inserito in Diritto&Diritti nel gennaio 2002

Un caso singolare di danno, o presunto tale, in materia di appalti: soluzioni diverse per la medesima fattispecie.

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di Riccardo De Simone

FATTO

In data 10/04/2000, il Comune di XXX invitava la Tizio s.r.l. alla licitazione privata semplificata affinché venisse scelto il contraente di un appalto relativo a “lavori di scavo e ripristino pavimentazioni stradali in bitume lastrico e sistemi speciali, compresa apposizione di segnaletica mobile e pericolo nella zona del III reparto acquedotto” (delibera G.C. n. 385/225 del 4/04/2000).

La Tizio s.r.l. si aggiudicava la gara e, in data 16/06/2000, si vedeva consegnare i lavori de quo.

Sennonché la Caio s.r.l., estromessa dalla gara in ragione della mancanza dei requisiti richiesti, proponeva ricorso avente ad oggetto:

l’annullamento del provvedimento che la escludeva dalla gara (4 maggio 2000, R.U. 129/2000) e del provvedimento di aggiudicazione del 16 maggio 2000 in favore della Tizio s.r.l.;

 il risarcimento del danno subito in seguito alla pretesa illegittima aggiudicazione.

Il TAR Toscana, con sentenza n. 1641/2000, accoglieva il detto ricorso, dichiarando illegittima l’esclusione della Caio s.r.l., in qualità di capogruppo di una A.T.I., e conseguentemente annullando i predetti provvedimenti. Invero, in base ai documenti prodotti dalla Caio s.r.l., il giudice amministrativo ha ritenuto più vantaggiosa l’offerta di quest’ultima, riconoscendole il diritto all’aggiudicazione dell’appalto ed al risarcimento del danno pari al 10% del valore delle opere già realizzate dalla Tizio s.r.l.

In ottemperanza a quanto disposto dal giudice di prime cure, il Comune di XXX risolve il contratto con la Tizio s.r.l. e consegna i lavori alla Caio s.r.l. che esegue le opere pubbliche assegnate.

La Tizio s.r.l. ed il Comune di XXX impugnano la sentenza n. 1641/2000 emessa dal TAR Toscana. Il Consiglio di Stato, con la decisione del 27 aprile 2001, accoglie i ricorsi e annulla la sentenza gravata poiché ritiene il ricorso di primo grado, proposto dalla Caio s.r.l., in parte irricevibile, per decorso del termine di impugnazione del provvedimento, e per la restante parte da rigettare.

ALTERNATIVE DI RISARCIMENTO

La Tizio s.r.l. è un’impresa che opera in un mercato di libera concorrenza in cui un cliente come il Comune di XXX può fare la differenza, rispetto agli altri operatori del settore, ai fini  del conseguimento di un profitto ed una immagine maggiori.

In base a tale considerazione preliminare si dovrà procedere con cautela nella scelta delle possibili alternative dirette ad ottenere il giusto risarcimento per i pregiudizi patiti in seguito alla vicenda suesposta.

Lungi dalla pretesa di voler indicare una soluzione univoca al problema, fanno seguito le diverse strade a mio parere percorribili.

1) Nella quasi totale assenza di riferimenti giurisprudenziali, stante la singolare situazione venutasi a creare a seguito della decisione del Consiglio di Stato, la via, solo apparentemente, più semplice per poter assicurare alla Tizio s.r.l. il risarcimento del danno subito, potrebbe essere quella di considerare l’esecuzione della sentenza del TAR Toscana ad opera del Comune di XXX come l’espressione della volontà di recedere, da parte dell’amministrazione committente, dal contratto già stipulato con la Tizio s.r.l.

La sentenza del TAR non avrebbe lasciato ampi margini di scelta al Comune, costretto a recedere dal precedente contratto stipulato con la Tizio s.r.l. al fine di aggiudicare i lavori alla Caio s.r.l.

Invero, in tale situazione sarebbe applicabile all’appalto di opere pubbliche la disciplina civilistica del recesso ad nutum. Il Consiglio di Stato (Sez. IV n. 1174/1996) non ha dubbi: “nell’appalto, una volta esaurito il procedimento amministrativo d’individuazione del contraente dell’amministrazione, il rapporto si muove nell’orbita civilistica, ivi comprese le sue vicende risolutive”.

Anche la Corte di Cassazione sembra non opporsi all’applicazione dell’istituto del recesso ad nutum al contratto di appalto di opere pubbliche (Cass. 28 dicembre 1983, n. 7150).

Sulla base dei suddetti orientamenti, la Tizio s.r.l. ben potrebbe farsi portatrice di un diritto al risarcimento del danno.

A fondamento di ciò occorre ricordare che la legislazione speciale in materia di appalti pubblici, all’art. 345 l. n. 2248/1865, All. F, Legge sulle opere pubbliche, prevede lo jus poenitendi dell’amministrazione non senza la corresponsione di una somma a titolo di risarcimento: “è facoltativo all’amministrazione di risolvere in qualunque tempo il contratto, mediante pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell’importare delle opere non eseguite” (il grassetto è mio).

Il D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 (“Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994, n. 109”), fatti salvi gli artt. 340 e 345 l. 2248/1865, All. F, prevede, all’art. 122, il diritto di recesso dal contratto della stazione appaltante. Tale diritto, dispone l’art. 122 citato, può essere esercitato “in qualunque tempo (…) previo pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere non eseguite”.

In base a ciò, l’appaltatore che, facendo legittimamente affidamento sulla buona riuscita del contratto, si veda sottrarre un appalto, a lui aggiudicato legittimamente, dall’esecuzione di una sentenza originata da un ricorso viziato in radice perché irricevibile, ha diritto al risarcimento del danno.

Lo stesso TAR Toscana, con la sentenza 29 settembre 1999, n. 249, ha deciso in tal senso: “l’intervenuta aggiudicazione di un’asta pubblica o licitazione privata a favore del vincitore non preclude all’amministrazione, nell’ambito del paritetico rapporto contrattuale ormai instaurato, di rescindere il contratto ex art. 340 l. 2248/1865, All. F, per inadempimento dell’appaltatore o di risolverlo ex art. 345 l. cit., esercitando il recesso unilaterale ivi sancito: in tale ultima ipotesi lo ius poenitendi, configurante un diritto potestativo con effetti estintivi ex nunc sul rapporto contrattuale, origina in capo all’appaltatore il diritto al risarcimento (o indennizzo con funzione risarcitoria) previsto dall’art. 345 l. cit., a prescindere dalla legittimità o meno del recesso”.

Nel caso di specie il recesso del Comune è avvenuto ingiustificatamente e senza attendere l’esito finale del giudizio di fronte al Consiglio di Stato, tra l’altro instaurato anche con ricorso dello stesso Comune.

Tali argomentazioni sembrerebbero fugare i dubbi sull’effettivo riconoscimento di un diritto al risarcimento in favore dell’appaltatore a seguito di recesso senza giusta causa, escludendo qualsiasi diatriba in ordine alla presenza dell’elemento soggettivo, poiché la responsabilità dell’amministrazione si verrebbe a configurare come contrattuale e non aquiliana.

2)  L’amministrazione comunale, dunque, dopo aver stipulato un contratto, assoggettato come detto alla disciplina civilistica, ha dato esecuzione ad una sentenza e di conseguenza è venuta meno agli obblighi contrattualmente assunti.

Il recesso ad nutum, quindi, configura un inadempimento dell’amministrazione committente che, concluso il contratto con la Tizio s.r.l., non esegue la prestazione dovuta e con il suo comportamento, lungi dall’essere conforme a correttezza e buona fede, come prescrivono gli artt. 1175 e 1176 c.c., impedisce all’appaltatore di portare ad esecuzione il contratto, con grande dispendio di uomini e mezzi.

La Corte d’Appello di Roma sembra concordare con tale ricostruzione: “il recesso unilaterale dell’amministrazione del contratto, ancorché tempestivo rispetto ad una clausola del bando, non preclude, tuttavia, il diritto dell’impresa al risarcimento del danno che consegue all’inadempimento di obblighi contrattuali in cui l’amministrazione medesima sia incorsa in precedenza” (App. Roma 12 febbraio 1990; il grassetto è mio).

Altrettanto interessante è la pronuncia della Corte di Cassazione, n. 1114/1995, che, sempre in tema di appalto di opere pubbliche, qualifica il corrispettivo previsto dall’art. 345 l. 2248/1865, All. F, per l’impresa appaltatrice in caso di recesso come “parametro per la determinazione del lucro cessante”, nella diversa ipotesi della responsabilità risarcitoria dell’amministrazione per inadempimento.   

 Oltre alla somma dovuto a titolo di risarcimento, spetterebbero al primo aggiudicatario gli interessi di mora sul credito (art. 1224 c.c.) da lui vantato per i lavori eseguiti nel periodo antecedente al recesso, mentre sui crediti per i beni esistenti in cantiere e per il decimo dell’importo delle opere non eseguite l’appaltatore ha diritto ai soli interessi nella misura legale (art. 1284 c.c.).

Le ipotesi prospettate sub 1) e 2) potrebbero essere condivise in quanto più facilmente sostenibili, stante l’inversione dell’onere della prova in capo all’amministrazione debitrice in base al disposto dell’art. 1218 c.c., che consentirebbe una facilitazione di non poco conto per l’accertamento del diritto della Tizio s.r.l. a vedersi risarcire il danno patito e riequilibrare la situazione patrimoniale.    

3) Per offrire una visione più ampia del problema non bisogna trascurare la possibilità di richiedere, oltre al risarcimento del danno di cui sopra, l’indennizzo ex art. 2041 c.c. nei confronti di chi, senza giusta causa, si sia arricchito.

Infatti, la Tizio s.r.l. al momento del recesso aveva già dato inizio ai lavori, aveva già impiantato un cantiere, sobbarcandosi le spese del primo segmento di lavoro o, quanto meno, i costi di installazione del cantiere, costituite da talune indispensabili operazioni preliminari, necessarie perché possano essere eseguite le prestazioni contrattuali, non compensate da una specifica voce di corrispettivo, ma destinate ad essere ammortizzate solo con il conseguimento dell’intero compenso contrattuale.

Di tutto ciò andrà a beneficiare il secondo aggiudicatario che avrà, senza costo alcuno, la disponibilità di un cantiere già realizzato, di cui avvalersi per l’esecuzione di un successivo lotto di prestazioni non ancora eseguite dal primo aggiudicatario.

In ipotesi come questa, non può non riconoscersi al giudice la necessaria discrezionalità nel riequilibrare le posizioni in campo, in specie nel determinare quale frazione dell’indennità spettante al primo aggiudicatario sia da porre a carico della stazione appaltante a fronte dell’ingiustificato arricchimento conseguito e quale parte debba addebitarsi all’impresa sostituita.

4) Non priva di fascino, ma un po’ azzardata, sembra essere la qualificazione del contratto in questione quale contratto accessivo del provvedimento.

Il contratto di appalto, infatti, è l’esempio più classico di contratto ad evidenza pubblica in cui la fase precontrattuale è soggetta a rigide regole, basti pensare alle modalità di scelta del contraente, mentre la successiva fase di esecuzione sottosta alla disciplina civilistica, salvo taluni privilegi ancora concessi al committente pubblico rispetto al privato.

Ebbene, l’accordo di esecuzione di lavori pubblici potrebbe essere inquadrato in una figura affine all’appalto, cioè quale contratto accessivo al provvedimento di concessione dei lavori, con cui il Comune di XXX avrebbe attribuito alla Tizio s.r.l. la facoltà di eseguire le opere.

L’atto successivo alla concessione risulterebbe configurarsi come un contratto con cui amministrazione e privato, sullo stesso piano, concordino le modalità di esecuzione del provvedimento concessorio.

Applicando la costruzione al caso concreto si verrebbe a creare un inadempimento del Comune di XXX cui dovrebbe seguire un indennizzo risarcitorio in favore della Tizio s.r.l., in base all’art. 37-septies, co.1, l. 109/1994, introdotto dalla c.d. legge Merloni-ter: “Qualora il rapporto di concessione sia risolto per inadempimento del soggetto concedente ovvero quest’ultimo revochi la concessione per motivi di pubblico interesse, sono rimborsati al concessionario:

il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti, ovvero, nel caso in cui l’opera non abbia ancora superato la fase di collaudo, i costi effettivamente sostenuti dal concessionario;

le penali e gli altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza della risoluzione;

un indennizzo a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10% del valore delle opere ancora da eseguire ovvero della parte del servizio ancora da gestire valutata sulla base del piano economico-finanziario”.    

Dall’accordo così configurato scaturirebbero situazioni inquadrabili tra i diritti soggettivi piuttosto che tra gli interessi legittimi, dunque sarebbe più agevole l’individuazione del giudice competente (A.G.O.), ma la probabile forzatura ricostruttiva non pare condivisibile appieno.

5) Difficoltà maggiori si incontrano qualora si volesse richiedere il risarcimento del danno ex art. 35 d.lgs. 80/1998, come modificato dall’art. 7 l. 205/2000. Innanzitutto non è di facile soluzione la questione relativa alla situazione giuridica soggettiva del soggetto danneggiato.

La Tizio s.r.l., infatti, potrebbe essere titolare di una situazione giuridica soggettiva qualificabile alla stregua di interesse legittimo pretensivo, relativamente all’incarico di portar a termine i lavori, poi assegnati alla Caio s.r.l. da una sentenza del TAR.

Sembra, invece, a chi scrive che la situazione soggettiva de quo possa essere riconducibile alla categoria degli interessi legittimi oppositivi, in ragione del fatto che la Tizio s.r.l. aveva interesse ad opporsi al provvedimento negativamente incidente sulla sua sfera giuridica ed infatti ha ottenuto l’annullamento della sentenza eseguita, forse troppo frettolosamente, dall’amministrazione.

Inoltre, non è agevole individuare la responsabilità dell’amministrazione che, pur agendo in ottemperanza ad una sentenza poi annullata, abbia tenuto una condotta lesiva.

Invero, è interessante poter dimostrare in che modo il Comune di XXX abbia agito in violazione delle comuni regole di prudenza, procedendo all’aggiudicazione dei lavori alla Caio s.r.l., senza attendere l’esito del processo e dell’istanza sospensiva contenuta nel ricorso in appello della Tizio s.r.l.

Un comportamento di tal fatta, alla luce dei recentissimi orientamenti del Consiglio di Stato, “denota certamente la presenza, insieme al nesso causale, di un elemento psicologico rilevante ai fini della configurazione del danno ingiusto procurato e della sua risarcibilità” (Cons. St., sez. IV, 13 settembre 2001, n. 4783). Senza dimenticare che, in base a quanto affermato sempre dal Consiglio di Stato, la colpa dell’amministrazione si presume a fronte dell’accertata illegittimità del provvedimento lesivo e quindi incombe sull’amministrazione l’onere di provare la sussistenza di un errore scusabile (Cons. St., sez. V, 24 aprile-6 agosto 2001, n. 4239).

In altre parole, l’accertamento dell’illegittimità della condotta tenuta dal Comune di XXX rappresenterebbe l’indice “grave, preciso e concordante” della colpa dell’amministrazione. In ragione di ciò sarebbe sufficiente dimostrare l’illegittimità del comportamento del Comune per ricavare la violazione delle regole di tutela e cautela, mentre graverebbe sull’amministrazione l’onere di fornire gli elementi probatori al fine di provare che “l’inadempimento è dipeso da causa a lei non imputabile”.

L’illegittimità della condotta comunale, lesiva della posizione giuridica soggettiva della Tizio s.r.l., farebbe sorgere, sempre secondo il Consiglio di Stato, “una responsabilità assimilabile a quella di tipo contrattuale (artt. 1218 e ss. c.c.) e non una responsabilità aquiliana pura”, con tutte le conseguenze del caso. 

Sembra utile riportare una massima che offre ancora spunti per delle riflessioni: “non può essere accolta la domanda di risarcimento del danno a norma dell’art. 35 d.lgs. 80/1998, nell’ipotesi in cui sia stato pronunciato l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione o di connessi provvedimenti illegittimi in materia di pubblici appalti, ove non sia provata l’esistenza del danno patrimoniale a carico del soggetto ricorrente e del nesso eziologico con i provvedimenti illegittimi annullati, in relazione alle concrete modalità della fattispecie, quali trattative precontrattuali e gli obblighi di buona fede che ne siano derivati” (Cons. St., sez. IV, 14 gennaio 2000, n. 244; il grassetto è mio).

Venendo alla quantificazione e determinazione del danno patrimoniale subito dalla Tizio s.r.l. occorrerà distinguere tra danno emergente e lucro cessante.

Sul versante del danno emergente vanno apprezzate le spese sostenute per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara e l’approntamento dei relativi progetti.

Si ricordi che le norme comunitarie (art. 2, co. 7, direttiva del Consiglio CE, 25 febbraio 1992, 92/13/CEE) prevedono, oltre al risarcimento integrale, la possibilità di un risarcimento limitato ai solo “costi di preparazione di un’offerta o di partecipazione ad una procedura di aggiudicazione”.

Il nucleo centrale del danno consiste nel pregiudizio economico subito dall’impresa: a) per l’inutile immobilizzazione delle risorse umane e mezzi tecnici, parte dei quali può essere stata anche appositamente acquistata; b) per le spese di impianto cantiere; c) per il primo segmento di lavori eseguiti.

In merito al lucro cessante si deve rilevare che la partecipazione ad una gara può anche costringere l’impresa a non imbarcarsi in altri impegni lavorativi, che, almeno teoricamente, impegnerebbero energie e mezzi dell’impresa nel medesimo periodo. Problematica è, in particolare, l’individuazione del pregiudizio relativamente all’utile economico che sarebbe derivato dall’esecuzione dell’appalto non avvenuta per illegittimità dell’azione amministrativa.

L’utile economico è generalmente reputato pari al 10% del valore dell’appalto (in tal senso la recente sentenza del TAR Campania, 6 aprile 2001).

La singolare situazione venutasi a creare in capo alla tizio s.r.l. rende difficile il rinvenimento di materiale giurisprudenziale ad hoc, risulterà, dunque, necessario uno sforzo interpretativo ulteriore per adattare le sentenze che seguono al caso concreto.

In ordine all’ammontare del risarcimento va segnalata la pronuncia del TAR Abruzzo, 23 settembre 1999, n. 750, la quale, nel riconoscere il risarcimento ad una ditta ritenuta illegittimamente non aggiudicataria in una gara avente ad oggetto dei lavori di potenziamento del sistema di acquedotti, ha individuato i criteri cui attenersi per il risarcimento nei seguenti modi: “a) determinare i danni che, a seguito dell’illegittima procedura, la ditta ha subito per la semplice partecipazione alla gara; individuare la somma che, eventualmente in base all’ammontare dei lavori di appalto, avrebbe costituito il compenso netto per l’impresa; b) in alternativa concordare una somma che, fermi i danni subiti per la partecipazione alla gara, possa rifondere la ditta ricorrente dei danni subiti per la mancata aggiudicazione, indennizzo determinato in quota parte del compenso dell’impresa in caso di realizzazione dei lavori, mentre il comportamento dell’amministrazione ha comunque impedito alla ditta di ottenere questa chance; in aggiunta a tale cifra andrà determinato il mancato danno subito dall’amministrazione nell’aver evitato il ricorso ad una nuova procedura e tale aspetto andrà anche considerato nella determinazione del risarcimento”.

Inoltre, va segnalata la sentenza del TRGA, sez. Bolzano n. 1, del 9 gennaio 2001, con la quale, sempre in riferimento alla quantificazione del danno in materia di appalti, si è stabilito che: "Il danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare, va liquidato ai sensi dell'art. 1226 c.c., assumendo come parametro di valutazione il danno complessivamente considerato per la mancata aggiudicazione, diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di probabilità teorica di conseguirla. Ritiene il Collegio che tale coefficiente di riduzione, tenuto conto dell'ampiezza dei poteri discrezionali che residuano all'Amministrazione dopo l'annullamento dei provvedimenti de quibus, vada equitativamente stabilito nella misura del 90 %. Il danno risarcibile va quindi stabilito, in via equitativa, nella misura del 10 % (dieci per cento) della somma del danno totale presumibile".

Una fonte positiva al riguardo è data dal già menzionato art. 345 della l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, Legge sulle opere pubbliche, il quale esplicitamente quantifica il danno risarcibile a favore dell'appaltatore, sancendo una tantum, un criterio di liquidazione uniforme ed automatico, giustificato sia dal fatto di ovviare ad indagini alquanto difficoltose ed aleatorie, sia dallo scopo di cautelare la p.a. da eventuali richieste di liquidazioni eccessive.

Del resto, anche in ambito comunitario le elaborazioni giurisprudenziali, nel quantificare il lucro cessante dell'imprenditore, si incentrano sul decimo del valore residuo dell'appalto in esecuzione (su tale linea, Corte di Giustizia CE, 1 giugno 1995, causa 42/94, Heidemij Advuies BV c. Parlamento Europeo, sulla controversia relativa alla risoluzione unilaterale del contratto di appalto per la sorveglianza della costruzione di edifici nell'ambito dell'ampliamento del Parlamento di Bruxelles).

Fino a questo momento abbiamo dato per scontato che la forma di risarcimento da richiedere fosse esclusivamente per equivalente, ossia che avvenisse attraverso il versamento di una somma di denaro, mentre potrebbe prospettarsi un’altra ipotesi.

L’art. 35 d.lgs. 80/1998, infatti, prevede anche il potere di disporre una reintegrazione in forma specifica. Il giudice amministrativo avrà il compito di verificare se tale rimedio sia “in tutto o in parte possibile”, come richiesto dall’art. 2058 c.c.

Nel caso di specie sembrerebbe impensabile una tale soluzione in quanto i lavori assegnati alla Caio s.r.l. sono stati da essa realizzati, senza la possibilità di ripristino della situazione preesistente.

Nell’inquietante silenzio del legislatore, la reintegrazione in forma specifica potrà essere realizzata anche in casi e modalità diverse.

Invero, partendo dal presupposto che tale rimedio si possa estrinsecare con “la sostituzione della cosa danneggiata da parte del danneggiante con altra di identiche qualità”, come ci insegna G. Alpa, il giudice amministrativo potrebbe spingere la sua pronuncia di reintegrazione in forma specifica fino ad impegnare l’amministrazione su un piano o su un terreno diverso da quello oggetto del giudizio, ordinando al Comune di XXX di affidare alla Tizio s.r.l. un lavoro equivalente a quello per cui ha fatto ricorso.

La soluzione è, forse, troppo fantasiosa, comunque sia il giudice competente potrebbe essere il Consiglio di Stato (art. 27 n. 4 T.U Cons. St.), in sede di ottemperanza di una sua sentenza di accoglimento senza rinvio, poiché, stante l’inadempimento dell’amministrazione all’obbligo di conformarsi al giudicato, ben potrebbe adottare tutte le misure intimatorie e ripristinatorie del caso.

A ben guardare sorgerebbero subito delle problematiche non facilmente risolvibili.

L’amministrazione sarebbe impossibilitata a conformarsi al giudicato per le ragioni sopra esposte, quindi si tratterebbe di un caso classico di sopravvenienza di fatto, in altre parole l’evoluzione degli eventi ha reso impossibile l’esecuzione del giudicato, dunque l’effetto ripristinatorio non è possibile se non attraverso la creativa e fantasiosa ipotesi poc’anzi sostenuta.

Gli argomenti a contrario non mancano di certo, basti pensare all’applicazione del principio generale quod factum infectum fieri nequit ad opera del Consiglio di Stato (27 gennaio 1991, n. 874), che ritiene impossibile l’esecuzione del giudicato in caso di rapporti esauriti e termini scaduti.

6) Tutto ciò non deve far dimenticare quanto detto all’inizio, cioè che la Tizio s.r.l. in quanto tale è un’impresa privata che opera in un mercato di libera concorrenza, di conseguenza si è verificata una vulnerazione meno lampante, ma altrettanto profonda a seguito dell’aggiudicazione alla Caio s.r.l. dell’appalto di lavori pubblici.

Oltre al mancato conseguimento dell’utile programmato, la Tizio s.r.l. ha subito, infatti, un danno alla competitività, derivante dalla mancata esecuzione dell’appalto e dalla mancata acquisizione di credenziali e qualificazioni per eventuali ulteriori appalti, in termini di credibilità e prestigio, che le sarebbero potute derivare dalla corretta esecuzione dell’appalto.

Su quest’ultimo piano si deve rimarcare che l’interesse alla vittoria di un appalto, nella vita dell’impresa, va ben oltre l’interesse all’esecuzione dell’opera e del relativo incasso. Alla mancata esecuzione corretta di un’opera appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all’immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti, come la Caio s.r.l., che operano sul medesimo “target” di mercato.

Qui il terreno della prova si fa ancora più scivoloso, posto che, ammettendo una sorta di “danno per immagine depotenziata”, si entra nelle “sabbie mobili” di un danno non agevolmente quantificabile.   

7) Occorre, infine, tentare di risolvere una questione, che per la verità sarebbe preliminare, vale a dire il problema della competenza.

Nel corso dell’esame delle varie soluzione prospettabili si è accennato alle diverse possibilità di scelta del giudice amministrativo competente.

Se volessimo chiedere un risarcimento del danno per equivalente puro e semplice, il giudice competente dovrebbe essere il TAR, in base all’art. 35 d.lgs. 80/1998, come modificato dall’art.7 l. 205/2000.

Tale riforma, infatti, istituisce un vero e proprio giudice del risarcimento, in deroga al generale criterio di riparto basato sulla dicotomia interessi legittimi-giudice amministrativo, diritti soggettivi-giudice ordinario.

L’art. 7 l. 205/2000 introduce una regola speciale, un’eccezione al criterio generale, che crea un'altra materia di giurisdizione esclusiva, vale a dire la materia risarcitoria.

Ciò posto, il giudice amministrativo sembra essere competente a conoscere della controversia che potrebbe sorgere nei confronti del Comune in ordine al risarcimento del danno ingiustamente patito dalla Tizio s.r.l.

Qualora, invece, dovesse essere richiesto un indennizzo risarcitorio a seguito del recesso unilaterale dell’amministrazione, ci troveremmo di fronte ad uno spinoso problema interpretativo.

Una corrente giurisprudenziale, infatti, ritiene competente il giudice amministrativo “in base ad una interpretazione estensiva dell’art. 33, d.lgs. 80/1998” nella “controversia relativa al recesso unilaterale ex art. 345 l. 2248/1865, da parte del committente pubblico ed al conseguente obbligo di pagamento dell’indennizzo risarcitorio ivi previsto” (TAR Toscana, 29 settembre 1999,n. 249; dello stesso avviso TAR Calabria, 27 gennaio 2000, n. 71).

Tale soluzione ermeneutica non sembra pienamente condivisibile.

L’art. 33 d.lgs. 80/1998, come modificato dalla l. 205/2000, include nella giurisdizione esclusiva del G.A. anche le controversie “aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, svolte da soggetti comunque tenuti all’applicazione delle norme comunitarie o della normativa nazionale o regionale” sulla scelta del contraente. 

Il dubbio è chiaro: le controversie relative alla fase di esecuzione dei contratti di appalto, tra cui senz’altro occorre far rientrare il recesso ad nutum come causa estintiva del rapporto, possono essere incluse tra quelle conosciute dal G.A., come sostengono i due TAR citati con una interpretazione estensiva dell’art. 33 d.lgs. 80/1998? 

Invero, la fase di esecuzione del contratto di appalto è autonoma e distinta, in quanto di natura privatistica, dalle altre fasi più strettamente legate alla procedura di evidenza pubblica dell’affidamento, che sono poi quelle terminologicamente ricomprese dalla norma. Su tale linea interpretativa si segnala la pronuncia del TAR Marche, 12/03/1999, n. 260, secondo cui “nella chiara espressione “controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici di lavori”, recata dall’art.33, co.2, lett. e), d.lgs. 80/1998, in tema di giurisdizione esclusiva del G.A., non sono ricomprese le controversie attinenti alla esecuzione del contratto di appalto di lavori pubblici, e, quindi, anche quelle relative alla risoluzione per inadempimento. Dal tenore letterale della norma si evince infatti che  la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del G.A. sancita dalla disciplina in menzione riguarda soltanto le controversie attinenti a tali procedure di affidamento (e relative fasi), ma non anche quelle inerenti alla successiva e ben distinta esecuzione del contratto (di natura privatistica), stipulato a seguito della conclusione del procedimento di affidamento dell’appalto di opera pubblica”.

Ancora, “esulano dall’ambito dell’art. 33 d.lgs. 80/1998 – e quindi dalla cognizione del giudice amministrativo – tutte le controversie che sorgono nella fase privatistica ulteriore e successiva alla stipula del pubblico contratto (nella specie, di appalto di fornitura)” (TAR Basilicata, 1, giugno 1999, n. 198).

Nello stesso senso anche TAR Campania 2553/1999 e, sebbene con argomentazioni coinvolgenti diversi profili, la Corte di Cassazione, Sez. Un., sent. n. 72/2000[1].

La questione non sembra di facile soluzione.

 

 

RICCARDO DE SIMONE

 

 


[1] “Non rientrano nella giurisdizione esclusiva del G.A. di cui all’art. 33 d.lgs. 80/1998, le controversie attinenti alla fase esecutiva dei contratti d’appalto di fornitura, stipulati dal gestore di pubblico servizio, aventi ad oggetto l’acquisizione di beni o prestazioni strumentali al servizio stesso. Spetta dunque al giudice ordinario la cognizione sulla domanda di un comune volta ad ottenere la risoluzione del contratto avente ad oggetto la preparazione e la consegna dei pasti per le scuole comunali, per inadempimento del fornitore.”