inserito in Diritto&Diritti nel luglio 2003

Delitti in famiglia: l'infanticidio e le attenuanti di Medea

di D. Stanzani e V. Stendardo

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Questi ultimi anni, in modo maggiore che nel passato, la cronaca nera italiana è stata fortemente caratterizzata da omicidi avvenuti in ambienti familiari. I mass-media si sono occupati con un interesse ossessivo soltanto di alcuni di loro, quelli più "particolari" o perché efferati o perché cruenti o sadicamente violenti. Per mesi abbiamo sentito parlare dei delitti di Novi Ligure, così come di quello di Cogne. Due tragedie umane che purtroppo, e non per i protagonisti, bene si sono sposate con il voyeurismo del pubblico. Ma gli omicidi in famiglia si consumano con una frequenza paurosa ed hanno ben poco a che vedere con la spettacolarità mediatica: essi sono la manifestazione ultima, finale del lato orribile, deviato e disturbato dei rapporti familiari e dei legami di sangue. Relazioni affettive turbate, compromesse, spesso schiacciate dal peso della vita quotidiana e dalla delusione delle sconfitte, soprattutto date dall'incapacità, personale e/o sociale, a realizzare un progetto di vita individuale soddisfacente. Questi eventi nefasti per molto tempo sono stati analizzati solo dalla prospettiva psicologica, ma oggi che sembrano essere più frequenti vengono chiamati in causa per essi molti più elementi. Si scopre così che c'è una complessità di fondo molto radicata che a stento emerge e che deve essere letta e analizzata alla luce di una complementarietà motivazionale che non è però mai esaustiva. Secondo i dati Eures, dal rapporto Gli omicidi domestici in Italia 2002 (www.eures.it), nel 2000 la percentuale degli omicidi domestici è stata pari al 28,7% di quelli complessivamente avvenuti in Italia, per questo il nucleo familiare è stato il primo ad essere analizzato. Da sempre la famiglia rappresenta l'embrione della società, l'art. 29 della Costituzione italiana dice "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". Una micro società naturale, quindi, ma dai rapporti e funzioni estremamente complessi: attraverso di essa infatti si apprende la propria cultura, i valori da condividere, le regole di vita ma nello stesso tempo si acquisiscono ruoli e si assumono funzioni che a seconda della vita sociale, al di fuori del proprio nucleo, si declinano in modi e maniere differenti. Nel momento in cui sorgono ostacoli individualmente considerati insormontabili, scatta l'aggressività che sempre più spesso è veicolata verso i componenti del proprio nucleo di origine considerati causa primaria delle frustrazioni; (come testimoniano sempre più spesso gli operatori dei Servizi Sociali) ma l'atto estremo, l'omicidio, come spesso si crede, non è sempre estemporaneo, non è sempre dettato da un impulso immediato e incontrollato. È il frutto, il più delle volte, di una lenta elaborazione, di una conflittualità interiore che affonda le sue radici lontano e che è strettamente connesso al cambiamento nel tempo dei ruoli familiari e sociali dei membri del nucleo di appartenenza. Le vittime degli omicidi in ambiente domestico sono prevalentemente donne, il 58,7% a fronte del 41,3% degli uomini (www.eures.it) sono soprattutto i motivi passionali quelli che portano agli assassinii, ma elevate sono anche le motivazioni legate ad interessi economici. In questi ultimi tempi è andato ad aumentare il numero degli infanticidi: dai 12 del 1998 ai 14 del 1999, dai 20 del 2000 ai 63 del 2001 (C. Patrignani, 2002), anche se in realtà sarebbe più esatto dire che se ne parla di più e i casi diventano statistici, perché di infanticidi e di omicidi di minori la storia è piena. Inoltre, le cifre sugli infanticidi che riportano le statistiche ufficiali sono relative, perché non contemplano le morti avvenute in modo accidentale ma pur sempre in presenza di almeno uno dei genitori e poi perché quando si parla di infanticidio si intende un omicidio nei confronti di bambini appena nati; se volessimo estendere la morte ai bambini di qualsiasi età dovremmo parlare di figlicidio e allora i numeri sarebbero molto più alti. Il figlicidio come reato non è contemplato dal Codice Penale, che riconosce solo l'infanticidio e l'omicidio. Nel primo caso avremo la punizione da art. 578 del C.P."La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni. A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi". Nel secondo caso l'art. 575 del C.P. "Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ai ventuno anni". Non si vuole entrare nel merito di  un campo giuridico-dottrinale delicato come questo, quello che a noi interessa è mettere in evidenza che ad esempio anche la morte di un bambino di cinque anni è omicidio, attenendosi letteralmente al C.P. Comunque lo si voglia chiamare, la morte di un minore è sempre la negazione di una vita breve, è un atto di violenza finale sempre più spesso agito dalle madri. E per la cultura italiana questo è veramente insopportabile, psico-logicamente impossibile, umanamente incredibile. La figura e il ruolo della donna/madre/mamma è sacra. La donna che non solo vede modificare il proprio corpo per contenere e proteggere un bambino, che sopporta il travaglio fisico per portare alla vita un altro essere umano, ma la mamma che culturalmente deve prendersi cura del neonato, che naturalmente deve sacrificare il suo tempo, il suo spazio, le sue relazioni, il suo lavoro, la sua carriera, i suoi affetti. Tutto questo rientra nella normalità, nella ovvietà, nella gratuità dell'amore. La donna accetta tutto questo perché è nel suo codice culturale genetico, perché è sempre stato così nel passato, perché appartiene alla storia naturale e culturale della vita dell'uomo. Allora abbiamo donne che per difendere i propri figli hanno lottato, si sono umiliate, hanno combattuto, si sono prostituite, sono fuggite, sono morte di stenti, tutto per proteggere i loro figli e/o per garantire loro la sopravvivenza e una vita decorosa. E se questo ha significato il loro annientamento, la loro mortificazione, il loro sangue, è andato bene lo stesso, perché una donna prima di essere un individuo come tutti è una madre. Il concetto di madre rimanda a quella della Madonna, simbolo di tutte le madri, Vergine, con la sua fede sacrificale e con il suo amore, ambedue materni e incondizionati, con la sua virtù di pietà e di devozione tipicamente femminili. Proprio per questo il valore della maternità non ha più una funzione sociale, ma un compito trascendente all'insegna di un forte spirito di sacrificio che avvicina la donna a Dio (www.italiadonna.it). Ma la donna è essa stessa Dea, La Grande Madre, archetipo, immagine primordiale, origine di tutte le cose: all'inizio dell'umanità erano sconosciuti i meccanismo biologici della fecondazione, si capiva solo che la nuova vita veniva dai ventri femminili, le donne allora divennero le protagoniste dei Pantheon religiosi e questo durò millenni come testimoniano molti ritrovamenti di statue e statuine dagli attributi femminili particolarmente evidenziati e i molti graffiti e disegni rivenuti dove l'anatomia femminile era iperrappresentata. Il ventre prominente, grandi seni ecc…, rappresentavano la Grande Madre partenogenica, testimonianza e simbolo della fecondità. Ad essa fu legato il ciclo lunare, era infatti venerata sotto forma trinitaria di fanciulla (femmina impubere), Luna Crescente, di donna incinta (femmina fertile) Luna Piena e di anziana (femmina infeconda) Luna Calante e per analogia con i cicli rigenerativi delle fasi lunari, la morte era vista come un momento necessario alla rigenerazione della vita: le creature viventi morivano, venivano sepolte nella terra/ventre della Madre, dalla quale rinascevano (www.grandemadre.net). Con il passare del tempo, con l'imposizione della supremazia maschile e con l'acquisizione di conoscenze biologiche, il potere della Grande Madre si ridimensionò fino ad assumere le caratteristiche dell'angelo del focolare.

Per tutto questo, l'infanticidio e l'omicidio di un bambino per mano materna oltre ad essere umanamente inaccettabile è anche culturalmente destabilizzante, ecco che allora nel momento in cui vengono compiuti atti tanto efferati e apparentemente incomprensibili, viene chiamato in causa un deus ex machina, una presenza divina, superiore, che impone il proprio arbitrio alle donne guidandole nel più abominevole dei delitti. Il deus ex machina è la pazzia. E' come se uno spirito maligno entrasse nel corpo della donna, che diventa solo involucro, carne, senza più volontà o capacità di comprendere e la portasse a compiere l'assassinio: infatti spesso durante i processi si invoca da parte della difesa l'incapacità di intendere e di volere dell'imputato. "Per capacità di intendere - afferma F. Petrella, psichiatra dell'Università di Pavia - si intende la normale capacità di valutazione dei propri atti. Con la capacità di volere si identifica la determinazione libera e volontaria del proprio comportamento. I due requisiti definiscono la responsabilità giuridica di un soggetto" (www.emsf.rai.it). L’articolo 85 del Codice Penale afferma: "Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere". Quindi in caso di omicidio o infanticidio dovranno essere tenuti in considerazione quei due requisiti per una giusta valutazione di ciò che è stato commesso. E il tecnico chiamato a fare le perizie è lo psichiatra, sarà lui a dover dare giudizi di normalità o infermità mentale. Da questo dipenderà anche il tipo di detenzione a cui l'omicida sarà sottoposta. Se le imputate saranno dichiarate sane di mente andranno a finire in un carcere comune, se invece verranno considerate incapaci e nello stesso tempo pericolose socialmente, due pesanti stigma, entreranno nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario (dalla forte caratterizzazione carceraria). Tuttavia la discriminante è già a monte: di fronte ad un fatto di sangue si cerca, come afferma P. Barbetta, di affermare lo stato di ragione della criminale. "La trasformazione cioè della trasgressione morale in trasgressione giuridica. La difficoltà di trovare un movente, o anche solo un interesse a commettere il gesto, crea uno spazio perché la difesa possa far riconoscere la malattia mentale. Ciò afferma il principio che un crimine possa essere punito se può essere in qualche modo reso intelligibile. La perdita della moral agency, la dichiarazione di malattia mentale a posteriori, dopo che il gesto folle è stato compiuto, salva persone coinvolte in queste situazioni" [1]. Sempre più spesso infatti le Medee usufruiscono delle attenuanti: come si afferma in una ricerca del CEIPA, Criminalità al femminile, personalità, comportamenti e struttura affettiva in prospettiva psicodinamicha, l'infanticidio è un tipo di reato particolare tale che, gli ordinamenti penali di quasi tutti i paesi del mondo limitano la pena per la madre, considerandolo "meno grave" rispetto al figlicidio. "L’infanticidio in Italia è tale se avvenuto "immediatamente dopo il parto" (per altri paesi i tempi sono più lunghi come ad esempio il codice penale canadese che lo considera fino a 12 mesi dopo il parto), in una condizione fisica e psichica alterata da parte della donna" (Ceipa, 2002) in cui viene dato particolare risalto alla situazione psicopatologica temporanea delle funzioni mentali, relativa appunto alla fase post-parto. Non vi è, però, nella letteratura specializzata una chiara definizione psicologica o psicopatologica della personalità dell’infanticida, proprio perché, come abbiamo già affermato, non sono solo questi gli elementi da prendere in considerazione. Infatti un altro motivo legato alla ridotta severità della pena, alle volte, è ricercato nelle particolari condizioni culturali, sociali ed economiche in cui la donna viene a trovarsi, con tutto ciò che ne consegue rispetto all’illegittimità dell’atto in un contesto di massicce pressioni, consce ed inconsce, e forti condizionamenti sociali. Ma spesso "la sorpresa" è data dal fatto che questi omicidi maturano in ambienti che potremmo definire socialmente sani, con donne dall'apparente vita regolare, religiosa, con un percorso autobiografico anche fatto di molte soddisfazioni personali, questo perché il mostruoso, l'abominevole, non è esclusivo appannaggio dell'insanità mentale o della deprivazione economica. E' importantissimo sottolineare che solo una piccola parte di donne che si macchiano di questi orrendi delitti sono affette, potremmo dire, da patologie mentali, che vanno dalla serie depressiva a quella paranoidea; per la maggior parte di loro si tratta, ovviamente, di disturbi della personalità causati da tutta una serie di motivi: economici, sociali, di ruolo, psicologici, ecc.

 Nella letteratura criminologia Positiva, la devianza femminile non era configurata come ribellione, trasgressività, atteggiamenti critici nei confronti della società, ma più "semplicemente" come anomalia biologica o malattia psicologica. Alle Donne Delinquenti non veniva riconosciuta una veste razionale, come risposta a specifici problemi o conflitti sia interni, che esterni, per questo erano considerate come o "da curare", o da allontanare dalla società. Le teorie di Moebius e di Lombroso (1893) tutte tese ad evidenziare l'inferiorità biologica, mentale, sociale e culturale della donna, hanno determinato il costituirsi di uno schema di pregiudizi, luoghi comuni, stereotipi, stigmi che sono sopravvissuti per lungo tempo. Oggi queste teorie ci fanno sorridere, le donne non sono portate a commettere omicidi perché biologicamente inferiori, ma forse perché vivono una vita "inferiore", ossia al di sotto delle loro aspettative e dei loro desideri. E per questo andiamo dalle motivazioni più inquietanti per la loro banalità, vedi le donne che uccidono i propri figli in quanto colpevoli di aver rovinato i loro corpi attraverso il parto, a quelle più complesse di donne che ripropongono ai piccoli le violenze che loro stesse hanno subito, a quelle che dissimulano la gravidanza e fecalizzano il neonato (è il caso dei bambini abbandonati nelle discariche o nei cassonetti dei rifiuti). Un altro aspetto inquietante dei figlicidi è la modalità, l'atto materiale con cui viene portata a termine la vita. Ci sono moltissimi casi di morti accidentali, ma che poi tali non sono: cadute da balconi, soffocamento nei letti, lo scivolare in una scarpata, o nei laghi o nei fiumi, il semplice cadere dalle braccia di un genitore, la cadute dalle scale ecc…Molti degli incidenti domestici, come è stato dimostrato da molti psichiatrici, sono causati con totale volontà di uccidere. Altre volte si consumano dei veri e propri martiri, i bambini vengono uccisi con oggetti contundenti che fanno schizzare il sangue ovunque. Che significato può avere in un contesto così doloroso e drammatico lo spargimento di sangue? Il sangue "possiede una potente carica metaforica coagulante simboli ora terrifici ora salvifici connessi all'immagine nera della dissoluzione e della morte o a quella positiva della rigenerazione della vita"[2]. Il versamento di tanto sangue, sangue innocente di un bambino ha il significato di una espiazione, è il mezzo attraverso il quale affrancarsi dalle proprie colpe, rinunciando per propria mano a ciò che si ha di più prezioso, alla carne della propria carne, alla propria progenie, (come Dio che sacrifica suo figlio Gesù attraverso il martirio per salvare l'intera umanità dai propri peccati), per tornare a nuova vita, per potere avere un futuro privo di passato, come se l'atto di sangue fosse il rito di purificazione attraverso cui passare per giungere in un altro posto, in una vita "serena", nuova, pulita. Il limen, la soglia è attraversata e dal sangue versato scaturisce la rigenerazione e la propria vita. In questo senso potremmo anche spiegarci il motivo per cui anche di fronte all'evidenza, si ha la negazione dell'atto o comunque molte donne assumono, subito dopo l'omicidio un comportamento "assolutamente normale". Teniamo a ribadire che questa è solo una particolare chiave di lettura da una prospettiva troppo spesso non presa in considerazione. D'altro canto in molte religioni e civiltà del passato ci sono esempi di sacrifici umani di adolescenti e bambini immolati per qualche divinità e per la Madre Terra, dai Maya agli Etruschi, dai Greci ai Romani, perché il sangue innocente versato era garanzia di prosperità e di vita. Il figlicidio e le sue declinazioni simboliche rappresentate da mutilazioni fisiche parziali di natura rituale, circoncisioni, clitoridectomie, infibulazioni le troviamo pressoché in tutte le culture, e a queste poi si vanno ad aggiungere gli atteggiamenti violenti, le lesioni fisiche indotte da percosse, la negligenza, l' abbandono a cui i bambini sono stati sottoposti nel corso della storia. Oggi chiaramente si vive nel rispetto dell'infanzia, ma la cultura del bambino con molta difficoltà riesce ad affermarsi. Giuridicamente parlando, qualcosa viene fatto attraverso le norme per tutelare l'infanzia, ma nonostante tutto, viviamo continuamente episodi cruenti di violenza e di morte. Nel nostro Codice Penale gli art. 575 e 578 sono solo un piccolo passo avanti ma comunque estremamente significativo rispetto al passato. Il primo C.P. del 1889 attenuava la colpa di infanticidio, considerandolo meno grave dell'omicidio, commesso "per salvare il proprio onore" o per "evitare sovrastanti sevizie" (www.ecologiasociale.org), l'infanticida per eccellenza era infatti la madre, o meglio la madre cosiddetta illegittima (nubili e adultere come da codici ottocenteschi). Con il Codice Rocco invece l'attenuante non era solo per le madri ma per chiunque,  per motivi di onore, uccidesse un neonato. La situazione si è andata modificando con l'articolo n.1 della legge 442 del 5 agosto1981 quando la causa d'onore è stata abolita da tutti i reati che la contemplavano per cui si è tornati ad identificare nella madre la principale agente dell’infanticidio, senza più attribuzioni di maternità illegittima, oltre alla considerazione del gesto in "condizioni di abbandono materiale e morale" (P. Guarnieri, 2002).

 

I delitti di cui noi oggi discutiamo, come abbiamo già affermato, non sempre maturano in ambienti socialmente compromessi o economicamente difficili. Diciamo che i mass-media hanno una particolare predilezione per gli avvenimenti che scaturiscono in situazioni di normalità, parlare infatti di delitti in ambienti già fortemente problematici non fa tanta notizia, anzi per tutta una serie di pregiudizi culturali il fatto che un bambino possa essere ucciso in una famiglia in cui ci sono problemi economici, psicologici e sociali è "abbastanza normale". Ma parlare di un infanticidio in una famiglia bene, è clamoroso. Basta poi ascoltare le testimonianze dei vicini e conoscenti che sono tutti pronti a giurare sulla sanità mentale della madre, sulla devozione verso la famiglia, sulle cure amorose verso il bambino, sul carattere affettuoso e premuroso, per farsi un'idea di quanto possa essere "accattivante" una situazione come questa. Vengono infatti messi in moto i sentimenti comuni, la solidarietà sociale, la coscienza collettiva, la capacità culturale di lavorare ed elaborare il delitto e si viene quindi a creare una empatia di sentimenti, una "simpatia" del dolore. Ma sulla scena non c'è solo Medea che "recita" o il Coro che dispensa giudizi, ci sono anche altri attori: i familiari dell'omicida. Non esiste legge e non esiste supporto psicologico che li possa tutelare dai loro demoni interiori che si scatenano all'indomani del fatto sanguinoso e la situazione "si complica" nel momento in cui le donne ritornano in seno alla famiglia. Dopo un primo atteggiamento di protezione e collaborazione incondizionata, spesso comincia a serpeggiare la diffidenza e la paura che la madre possa essere recidiva. Il reinserimento sociale è infatti estremamente difficile e lo stigma che caratterizza una donna sarà tale fino alla sua morte. Quando avvengono fatti delittuosi come la morte di un bambino, si spezzano i legami familiari, si frantuma il concetto stesso di famiglia come ricovero, protezione, si sradica il senso comune del vivere quotidiano che viene dalla famiglia e si annulla il significato culturale della socializzazione primaria. Semplicemente essa perde il ruolo fondamentale di guida e di contenitore umorale e appare in tutta la sua fragilità, nella sua incapacità di svolgere un compito che è quello di lenire le ferite provocate da una vita non al passo con i ritmi sempre più vorticosi di una società che muta continuamente pelle.

 

 

NOTE

[1] P. Barbetta, Le radici culturali della diagnosi, pag,21/22, Meltemi, 2003.

[2] P. Camporesi, Il sugo della vita, pag. 5, Garzanti, 1997.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Barbetta P., Le radici culturali della diagnosi, Meltemi 2003.

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Lévi-Strauss C., Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli 1969.

Lombroso C.,  Delitto, genio, follia, Bollati Boringhieri, 2000.

Nivoli G., Medea tra noi: le madri che uccidono il proprio figlio, Carocci 2002.

Guarnieri P., Le attenuanti di Medea, Il Manifesto, 15 giugno 2002

www.anoragenitori.it/sezione/articoli_scientifici/articoli.htm, Criminalità al femminile, personalità, comportamenti e struttura affettiva in prospettiva psicodinamica, 2002, CEIPA.

http://www.clorofilla.it/articolo.asp?articolo=1718, Letteratura psichiatrica da riscrivere, C. Patrignani, 04.04.2002.

http://www.emsf.rai.it/grillo/trasmissioni.asp?d=649 Capacità di intendere e di volere, F. Petrella, 2000.http://www.eures.it , EU.R.E.S., Gli omicidi in ambiente domestico in Italia, Marzo 2002.www.italiadonna.it. La figura della madre nell'800.

www.grandemadre.it, La vedova nera, la Dea che genera e uccide.

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www.studiocelentano.it, Codice Penale, Libro Secondo, Dei delitti in particolare titoli VIII e XIII.