi dell’autorità pubblica nei soli casi espressamente previsti – si traduce in mancanza di tutela dei soggetti reali (cioè dei veri destinatari della protezione costituzionale anche se considerati come partecipi della collettività) in ordine a beni che sono di particolare rilevanza perché attengono alla persona umana. Tale sarebbe la conseguenza cui si perverrebbe se si ritenesse che un’esigenza non è protetta in riferimento a un solo uomo perché è o non può essere protetta al tempo stesso e allo stesso modo in riferimento a una pluralità di altri uomini (anche indefinita nel numero o indeterminata nella composizione) con omogeneità di contenuto e reciproca implicanza, come appunto avviene per i modi in cui la persona umana si realizza nelle formazioni sociali di cui è partecipe. Quel che può richiedersi invece è soltanto che la tutela sia postulata in ragione di tale partecipazione e dell’effettiva configurabilità della formazione sociale di appartenenza. Del resto la giurisprudenza di queste Sezioni Unite non ha mancato di ammettere la protezione di interesse di serie, o di categoria, sia pure con la tecnica dell’interesse legittimo, cioè della configurazione di poteri subordinati di incidenza inclusi in un’area di potere preminente dato per il perseguimento di un interesse pubblico. E la circostanza che ciò sia avvenuto finora (almeno prevalentemente) per categorie individuate dall’esercizio di attività economiche, non esclude naturalmente né che ciò possa avvenire sulla base di altri criteri di collegamento, né che, quando la natura del bene lo esiga – come nel caso, che qui ricorre, di un modo essenziale di essere della persona – la protezione sia strutturata in forma di difesa a oltranza contro ogni forma di ostilità o di compressione. In tal ultimo caso infatti la difesa può e deve avvenire anche indipendentemente da ogni intervento dell’autorità amministrativa e persino contro di essa. Si tratta ovviamente di stabilire quali beni, secondo la gerarchia di valori posta dalla nostra Costituzione, meritino siffatta tutela. Ma non vi è dubbio che la meriti il bene di cui si tratta. La seconda obiezione è che sarebbe eccessivo concepire una protezione di contenuto così ampio come protezione di tipo garantistico anche nei confronti della P.A., cioè con l’esclusione dei poteri, non solo ablatori, ma anche soltanto compressivi in capo alla medesima. Ora che il bene della salute, inteso nei sensi sopra indicati, sia assicurato all’uomo in forma garantistica, e (almeno esso) incondizionatamente – come uno e anzi come il primo dei diritti fondamentali – anche nei confronti dell’autorità pubblica, cui è negato in tal modo di potere di disporre di esso, è cosa che non può sorprendere, ove si consideri; a) che i diritti fondamentali sono per tradizione dal diritto costituzionale garantiti in primo luogo contro l’autorità pubblica; b) che in ogni ordinamento, taluni valori sono preminenti; c) che di tutto ciò non si è mai dubitato per il diritto alla vita. Nessun organo di collettività, neppure di quella generale, e del resto neppure l’intera collettività generale con unanimità di voti potrebbe validamente disporre per qualsiasi motivo di pubblico interesse della vita e della salute di un uomo, o di un gruppo minore. Il sacrificio o la compressione di tali beni può costituire fatto giustificato dallo stato di necessità o dalla legittima difesa – ma in tal caso anche se posto in essere da qualsiasi privato – non già espressione di un potere preminente di disposizione. Né le cose appaiono diverse se il bene della salute è considerato bene dell’ambiente salubre nei sensi sopra indicati, cioè come salubrità dell’ambiente quale dimensione spazio-territoriale della vita associata. È chiaro che l’amministrazione non ha il potere di rendere l’ambiente insalubre neppure in vista di motivi di interesse pubblico di particolare rilevanza. Segue che essa non ha il potere di compiere né di autorizzare attività suscettive di determinare tale insalubrità senza l’impiego di cautele atte – di attitudine verificabile dal giudice – a scongiurare il pericolo. Certo essa ha il potere, ove ricorrano motivi di interesse pubblico, di espropriare, per destinarle esclusivamente a luogo di attività pericolose la cui incidenza non possa altrimenti circoscriversi, parti di un dato territorio, così sottraendole all’ambiente delle collettività in esso stanziate; ma, a parte ogni questione circa i limiti entro i quali possa avvenire, è ovvio che si tratta di un modo di preservare e non di compromettere la salubrità dell’ambiente nel suo insieme. Le cose dette circa la tutela garantistica della salute anche contro la pubblica autorità trovano conferma, ove si consideri che anzi dai precetti costituzionali dinanzi richiamati (artt. 32 e 2) e da altri (art. 3, 38) emerge una linea di tendenza dell’ordinamento, costituente poi sviluppo della detta tutela garantistica, nel senso di configurare addirittura un diritto alla salute come un «diritto sociale», inteso questo come diritto del privato a un’attività positiva della P.A. a favore della salute sia in via preventiva che in via recuperatoria. Tale configurazione, espressamente data del resto al diritto alla salute da alcune costituzioni straniere, sembra trovare attuazione in leggi ordinarie e in particolare modo nella recente l. 833/1978 sul servizio sanitario. Il che conferma che l’intervento dell’autorità pubblica, in tema di salute, non può essere che promozionale o adiuvante. Rimane da esplorare un altro aspetto del problema, se ciò la posizione del privato rispetto alla salute, sempre intesa come bene della persona nei sensi suindicati, si atteggi come posizione subordinata rispetto al potere-dovere in quanto «interesse della collettività» generale, secondo una diversa prospettiva pure desumibile dall’art. 32 Cost. Si tratta di un aspetto del problema la cui soluzione in senso diverso potrebbe in ipotesi incrinarne la validità o almeno limitare la portata generale delle affermazioni sopra enunciate circa il carattere garantistico della tutela della salute. E ciò con immediato riferimento al caso concreto, caso in cui è sostenibile che l’iniziativa della P.A. che viene denunciata, pur non provenendo da un’autorità investita di funzioni nel settore della sanità pubblica, sia ispirata a finalità a questa attinenti, finalità come appunto potrebbe considerarsi la costruzione di un depuratore di rifiuti e il connesso disinquinamento del golfo di Napoli. Ma la risposta prima data e le affermazioni in via generale prima rese circa il carattere garantistico della tutela vanno ribadite, ove si consideri che, a ben vedere, neppure all’autorità che operi a tutela specifica della sanità pubblica è dato il potere di sacrificare o di comprimere la salute dei privati. La manifestazione più eclatante dei poteri pubblici in questo settore è data dall’imposizione di accertamenti e trattamenti sanitari da parte dell’autorità sanitaria ai sensi degli artt. 33, 34, 35 l. 833/1978 (art. 1 ss. l. 180/978). Ebbene, anche a prescindere dalle note garantistiche che si desumono dal costante richiamo fatto dalle dette disposizioni, in conformità del resto all’art. 32 co. 2° Cost., al limite costituito dal rispetto della dignità della persona umana, e dalla predisposizione di una tutela contro tali provvedimenti davanti al giudice ordinario, è rilevante sopratutto che i poteri così dati all’autorità incidono sull’autodeterminazione dei privati, non già sulla salute di essi, in tanto con i cennati provvedimenti, e con gli accertamenti o trattamenti che ne sono oggetto, l’autorità pubblica ha il potere di incidere sui privati, in quanto si tratta di misure dirette a preservare o a migliorare la salute di essi e le relative condizioni ambientali (in una con quelle relative alla sanità pubblica), non già a comprimerle o a sacrificarle. Tutto ciò posto, risulta chiaro come la situazione fatta valere dagli istanti – a prescindere dai riferimenti operati, con scarso tecnicismo, alla censurabilità dell’iniziativa intrapresa dalla Cassa del Mezzogiorno o a essa riferibile, sotto il profilo dell’opportunità amministrativa o addirittura politica delle scelte, ovvero dal richiamo fatto, d’altronde per alcuni soltanto di essi, alla proprietà – è qualificabile come il diritto alla salute, cioè alla preservazione della salubrità dell’ambiente della comunità abitativa o di lavoro di cui essi assumevano di far parte. E non vi è dubbio che si tratti di situazione giurisdizionalmente tutelabile e tutelabile davanti al giudice ordinario, anche nei confronti della P.A., le cui attività lesive devono considerarsi poste in essere senza alcun potere che valga a escludere o a limitare la tutela della situazione stessa davanti al detto giudice (esclusione e limitazione disposte soltanto a salvaguardia di un potere di incidenza realmente dato in ordine al tipo di situazione di cui è postulata la tutela). A tali conclusioni devono fermarsi le Sezioni Unite in sede di regolamento preventivo, senza occuparsi di problemi che sono di merito, in quanto non attengono alla giurisdizione, quali a) se in riferimento al tipo di situazione fatto valere, cioè al diritto della persona alla salute, sia proponibile un’azione che è data, come quella nunciatoria, a tutela della proprietà e del possesso; b) nel presupposto che da tale azione possa enuclearsi autonomamente un’azione inibitoria, se l’inibitoria possa ritenersi proponibile in via generale a tutela dei diritti assoluti o almeno a tutela del diritto alla salute. Di tali problemi, oltre che di quelli attinenti al me- rito in senso più stretto (come quello se realmente la messa in funzionamento delle opere intraprese possa mettere in pericolo la salubrità dell’ambiente del quale fu chiesta la tutela), dovrà occuparsi il giudice ordinario, del quale va dichiarata la giurisdizione. (Cass. sez. un. 6.10.1979, n. 5172). La prospettiva dottrinale più evoluta guarda al tema con il metodo della dell’analisi economica del diritto , come conferma Ugo Mattei in brillanti pagine di conclusione della sua importante voce enciclopedica Immissioni cit.
. . La scelta del rimedio: considerazioni di analisi economica Ora, viste le diverse combinazioni rimediali aperte al giudice, occorre domandarsi come questi debba orientarsi nella scelta. La ricerca di soluzioni efficienti ci spinge a soggiornare brevemente nel mondo del premio Nobel di Chicago Ronald Coase. Come è noto, l’ipotesi del suo teorema consiste nel presupporre l’assenza dei costi transattivi. La tesi ivi dimostrata è quella per cui la distribuzione di partenza dei property rights è irrilevante dal punto di vista della distribuzione efficiente delle risorse. Queste finiranno comunque allocate, a seguito di negoziazione, al soggetto che le valuta di più. La ricetta che un giudice trae da questo teorema è piuttosto semplice: al fine di risolvere in modo efficiente un problema di immissioni occorrerà che egli focalizzi la sua attenzione sui costi transattivi. Egli dovrà in primo luogo interrogarsi se, nel caso di specie, i costi transattivi siano alti o bassi. I costi transattivi sono quelli che derivano dalla difficoltà di negoziazione fra i soggetti le cui sfere proprietarie risultino interdipendenti. Ora è chiaro che se per es. un fenomeno di immissioni riguarda due proprietà confinanti, i costi transattivi potranno assumersi vicini allo 0. Potranno peraltro crescere anche in questo caso qualora vengano presi in considerazione gli aspetti idiosincratici dei contendenti (per es. una lunga tradizione di odio e di reciproca antipatia). Se viceversa ci troviamo di fronte a un fenomeno di immissioni industriali in cui le proprietà affette sono numerose, i costi transattivi saranno alti perché il negoziato dovrà intercorrere fra un numero alto di individui. Non solo, ma in questo caso saranno presenti i problemi dettati dalla presenza dei cosiddetti free riders ossia di quegli individui che traggono profitto dalla non partecipazione al negoziato o dalla partecipazione strategica allo stesso. La soluzione prescritta dall’analisi microeconomica è la seguente: in presenza di costi transattivi bassi il rimedio da concedere è l’inibitoria per il futuro accompagnata dal risarcimento dei danni per il passato. Ciò farà sì che, in presenza delle condizioni presupposte dal teorema di Coase, si tuteli la sfera proprietaria maggiormente valutata dal proprio titolare con beneficio privato e sociale. L’esternalità negativa eventualmente verificatasi in passato viene così internalizzata (risarcimento dei danni) mentre le parti potranno negoziare circa l’assetto futuro dei property rights. Se l’immittente valuta 100 la propria possibilità di continuare a produrre, pur a seguito dell’internalizzazione dei costi, e l’immesso valuta 80 la sua possibilità di vivere in quella zona al riparo dalle immissioni, ci sarà spazio per un accordo per cui l’impresa comprerà (diciamo a 90) il proprio diritto a immettere. Tale soluzione è paretianamente efficiente perché entrambe le parti vengono collocate su una curva di indifferenza superiore senza che nessuno venga abbassato sulla propria, con conseguente crescita del benessere sociale. In altri termini, il giuoco cooperativo fra le parti porterà a un surplus di 20 rispetto all’allocazione delle risorse precedente al negoziato. Se viceversa l’immesso valuta 110 la propria quiete l’immissione dovrà cessare perché la sua continuazione (scontando sempre l’internalizzazione) comporta un detrimento nel benessere sociale pari a 10. Ora, naturalmente, a costi transattivi bassi le parti si mettono d’accordo senza ricorrere al giudice, a meno che manchi lo spazio per una soluzione negoziata efficiente. Ciò conferma perciò la bontà della scelta inibitoria. Riteniamo che l’ipotesi economica prevista dalla precedente analisi possa sussumersi nel co. 1°. dell’art. 844 nell’ambito quindi del giudizio di tollerabilità. Si noti che la più verosimile ipotesi di costi transattivi alti (da risolversi tramite Liability Rule cfr., infra) sarebbe proprio quella di preuso (con relativo irrigidimento negoziale di colui al quale venga richiesto il mutamento di un comportamento da sempre posto in essere) reso eventualmente più complesso dalla presenza di terzi innocenti «portati alla immissione». Le ipotesi peraltro a un tempo più complesse ed economicamente rilevanti sono quelle che si verificano a costi transattivi alti. È l’ipotesi di immissioni industriali di cui al co. 2° del nostro art. 844. L’analisi economica del diritto in questo caso consiglia al giudice la ricetta del rimedio risarcitorio perché le condizioni del teorema di Coase non sono raggiunte ed è soltanto tramite la regola risarcitoria che l’immittente viene costretto a internalizzare i propri costi. In un caso come questo, l’immittente continua l’attività soltanto se i benefici sono più alti dei costi. Viceversa, se non è chiamato al risarcimento, i costi sociali superano i benefici sociali in quanto l’attività fa sopportare agli immessi una parte dei suoi costi. Questa spiegazione ha convinto tutti gli economisti i quali, prima dell’introduzione del paradigma coasiano, la accettavano indipendentemente dall’analisi dei costi transattivi. Non stenta a convincere i giuristi per i quali il principio «sui cinque tribuere» fa parte di un antichissimo patrimonio sapienziale. La necessità dell’internalizzazione dei costi tuttavia non spiega il diniego della tutela inibitoria in presenza di alti costi di negoziazione. Ora, occorre immediatamente sgomberare il campo dalla principale critica che può derivare da questa impostazione. La tutela della salute non ha nulla a che vedere con quanto stiamo analizzando. Acutamente si è notato che se immobile è la proprietà di un fondo, altrettanto non è il proprietario il quale può spostarsi altrove (se adeguatamente indennizzato) qualora i rumori o gli scuotimenti attentino alla sua integrità psicofisica. Ancora, qualora l’immissione non dovesse essere fisicamente circoscrittibile al rapporto fra fondi (come per es. nel caso di radiazione o di prodotti chimici volatili) saremmo fuori dalla materia delle immissioni, la quale è circoscritta a rapporti proprietari che si riflettono sul valore di mercato della proprietà stessa. Di conseguenza a tali ipotesi presiedono altre regole normalmente sottratte ai circuiti del diritto privato. La ragione per la quale in presenza di alti costi transattivi è bene far a meno del rimedio inibitorio è duplice, in primo luogo perché esso potrebbe introdurre inefficienze in quanto le difficoltà incontrate per rinegoziare dei property rigths potrebbero finire per lasciare inibita una attività di maggior valore sociale con un risultato paretianamente inefficiente. Ancora, qualora siano presenti una pluralità di proprietari immessi possono essere favoriti comportamenti opportunistici, a loro volta inefficienti. L’imprenditore che ha acquistato sul mercato il diritto a immettere, pagando una certa cifra a nove proprietari su dieci, potrebbe essere costretto dall’ultimo a pagare per il proprio consenso una cifra molto superiore a quanto egli valuti la sua proprietà, con possibile perdita di una fetta consistente del proprio sperato profitto. Non che con questo ci si preoccupi del profitto dell’imprenditore, il quale, pur assottigliato, potrebbe tuttavia ancora sopportare l’attività produttiva socialmente benefica. Il problema è che ognuno dei proprietari coinvolti vorrebbe essere l’ultimo a negoziare con conseguente autoproduzione di costi transattivi e relitiva, inefficiente, immobilità del rimedio inibitorio. In presenza di costi transattivi alti il rimedio consente di ovviare a questi problemi perché calmiera il prezzo di negoziazione intorno al property right. Non è infatti il proprietario contrapposto a fissarlo ma è la Corte autoritativamente al di fuori dunque da ogni preoccupazione «ricattatoria». Ora, naturalmente, anche l’analisi del rimedio risarcitorio presenta problemi. Innanzitutto perché, in realtà il negare la tutela inibitoria significa espropriare il diritto al proprietario immesso. La tutela risarcitoria, in questa luce, non può esser vista come una tutela della proprietà immessa ma, invertendo la prospettiva, come una tutela della proprietà immittente. Il che, ovviamente, non significa che la tutela risarcitoria non sia una tutela della proprietà perché, in realtà, tutti i proprietari beneficiano, sul lungo periodo, di un assetto istituzionale che non accoglie idiosincrasie. Anche il proprietario immesso, a ben vedere, ne usufruisce perché il mercato registra, con un aumento di valore, la possibilità di porre in essere utilizzi dinamici della proprietà senza la spada di Damocle del capriccio di qualche proprietario «statico» eccessivamente tutelato. Una tale logica economica non è diversa da quella che, è stato osservato, presiede all’art. 1153 c.c. (e alle norme analoghe presenti in altri ordinamenti). Il rimedio risarcitorio, a sua volta, lascia aperte diverse opzioni a un giudice attento a considerazioni di efficienza. Si inserisce a questo proposito la questione, invero delicata per chiunque abbia a cuore le preoccupazioni ambientali, delle tecnologie utilizzabili, per riprodurre l’immissione. La internalizzazione di tutti i costi è di per sé un presupposto indispensabile di un corretto rapporto fra tutela dei diritti individuali e politica ambientale. Ciò è stato di recente riconosciuto come presupposto fondamentale pure a livello di Comunità Europea tramite la verbalizzazione della massima «chi inquina paga». La disciplina delle immissioni non è da sola in grado di offrire un’adeguata risposta istituzionale decentrata alla questione ambientale ma, costituendo la più sofisticata norma privatistica a tal fine presente nel nostro diritto, occorre sfruttarne le potenzialità attraverso una corretta interpretazione. In questa luce occorre osservare che la sua funzione non può essere per nulla limitata al prescrivere l’internalizzazione delle esternalità. Il rimedio risarcitorio costituisce per sempre la deroga a un principio forte del nostro diritto privato, quello per cui la tutela principale di un diritto è quella in forma specifica e che il risarcimento è soltanto un rimedio residuale. Un principio opposto, com’è noto, è declamato in Common Law dove i damages sono il rimedio per eccellenza. Non di meno anche li, sul piano operazionale, il rapporto fra rimedio di Common Law (damages) e rimedio d’Equity (specific performance – injiunction) appare capovolto dal test sulla «adequacy of the remedy at law». Ora, la minaccia dell’inibitoria deve incombere sull’immittente allo scopo di forzarlo alla riduzione dell’immissione nell’altrui diritto e, di conseguenza, a un utilizzo della proprietà più rispettoso dell’ambiente. Nel perseguire questo risultato, occorrerà pur sempre che il giudice tenga conto delle ricette di analisi economica del diritto. Innanzitutto egli dovrà individuare chi sia il cheapest cost avoider, cioè colui che è in grado di ridurre l’immissione a minor costo. Se, in ipotesi, la riduzione di un’immissione di rumore è ottenibile tramite l’insonorizzazione di una finestra o, in alternativa, tramite l’allestimento di un costosissimo macchinario, la prima soluzione sarebbe da preferire salvo che l’installazione del macchinario non comporti benefici sociali ulteriori. Nell’optare per il rimedio risarcitorio, perciò, il giudice sarà chiamato a un delicato compito di quantificazione. In quest’ambito, per es., il risarcimento del danno agevolmente evitabile non sarà dovuto. Così, per es., nulla sarà dovuto a chi lamenti un danno (per es. lesioni all’udito di un dipendente) derivante dalla non insonorizzazione della finestra. Ciò che gli sarà dovuto sarà soltanto il costo in cui sarebbe incorso se avesse fatto insonorizzare la finestra. Il non risarcimento del danno evitabile costituisce una prima direttiva per il giudice avente come effetto finale quello di stimolare l’utilizzo delle tecnologie disponibili per la riduzione dell’immissione. Peraltro, è necessario intervenire in primis sull’attività immissiva per due ordini di ragioni. Innanzitutto perché è più facile che l’immittente e non l’immesso sia colui che crea costi sociali ulteriori rispetto al danno subito dalla controparte. In secondo luogo perché, come osservato in apertura, il principio del divieto di immissio in alienum è tuttora da considerarsi parte del common core dei sistemi giuridici occidentali sicché, nonostante tutte le necessarie attenuazioni (coming to the nuisance; giudizio di contemperamento), il giudice non può essere completamente neutrale fra chi immette e chi subisce l’immissione. È quindi sul fronte dell’immittente che occorre introdurre lo stimolo necessario alla introduzione delle tecnologie volte a ridurre l’immissione. L’analisi economica ci mostra agevolmente quale sia lo standard tecnologico efficiente. L’immittente dovrà provvedere all’installazione delle migliori tecnologie correntemente presenti sul mercato. Ciò significa che, da un lato, non sarà sufficiente il livello di tecnologia compatibile con un’attività economica comunque profittevole qualora sul mercato siano disponibili, a un prezzo più alto, tecnologie migliori. Né, all’opposto, che l’immittente sia tenuto a installare un livello di tecnologia non presente sul mercato sebbene tecnicamente ottenibile tramite ricerche sofisticate o tramite investimenti palesemente spropositati. Ora, nel primo caso, è chiaro che, qualora l’attività immissiva venisse autorizzata a continuare, essa diverrebbe, dal punto di vista economico, un’attività diseconomica sovvenzionata. Nulla osta a una tale scelta purché i costi della sovvenzione (resa necessaria per es. da esigenze occupazionali del settore) vengano ripartiti fra tutti i consociati e non addossati ai soli vicini dell’immittente. Nel secondo caso, sarebbero gli equilibri nella divisione degli investimenti per la ricerca a essere turbati con un aggravio insostenibile in capo all’immittente socialmente benefico. Evidentemente, in questa seconda ipotesi, il giudice potrà valutare diversamente l’immittente qualora per es. piccola impresa piuttosto che maxi impresa già dotata di un moderno centro ricerche. In questo secondo caso l’introduzione di standard tecnologici più elevati rispetto ai migliori reperibili sul mercato non sarebbe ingiustificato in quanto volto a indirizzare la ricerca interna nella direzione socialmente più utile. Il problema tecnico-giuridico con cui occorre confrontarsi deriva dal fatto che, una volta autorizzata l’attività immissiva ex art. 844, co. 2° (o ex rule in Boomer vs. Atlantic Cement Co.) a seguito del pagamento di un risarcimento all’immesso, l’immittente si trova nella condizione di chi ha comprato il diritto a immettere. Poiché la ricerca scientifica porta a continui progressi tecnologici occorre studiare un meccanismo giuridico volto a imporre l’aggiornamento delle tecnologie in capo all’immittente. La cosa è ottenibile sfruttando l’elasticità proprietaria e ponendola in funzione dei mutamenti di tecnologia ottenibili sul mercato. Si tratta in questo caso di trovare una giusta via di mezzo fra le esigenze di non ridiscutere continuamente un assetto proprietario (co- me avverrebbe qualora a ogni giudizio si risarcisse solamente il danno passato evitando così l’acquisto del diritto in capo all’immittente e al contempo superando i problemi di res judicata) e quelle di non allocare definitivamente il diritto a immettere senza più controlli sull’adeguatezza delle tecnologie adottate. La cosa è agevole per il giudice americano grazie al suo potere di modellare i rimedi d’Equity in maniera del tutto discrezionale. Egli non avrà che da consentire l’attività immissiva condannandola al solo risarcimento del danno continuativo, sotto condizione che il danno sia il più possibile contenuto tramite l’utilizzo delle migliori tecnologie correntemente ottenibili sul mercato. Il giudice americano ha poi a disposizione il potere di nominare un organo deputato al controllo del rispetto della sua sentenza. Un tale modello elastico ed efficiente non è impossibile da riprodurre nel nostro diritto purché si superino certe rigidità che rendono poco fruibile il nostro processo civile nella soluzione di problemi superindividuali. Senza addentrarci nel problema, basterà osservare che il giudice potrebbe introdurre la retribuzione di un tale organo di controllo (che potrebbe assumere la forma di un consulente tecnico) fra le poste del costo di internalizzazione che l’immittente deve ex art. 844, co. 2° Sul piano sostanziale, il nostro diritto privato conosce già gli strumenti per una tale correlazione dell’elasticità proprietaria con i mutamenti delle condizioni del mondo esterno rispetto al momento del giudizio. È sufficiente prendere visione delle norme in materia di servitù coattiva e riconoscere, al di fuori da ogni piatto concettualismo, l’identità strutturale ed economica dell’ipotesi di cui al co. 2° dell’art. 844 e quelle di cui agli artt. 10 32 ss. del c.c. vigente. Ora, in questa tradizionale normativa, elaborata nei dettagli e saggiata dalla storia, si rinvengono principii preziosi utilizzabili pur nelle ipotesi dell’art. 844, co. 2°. Senza entrare nei dettagli, sarà sufficiente qui l’obbligo in capo a colui il quale la servitù venga riconosciuta (l’imminente nel nostro caso) di adoperarsi allo scopo di creare il minor danno possibile (artt. 1044, co. 1°; 104 7; 1051, co. 2°); nonché l’espresso obbligo alla realizzazione di opere tecniche che non comportino una spesa spropositata rispetto allo scopo di cui agli artt. 1044 e 1047. Interessante è notare che nel diritto americano l’ipotesi di cui alla Boomer Rule è espressamente inquadrata fra le servitù e che in quell’ambito esiste una doctrine nota come obsolete covenants volta a tenere nella necessaria considerazione i mutamenti esterni sopravvenuti (per es. la scoperta di nuove tecnologie di depurazione a basso costo) che possono rendere giustamente ingiustificata una determinata compressione degli interessi proprietari. 10. Problemi di legittimazione Abbiamo più volte ripetuto, in compagnia della migliore dottrina, che la tutela contro le immissioni non può da sola costituire un’efficiente sistema di controllo delle esternalità negative prodotte dalle attività pubbliche e private. Nondimeno è senza dubbio il più interessante strumento privatistico utilizzabile a tal fine sicché è importante non sminuirne la portata. I problemi per la tutela decentrata contro le esternalità nel nostro diritto sono assai più legati al momento processuale che a quello sostanziale. Le cause sono molteplici e vanno dallo sfascio della giustizia civile con relativi ritardi, alla carenza di strumenti istituzionali volti a canalizzare le istanze sociali diffuse (per es. classaction), alla mentalità diffusa in una magistratura civile poco propensa a pensare al diritto con a mente considerazioni di public policy, al paradigma scientifico dominante in una cultura processualistica posseduta dal formalismo di matrice chiovendiana. In un panorama di questo tipo, troppo non si può chiedere all’art. 844. La norma presenta innanzitutto vistosi limiti sul piano della legittimazione. Presiede a interessi proprietari e perciò è utilizzabile principalmente da proprietari. Certo ci sono molti interessi non proprietari che, nel nostro diritto, si possono ormai considerare property interests: per es. quelli dell’inquilino. La legittimazione attiva gli è espressamente estesa. Ancora legittimati sono, per pacifico orientamento giurisprudenziale, i titolari di diritti reali di godimento diversi dalla proprietà. Meno accettabili sono, anche in linea teorica, i limiti relativi alla legittimazione passiva. L’art. 844 è norma a tutela della proprietà e dovrebbe potersi esperire considerando la natura dell’interesse dell’immesso e non dell’immittente. Ciò sarebbe più coerente con le prescrizioni in materia di normale tollerabilità e risolverebbe problemi pratici non indifferenti. Si pensi a quelli di chi subisca tutti i mercoledì mattina le immissioni provenienti da un furgone di pollivendolo parcheggiato sotto la sua finestra. Anche in quest’ipotesi le barriere alla legittimazione costituiscono il peggior nemico della funzionalizzazione del diritto privato all’interesse pubblico. (Mattei, Immissioni, cit.). A da queste considerazioni di Law and Economics occorre muovere per una corretta prospettiva di analisi di ulteriori orientamenti della dottrina e di diritto giurisprudenziale illustrati nelle pagine che seguiranno continua ).
(*) Questi materiali antologici raccolti da Andrea Fusaro sono parte di capitolo del secondo volume di Poteri dei privati e statuto della proprietà, S.e.a.m. editore ,Roma dove si trattano gli argomenti segnalati dall’indice dell’opera (**).
INDICE DEL PRIMO VOLUME Nozione e rilevanza costituzionale PREMESSA 7 CAPITOLO PRIMO Per una definizione della proprietà 9 1.1 La proprietà nel vocabolario giuridico 9 1.2 La prospettiva costituzionale 20 1.3 Nel quadro dei diritti dell’uomo 22 1.4 Le new properties 29 CAPITOLO SECONDO La proprietà nei modelli stranieri e attraverso la comparazione 45 2.1 La proprietà nei modelli stranieri notevoli 45 2.1.A) Property 45 2.1.B) Proprieté 66 2.1.C) Eigentum 74 2.2 Lo ius aedificandi 79 2.3 L’espropriazione 92 2.4 Le immissioni 100 2.5 Diritti e rimedi in prospettiva comparatistica 107 2.6 Il trust 119 2.7 Trasferimento della proprietà e sistemi di pubblicità 125 2.8 Il numero chiuso dei diritti reali 140 471 CAPITOLO TERZO La prospettiva dell’analisi economica 149 3.1 Un metodo di studio della proprietà. L’analisi economica del diritto 149 3.1.A) Introduzione 149 3.1.B) Le premesse dell’analisi economica del diritto: il teorema di Coase 151 3.1.C) Diritto di proprietà e teoria economica 161 3.1.D) Costi transattivi e disciplina della proprietà: la tesi di Posner 165 3.1.E) Costi transattivi e disciplina della proprietà: la tesi di Calabresi e Melamed 170 3.1.F) La letteratura successiva 178 3.1.G) Alcuni ripensamenti 180 3.2 I property rights nell’analisi economica 207 3.2.A) La prospettiva rimediale 207 3.2.B) Il matrimonio tra comparazione e analisi economica 210 3.2.C) In tema di property rights 228 3.3 Il numero chiuso dei diritti reali tra teoria economica e property law 235 3.4 Le new properties nell’analisi economica 252 CAPITOLO QUARTO La funzione sociale della proprietà 257 4.1 La proprietà nella Costituzione repubblicana del 1948. I lavori dell’Assemblea Costituente 257 4.2 Le diverse letture dell’art. 42 Cost. 262 4.3 Le garanzie costituzionali della proprietà privata 279 4.4 La funzione sociale della proprietà. Profili storici e ideologici 291 4.5 Proprietà privata ed espropriazione 297 4.6 L’occupazione acquisitiva 304 4.7 La funzione sociale e la «socialità» nella Costituzione 318 4.8 La funzione sociale e la Costituzione materiale 320 4.9 Gli statuti della proprietà e la disciplina dei beni 331 4.10 La funzione sociale alla vigilia del nuovo millennio 340 CAPITOLO QUINTO La proprietà e le proprietà 357 5.1 La proprietà tra diritto soggettivo e interesse legittimo 357 5.2 La proprietà e le proprietà 365 5.3 La proprietà conformata e la proprietà vincolata 369 5.4 Titolarità individuale e fruizione collettiva (beni culturali e ambientali) 381 5.5 La proprietà edilizia 386 5.5.A) Le peculiarità della proprietà edilizia 386 5.5.B) Il bene «casa» e il diritto all’abitazione 389 5.5.C) La disciplina urbanistica ed edilizia 400 5.5.D) La proprietà dei suoli urbani 409 5.6 La proprietà agraria 412 5.6.A) La proprietà agraria e la disciplina del Codice civile 412 5.6.B) La proprietà agraria nella Costituzione 415 5.6.C) La legislazione speciale del primo dopoguerra: la riforma agraria 423 5.6.D) L’accesso alla proprietà contadina e il diritto di prelazione a favore dei coltivatori diretti 426 5.6.E) La tipizzazione dei contratti agrari 432 5.7 La proprietà dei gruppi 437 5.8 La proprietà fiduciaria 456 5.9 La proprietà-garanzia 465 Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 470
INDICE DEL SECONDO VOLUME POTERI DEI PRIVATI E STATUTO DELLA PROPRIETA’ IL CODICE CIVILE E LE LEGGI SPECIALI
CAPITOLO PRIMO Dal Codice napoleonico al modello contemporaneo 7 1.1 I poteri del proprietario nella definizione di «proprietà» del codice napoleonico 7 1.2 Le definizioni di «proprietà» nei codici italiani preunitari 21 1.3 La proprietà nello statuto albertino 25 1.4 La disciplina della proprietà nel Codice civile italiano del 1865 29 1.5 Proprietà e impresa. La vicenda del conflitto tra proprietari terrieri e imprenditori di trasporti ferroviari 45 1.6 Proprietà e intervento dello Stato. Le opere pubbliche e i lavori pubblici 55 1.7 Le trasformazioni del diritto di proprietà: (a) La proprietà come potere relativo, limitato dal diritto pubblico 60 1.8 (b) L’idea di «funzione sociale» della proprietà nelle elaborazioni del socialismo giuridico 73 1.9 (c) La legislazione di guerra 83 1.10 (d) La funzione sociale nei testi costituzionali. La Costituzione di Weimar 87 1.11 Verso una nuova definizione di proprietà. L’interventismo corporativo e la codificazione del 1942 95 1.12 La legislazione speciale. Proprietà agraria e proprietà edilizia 115 1.13 L’evoluzione successiva 128 CAPITOLO SECONDO Una vicenda da concettuale: il numero chiuso dei diritti reali 149 2.1 Introduzione 149 2.2 La definizione di un dogma: la tesi di Venezian 152 2.3 Il diritto di cacciare sul fondo altrui. Uso e servitù irregolari 156 2.4 La trascrizione degli obblighi personali 171 2.5 Il principio del numero chiuso dei diritti reali sullo sfondo della crisi del modello tradizionale di proprietà 183 2.6 Convenzioni di lottizzazione, asservimenti, cessioni di cubatura 207 2.7 La vicenda dei diritti reali nella dottrina recente 239 CAPITOLO TERZO L’oggetto del diritto di proprietà 251 3.1 La nozione di oggetto del diritto di proprietà 251 3.2 I limiti all’appropriazione 263 3.2.A) Res nullius, caccia e pesca, le energie 263 3.2.B) Lo statuto del corpo umano 268 3.2.C) L’informazione, i programmi per elaboratori 271 3.2.D) Suolo e sottosuolo 277 3.3 L’ambiente come bene 290 CAPITOLO QUARTO I limiti temporali al diritto di proprietà 301 4.1 La proprietà temporanea 301 4.2 La multiproprietà 308 CAPITOLO QUINTO Il contenuto dei poteri del proprietario 323 5.1 Le limitazioni nell’interesse pubblico 323 5.2 La disciplina urbanistica ed edilizia 357 5.2.A) Nozione e ambito dell’urbanistica 357 5.2.B) La facoltà edificatoria 384 5.2.C) Autonomia privata e disciplina urbanistica 394 5.3 Il potere dei privati di vincolare la destinazione d’uso dei beni 414 5.4 La legislazione vincolistica 423 5.5 Immissioni e tutela della salute 430 Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 446 |
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